Riflettendo sulla solitudine del cittadino globale, Bauman (2000) ci ricorda come questi sia dilaniato da una un’incoerenza di fondo tra due credenze fondamentali nella sua esistenza: se, da una parte, considera una questione risolta il diritto al pieno esercizio delle libertà e, tra queste, la libertà di immaginare una versione migliore del mondo rispetto a quella offerta dalla globalizzazione, tende a credere, dall’altra, che, in realtà, non si possa fare poi molto per cambiare la situazione in atto e, in particolare, per intervenire sui suoi aspetti disfunzionali migliorandoli. Riflettere sulla globalizzazione richiede, dunque, preliminarmente che si lavori sulla consapevolezza di questa particolare contraddizione, invitando a propendere per il secondo degli usi che Bauman, citando Bourdieu, riferisce che se ne possano fare - ossia quello cinico, orientato ad asservire la conoscenza al proprio vantaggio personale, e quello clinico, teso, invece, a far sì che ci si avvalga di essa quale utile strumento per combattere più efficacemente ciò che si considera sbagliato -, consapevoli del fatto che anche se da sola la conoscenza non ci solleverà dall’onere della scelta, senza di essa, tuttavia, non esisterebbe la scelta come possibilità. È in ragione di questo esercizio di libertà, percepito come non più eludibile in ordine alle tante emergenze che caratterizzano la globalizzazione, che ci si appresta a esplorarne l’anatomia riflettendo preliminarmente su quale approccio sia più opportuno adottare, consapevoli della necessità di dover sottrarre la scelta al rischio della semplificazione e di dover considerare, pertanto, con Mancini (2002) che tra l’approccio apocalittico, reso operativo dai movimenti no global, e quello integrato, espressione di quanti traggono il maggior profitto da questo sistema, vi sono anche quello riformista, che proietta un’immagine della globalizzazione considerata al contempo insuperabile, non governabile e comunque fruttuosa, quello rassegnato, ormai arresosi ai dettami di un meccanismo giudicato troppo radicato e pervasivo per poter essere modificato, e, da ultimo, quello critico-euristico, che, pur non rinunciando alla severità dello sguardo sulle crisi che la globalizzazione determina, riesce ad individuare nelle latenze positive che comunque presenta i semi di una tanto possibile quanto necessaria sua riconfigurazione pensata nel segno del bene comune. È nell’alveo di quest’ultimo approccio, che assume particolare valore la lezione di Banfi (1955), magistralmente portata a sintesi da Baldacci (2020a), sulla necessità di una presa in carico collettiva delle crisi che miri a riconoscerne la matrice comune e a condurre un’analisi delle loro peculiarità che si caratterizzi per essere così spregiudicata e profonda da prefigurare quale suo auspicato e, al contempo, audace esito quello di porne in luce il senso positivo (Banfi, 1955). Accogliamo, pertanto, questo invito come dispositivo euristico in ordine alla domanda se sia ancora possibile e in che modo intercettare in alcuni aspetti caratterizzanti la globalizzazione le condizioni per portare finalmente a maturità la fragile coscienza di appartenere ad una medesima civiltà della Terra (Ceruti, 2018) e avverare, così, quel promesso (e mai realizzato) orizzonte di senso umanizzante conformato alla necessità di contrastare la perdita di qualità umane negli individui, nelle relazioni, nelle istituzioni e nella società a cui possano finalmente attingere tanto la coscienza collettiva quanto i percorsi esistenziali personali. E, contestualmente, da una prospettiva più eminentemente pedagogica, alla domanda su quali siano le risorse da mobilitare per rispondere all’invito «[…] che la storia ci rivolge, a recitare il nostro ruolo sulla scena» (Mordacci, 2017, p. 104) di una contemporaneità variamente definita - post-modernità (Lyotard, 2008), seconda modernità (Beck, 2013), modernità liquida (Bauman, 2011), modernità riflessiva (Giddens, 1981; 1994) - ma sempre e comunque problematica, alla ricerca dei fondamenti di una revisione degli errori che la affliggono e di una conciliazione sostenibile dei fattori in tensione che la animano (Mordacci, 2017). Coerentemente con queste premesse e in ordine agli scopi delineati, si adotterà, quindi, l’atteggiamento metodologico di Banfi basato sull’uso critico della ragione, in riferimento al quale si organizzerà il discorso distinguendo due piani di analisi: il primo piano riguarderà la comprensione razionale e si articolerà in una duplice disamina, tanto della problematica culturale quanto delle scelte educative che ne conseguono, operazioni cognitive funzionali all’identificazione dei poli dell’antinomia; il secondo piano riguarderà, invece, la formulazione dell’ipotesi di superamento della relazione identificata.
Dominare la contingenza al tempo della globalizzazione. Elogio dell’educazione difficile.
ines giunta
In corso di stampa
Abstract
Riflettendo sulla solitudine del cittadino globale, Bauman (2000) ci ricorda come questi sia dilaniato da una un’incoerenza di fondo tra due credenze fondamentali nella sua esistenza: se, da una parte, considera una questione risolta il diritto al pieno esercizio delle libertà e, tra queste, la libertà di immaginare una versione migliore del mondo rispetto a quella offerta dalla globalizzazione, tende a credere, dall’altra, che, in realtà, non si possa fare poi molto per cambiare la situazione in atto e, in particolare, per intervenire sui suoi aspetti disfunzionali migliorandoli. Riflettere sulla globalizzazione richiede, dunque, preliminarmente che si lavori sulla consapevolezza di questa particolare contraddizione, invitando a propendere per il secondo degli usi che Bauman, citando Bourdieu, riferisce che se ne possano fare - ossia quello cinico, orientato ad asservire la conoscenza al proprio vantaggio personale, e quello clinico, teso, invece, a far sì che ci si avvalga di essa quale utile strumento per combattere più efficacemente ciò che si considera sbagliato -, consapevoli del fatto che anche se da sola la conoscenza non ci solleverà dall’onere della scelta, senza di essa, tuttavia, non esisterebbe la scelta come possibilità. È in ragione di questo esercizio di libertà, percepito come non più eludibile in ordine alle tante emergenze che caratterizzano la globalizzazione, che ci si appresta a esplorarne l’anatomia riflettendo preliminarmente su quale approccio sia più opportuno adottare, consapevoli della necessità di dover sottrarre la scelta al rischio della semplificazione e di dover considerare, pertanto, con Mancini (2002) che tra l’approccio apocalittico, reso operativo dai movimenti no global, e quello integrato, espressione di quanti traggono il maggior profitto da questo sistema, vi sono anche quello riformista, che proietta un’immagine della globalizzazione considerata al contempo insuperabile, non governabile e comunque fruttuosa, quello rassegnato, ormai arresosi ai dettami di un meccanismo giudicato troppo radicato e pervasivo per poter essere modificato, e, da ultimo, quello critico-euristico, che, pur non rinunciando alla severità dello sguardo sulle crisi che la globalizzazione determina, riesce ad individuare nelle latenze positive che comunque presenta i semi di una tanto possibile quanto necessaria sua riconfigurazione pensata nel segno del bene comune. È nell’alveo di quest’ultimo approccio, che assume particolare valore la lezione di Banfi (1955), magistralmente portata a sintesi da Baldacci (2020a), sulla necessità di una presa in carico collettiva delle crisi che miri a riconoscerne la matrice comune e a condurre un’analisi delle loro peculiarità che si caratterizzi per essere così spregiudicata e profonda da prefigurare quale suo auspicato e, al contempo, audace esito quello di porne in luce il senso positivo (Banfi, 1955). Accogliamo, pertanto, questo invito come dispositivo euristico in ordine alla domanda se sia ancora possibile e in che modo intercettare in alcuni aspetti caratterizzanti la globalizzazione le condizioni per portare finalmente a maturità la fragile coscienza di appartenere ad una medesima civiltà della Terra (Ceruti, 2018) e avverare, così, quel promesso (e mai realizzato) orizzonte di senso umanizzante conformato alla necessità di contrastare la perdita di qualità umane negli individui, nelle relazioni, nelle istituzioni e nella società a cui possano finalmente attingere tanto la coscienza collettiva quanto i percorsi esistenziali personali. E, contestualmente, da una prospettiva più eminentemente pedagogica, alla domanda su quali siano le risorse da mobilitare per rispondere all’invito «[…] che la storia ci rivolge, a recitare il nostro ruolo sulla scena» (Mordacci, 2017, p. 104) di una contemporaneità variamente definita - post-modernità (Lyotard, 2008), seconda modernità (Beck, 2013), modernità liquida (Bauman, 2011), modernità riflessiva (Giddens, 1981; 1994) - ma sempre e comunque problematica, alla ricerca dei fondamenti di una revisione degli errori che la affliggono e di una conciliazione sostenibile dei fattori in tensione che la animano (Mordacci, 2017). Coerentemente con queste premesse e in ordine agli scopi delineati, si adotterà, quindi, l’atteggiamento metodologico di Banfi basato sull’uso critico della ragione, in riferimento al quale si organizzerà il discorso distinguendo due piani di analisi: il primo piano riguarderà la comprensione razionale e si articolerà in una duplice disamina, tanto della problematica culturale quanto delle scelte educative che ne conseguono, operazioni cognitive funzionali all’identificazione dei poli dell’antinomia; il secondo piano riguarderà, invece, la formulazione dell’ipotesi di superamento della relazione identificata.I documenti in ARCA sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.