Nel saggio Proposte per una critica d’arte Roberto Longhi, ribaltando il tradizionale modo di fare “buona critica”, sottolineava l’importanza del giudizio espresso da letterati, poeti, mecenati, mercanti, collezionisti, gente comune, mostrando che esso può essere altrettanto ficcante e convincente di quello, spesso ricco di pregiudizi teorici più che di valide argomentazioni, di conoscitori e addetti ai lavori. È in questo genere di “critica non professionistica” che è possibile far rientrare anche il veneziano Maurizio Moro, canonico di San Giorgio in Alga e letterato, vissuto tra la fine del 1500 e i primi decenni del 1600. Relativamente al mondo dell’arte, la conoscenza dell’autore da parte degli specialisti è limitata alla sua partecipazione all’edizione veneziana della Piccola Passione di Dürer del 1612 e al libretto funebre da lui offerto a Carlo Saraceni nel 1620. Lo scrittore però diede prova del suo particolare interesse per le arti figurative anche in altre occasioni, non solo adoperando metafore e analogie tratte dal linguaggio artistico, ma soprattutto componendo testi di varia natura – spesso vere e proprie èkphrasis – in onore di opere e artefici. È il caso, tra i tanti, di Jacopo Robusti, detto il Tintoretto. L’ammirazione di Maurizio Moro per la pittura del Tintoretto fu sconfinata, né il poeta veneziano la nascose o la tacque: la dichiarò, anzi, con versi inequivocabili e appassionati, in due dei suoi più ricchi canzonieri, i Tre giardini de’ madrigali (1602) e gli Amorosi stimoli dell’anima penitente (1609). Finora ignorati dagli studi, i testi rivestono grande interesse per la conoscenza dell’atteggiamento di Maurizio Moro nei confronti dell’arte del concittadino maestro e insieme per la ricostruzione della fortuna letteraria del pittore negli anni immediatamente successivi alla sua morte.

«E là vagheggi ’l ciel c’hai già dipinto». Rime di Maurizio Moro in Morte di Jacopo Tintoretto

Milena Bortone
2023-01-01

Abstract

Nel saggio Proposte per una critica d’arte Roberto Longhi, ribaltando il tradizionale modo di fare “buona critica”, sottolineava l’importanza del giudizio espresso da letterati, poeti, mecenati, mercanti, collezionisti, gente comune, mostrando che esso può essere altrettanto ficcante e convincente di quello, spesso ricco di pregiudizi teorici più che di valide argomentazioni, di conoscitori e addetti ai lavori. È in questo genere di “critica non professionistica” che è possibile far rientrare anche il veneziano Maurizio Moro, canonico di San Giorgio in Alga e letterato, vissuto tra la fine del 1500 e i primi decenni del 1600. Relativamente al mondo dell’arte, la conoscenza dell’autore da parte degli specialisti è limitata alla sua partecipazione all’edizione veneziana della Piccola Passione di Dürer del 1612 e al libretto funebre da lui offerto a Carlo Saraceni nel 1620. Lo scrittore però diede prova del suo particolare interesse per le arti figurative anche in altre occasioni, non solo adoperando metafore e analogie tratte dal linguaggio artistico, ma soprattutto componendo testi di varia natura – spesso vere e proprie èkphrasis – in onore di opere e artefici. È il caso, tra i tanti, di Jacopo Robusti, detto il Tintoretto. L’ammirazione di Maurizio Moro per la pittura del Tintoretto fu sconfinata, né il poeta veneziano la nascose o la tacque: la dichiarò, anzi, con versi inequivocabili e appassionati, in due dei suoi più ricchi canzonieri, i Tre giardini de’ madrigali (1602) e gli Amorosi stimoli dell’anima penitente (1609). Finora ignorati dagli studi, i testi rivestono grande interesse per la conoscenza dell’atteggiamento di Maurizio Moro nei confronti dell’arte del concittadino maestro e insieme per la ricostruzione della fortuna letteraria del pittore negli anni immediatamente successivi alla sua morte.
2023
XXXVI
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/10278/5061663
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