Allo scoppio della “crisi dei debiti esteri” nel 1982, l’amministrazione Reagan reagì approntando una “strategia” che attribuiva al FMI un ruolo centrale nel tentativo di impedire che una catena di default sovrani determinasse il crollo delle grandi banche statunitensi (e non solo). Mentre la maggior parte delle analisi della crisi ha osservato che la politica reaganiana mirava a facilitare una svolta in senso neoliberista nei Paesi indebitati, questo saggio prende in esame l’aspra battaglia culturale e politica sostenuta da Reagan negli Stati Uniti perché il Congresso e il suo stesso Partito repubblicano accettassero la sua strategia: infatti, configurando un salvataggio delle banche creditrici da parte del governo e per mezzo di una organizzazione intergovernativa, il piano reaganiano fu radicalmente avversato da un fronte conservatore che lo interpretò come un tradimento intollerabile dei principi del laissez faire e, in definitiva, come un tradimento dello stesso reaganismo. Alla fine di un lungo iter, la strategia dell’amministrazione ottenne la necessaria approvazione congressuale, ma solo grazie al voto determinante di senatori e deputati del Partito democratico. Il saggio inquadra dunque, da una prospettiva inedita, la differenza essenziale tra il neoliberismo storico di cui Reagan fu tra i principali artefici e il “libero mercato” astratto al quale, in linea di principio, il presidente rendeva continuamente omaggio. Più in particolare, esso contribuisce a mostrare come la risposta reaganiana alla crisi dei debiti sia nata come tentativo di sintesi, per certi versi improvvisato e improntato ad un certo pragmatismo, tra le predilezioni ideali dell’amministrazione per lo “stato minimo” e la necessità, ritenuta imperativa, di salvare il sistema bancario statunitense e internazionale.

Neoliberisti contro. Ronald Reagan, la crisi dei debiti esteri e l’opposizione repubblicana al Fondo Monetario Internazionale, 1981-83

D. BASOSI;B. ZACCARIA
2023-01-01

Abstract

Allo scoppio della “crisi dei debiti esteri” nel 1982, l’amministrazione Reagan reagì approntando una “strategia” che attribuiva al FMI un ruolo centrale nel tentativo di impedire che una catena di default sovrani determinasse il crollo delle grandi banche statunitensi (e non solo). Mentre la maggior parte delle analisi della crisi ha osservato che la politica reaganiana mirava a facilitare una svolta in senso neoliberista nei Paesi indebitati, questo saggio prende in esame l’aspra battaglia culturale e politica sostenuta da Reagan negli Stati Uniti perché il Congresso e il suo stesso Partito repubblicano accettassero la sua strategia: infatti, configurando un salvataggio delle banche creditrici da parte del governo e per mezzo di una organizzazione intergovernativa, il piano reaganiano fu radicalmente avversato da un fronte conservatore che lo interpretò come un tradimento intollerabile dei principi del laissez faire e, in definitiva, come un tradimento dello stesso reaganismo. Alla fine di un lungo iter, la strategia dell’amministrazione ottenne la necessaria approvazione congressuale, ma solo grazie al voto determinante di senatori e deputati del Partito democratico. Il saggio inquadra dunque, da una prospettiva inedita, la differenza essenziale tra il neoliberismo storico di cui Reagan fu tra i principali artefici e il “libero mercato” astratto al quale, in linea di principio, il presidente rendeva continuamente omaggio. Più in particolare, esso contribuisce a mostrare come la risposta reaganiana alla crisi dei debiti sia nata come tentativo di sintesi, per certi versi improvvisato e improntato ad un certo pragmatismo, tra le predilezioni ideali dell’amministrazione per lo “stato minimo” e la necessità, ritenuta imperativa, di salvare il sistema bancario statunitense e internazionale.
2023
4
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