Rachel Laudan nella sua recente world history dedicata al cibo definisce gli uomini come animali che cucinano. Il legame sussistente fra la cucina tradizionale di una popolazione ed i prodotti presenti nel suo territorio è un elemento ricorrente nelle narrazioni di storia generale, ma l’autrice sposta l’attenzione sul fatto che, a suo avviso, la configurazione delle società umane in qualche modo dipenda proprio dal come esse cucinano il cibo di cui dispongono. La cucina verrebbe a costituire, secondo tale visione, una delle tecnologie umane più importanti a causa delle interrelazioni molteplici che si instaurerebbero nel tempo tra il cucinare ed i sistemi sociali, politici ed economici, ma anche con i concetti di salute e di malattia ed infine con le nostre credenze etiche e religiose. La cucina sarebbe in ultima analisi modellata nella stessa proporzione dal mondo naturale, cioè dagli ingredienti disponibili nella regione geografica, e dal mondo, in un certo senso sovrannaturale, degli eventi culturali passati e presenti, così come dalle credenze delle popolazioni. Il ragionamento si basa sull’osservazione primigenia che l’atto di cucinare non farebbe altro che, tutto sommato, trasformare elementi quali erbe ed animali in cibo, ovvero qualcosa di commestibile per l’uomo.[1] Tuttavia, disporre di qualcosa di commestibile è una contingenza che gli abitanti delle pendici del Vesuvio non poterono sempre dare per scontato, pur vivendo in un territorio assai fertile e rigoglioso, che può vantare una ricca scelta di prodotti autoctoni e tradizioni culinarie secolari. Il Vesuvio fu molto attivo nel corso del secolo XVIII ed uno dei fenomeni ricorrenti di questa frequente attività vulcanica furono le piogge di ceneri, che contaminarono spesso le acque dei pozzi, così come la frutta e verdura che sarebbero stati destinati ad alimentare la popolazione campana. Queste particolari piogge di materiale vulcanico a volte raggiunsero località anche molto lontane dal Vesuvio poiché la loro direzione e la distanza percorsa dipendevano dai venti. Incerta era pure la loro durata e la loro composizione chimica, dipendendo dal tipo di eruzione e da molti altri fattori imprevedibili. L’evento della pioggia di cenere è tra i momenti più impressionanti nel corso di un’eruzione vulcanica, dal momento che, anche per lassi di tempo non trascurabili, il cielo si può oscurare: sovente nelle descrizioni è scritto che improvvisamente a Napoli si fece notte. Inoltre l’atto di respirare, la funzione più naturale e quindi inconsapevole dell’organismo umano, diventò difficoltoso e perciò destava spavento nei territori colpiti dalla singolare pioggia. Sebbene questo fenomeno sia evidentemente molto delicato da gestire, perché offre alle popolazioni un immaginario foriero d’oscuri presagi, esso si configurava come vera e propria calamità, occupando a tempo pieno gli scienziati, solo quando colpiva una capitale densamente abitata com’era Napoli nel Settecento. Essa era infatti tra le tre città più popolose d’Europa assieme a Parigi e Londra. La circolazione della notizia fra i napoletani che fosse velenoso dissetarsi ai pozzi e cibarsi degli alimenti che erano entrati in contatto con le ceneri poteva causare un vero e proprio rivolgimento dell’ordine pubblico in una città così popolosa e già provata dai danni e dalle paure provocati dall’eruzione del Vesuvio. Si veda per esempio il caso di pioggia di ceneri del giugno 1794, quando il Governo stampò ed affisse nelle strade di Napoli un Avviso al pubblico (un esemplare è conservato presso la biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria) per evitare la diffusione del panico fra la popolazione. Nell’Avviso, a cura di un chimico dell’accademia delle Scienze, si fa esplicito riferimento ad un amatore di chimica incosciente ed inesperto, divulgatore della pericolosa voce che non si dovessero mangiare la frutta e la verdura e bere l’acqua dei pozzi contaminati dalla cenere vulcanica[2]. Altri studiosi s’interessarono alla vicenda ed effettuarono analisi chimiche presso i laboratori che avevano nelle proprie abitazioni. I risultati furono contrastanti, così pure le prese di posizione di chi le aveva effettuate rispetto a cosa dire alla cittadinanza che, ora dopo ora, aveva sempre più bisogno di sapere riguardo alla commestibilità degli alimenti contaminati dalla cenere. Ovvero poteva o non poteva cibarsi di essi? In caso di esito negativo, che si sarebbe potuto fare in alternativa? Fra varie testimonianze e varie rappresentazioni figurative del fenomeno delle piogge di ceneri vesuviane, nei casi più gravi la dimensione pubblica di questo scambio scientifico-politico coinvolse il dibattito sulla chimica, fra esperti ed ufficiali[3]. La chimica, infatti, risultò essere l’unico strumento di cui potersi avvalere per evitare il dilagarsi del sentimento di tragedia imminente fra la popolazione di una capitale che non sapeva se cibarsi o meno dei suoi alimenti quotidiani. Un ruolo eminentemente politico, legato al contenimento dell’ordine pubblico, furono costretti ad esercitare gli studiosi napoletani di chimica, una disciplina scientifica che in quegli anni era a sua volta attraversata da una crisi interna, vale a dire il traumatico passaggio dalla chimica del flogisto alla nouvelle chimie. Il dibattito dei chimici sulla commestibilità degli alimenti a Napoli si intersecò in più punti e momenti con quello legato all’adozione delle nuove teorie chimiche, poiché i risultati divergenti delle analisi delle componenti delle ceneri potevano essere ricondotti al diverso sistema di riferimento teorico dell’operatore chimico, oltre che ai temi di preferenza: la pericolosità dell’ingerire le ceneri col cibo, i danni che ciò poteva causare alla salute degli individui (Antonio Pitaro), le componenti delle ceneri (Michele Ferrara), quale sistema chimico fosse il più efficiente per identificarle correttamente e gli strumenti per compiere tali operazioni analitiche (Francesco Semmola). Infine esistevano ceneri benefiche e ceneri nocive? (Gaetano De Bottis)
Eruzioni e contaminazioni alimentari
GUERRA C
2018-01-01
Abstract
Rachel Laudan nella sua recente world history dedicata al cibo definisce gli uomini come animali che cucinano. Il legame sussistente fra la cucina tradizionale di una popolazione ed i prodotti presenti nel suo territorio è un elemento ricorrente nelle narrazioni di storia generale, ma l’autrice sposta l’attenzione sul fatto che, a suo avviso, la configurazione delle società umane in qualche modo dipenda proprio dal come esse cucinano il cibo di cui dispongono. La cucina verrebbe a costituire, secondo tale visione, una delle tecnologie umane più importanti a causa delle interrelazioni molteplici che si instaurerebbero nel tempo tra il cucinare ed i sistemi sociali, politici ed economici, ma anche con i concetti di salute e di malattia ed infine con le nostre credenze etiche e religiose. La cucina sarebbe in ultima analisi modellata nella stessa proporzione dal mondo naturale, cioè dagli ingredienti disponibili nella regione geografica, e dal mondo, in un certo senso sovrannaturale, degli eventi culturali passati e presenti, così come dalle credenze delle popolazioni. Il ragionamento si basa sull’osservazione primigenia che l’atto di cucinare non farebbe altro che, tutto sommato, trasformare elementi quali erbe ed animali in cibo, ovvero qualcosa di commestibile per l’uomo.[1] Tuttavia, disporre di qualcosa di commestibile è una contingenza che gli abitanti delle pendici del Vesuvio non poterono sempre dare per scontato, pur vivendo in un territorio assai fertile e rigoglioso, che può vantare una ricca scelta di prodotti autoctoni e tradizioni culinarie secolari. Il Vesuvio fu molto attivo nel corso del secolo XVIII ed uno dei fenomeni ricorrenti di questa frequente attività vulcanica furono le piogge di ceneri, che contaminarono spesso le acque dei pozzi, così come la frutta e verdura che sarebbero stati destinati ad alimentare la popolazione campana. Queste particolari piogge di materiale vulcanico a volte raggiunsero località anche molto lontane dal Vesuvio poiché la loro direzione e la distanza percorsa dipendevano dai venti. Incerta era pure la loro durata e la loro composizione chimica, dipendendo dal tipo di eruzione e da molti altri fattori imprevedibili. L’evento della pioggia di cenere è tra i momenti più impressionanti nel corso di un’eruzione vulcanica, dal momento che, anche per lassi di tempo non trascurabili, il cielo si può oscurare: sovente nelle descrizioni è scritto che improvvisamente a Napoli si fece notte. Inoltre l’atto di respirare, la funzione più naturale e quindi inconsapevole dell’organismo umano, diventò difficoltoso e perciò destava spavento nei territori colpiti dalla singolare pioggia. Sebbene questo fenomeno sia evidentemente molto delicato da gestire, perché offre alle popolazioni un immaginario foriero d’oscuri presagi, esso si configurava come vera e propria calamità, occupando a tempo pieno gli scienziati, solo quando colpiva una capitale densamente abitata com’era Napoli nel Settecento. Essa era infatti tra le tre città più popolose d’Europa assieme a Parigi e Londra. La circolazione della notizia fra i napoletani che fosse velenoso dissetarsi ai pozzi e cibarsi degli alimenti che erano entrati in contatto con le ceneri poteva causare un vero e proprio rivolgimento dell’ordine pubblico in una città così popolosa e già provata dai danni e dalle paure provocati dall’eruzione del Vesuvio. Si veda per esempio il caso di pioggia di ceneri del giugno 1794, quando il Governo stampò ed affisse nelle strade di Napoli un Avviso al pubblico (un esemplare è conservato presso la biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria) per evitare la diffusione del panico fra la popolazione. Nell’Avviso, a cura di un chimico dell’accademia delle Scienze, si fa esplicito riferimento ad un amatore di chimica incosciente ed inesperto, divulgatore della pericolosa voce che non si dovessero mangiare la frutta e la verdura e bere l’acqua dei pozzi contaminati dalla cenere vulcanica[2]. Altri studiosi s’interessarono alla vicenda ed effettuarono analisi chimiche presso i laboratori che avevano nelle proprie abitazioni. I risultati furono contrastanti, così pure le prese di posizione di chi le aveva effettuate rispetto a cosa dire alla cittadinanza che, ora dopo ora, aveva sempre più bisogno di sapere riguardo alla commestibilità degli alimenti contaminati dalla cenere. Ovvero poteva o non poteva cibarsi di essi? In caso di esito negativo, che si sarebbe potuto fare in alternativa? Fra varie testimonianze e varie rappresentazioni figurative del fenomeno delle piogge di ceneri vesuviane, nei casi più gravi la dimensione pubblica di questo scambio scientifico-politico coinvolse il dibattito sulla chimica, fra esperti ed ufficiali[3]. La chimica, infatti, risultò essere l’unico strumento di cui potersi avvalere per evitare il dilagarsi del sentimento di tragedia imminente fra la popolazione di una capitale che non sapeva se cibarsi o meno dei suoi alimenti quotidiani. Un ruolo eminentemente politico, legato al contenimento dell’ordine pubblico, furono costretti ad esercitare gli studiosi napoletani di chimica, una disciplina scientifica che in quegli anni era a sua volta attraversata da una crisi interna, vale a dire il traumatico passaggio dalla chimica del flogisto alla nouvelle chimie. Il dibattito dei chimici sulla commestibilità degli alimenti a Napoli si intersecò in più punti e momenti con quello legato all’adozione delle nuove teorie chimiche, poiché i risultati divergenti delle analisi delle componenti delle ceneri potevano essere ricondotti al diverso sistema di riferimento teorico dell’operatore chimico, oltre che ai temi di preferenza: la pericolosità dell’ingerire le ceneri col cibo, i danni che ciò poteva causare alla salute degli individui (Antonio Pitaro), le componenti delle ceneri (Michele Ferrara), quale sistema chimico fosse il più efficiente per identificarle correttamente e gli strumenti per compiere tali operazioni analitiche (Francesco Semmola). Infine esistevano ceneri benefiche e ceneri nocive? (Gaetano De Bottis)File | Dimensione | Formato | |
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