Il saggio propone un’analisi del penultimo dramma di Henrik Ibsen John Gabriel Borkman (1898) prendendo spunto dall’allestimento di Massimo Castri nella stagione 2002-03. In particolare si pone l’accento sul modo in cui Castri realizza la risata e il dialogo assurdo-grottesco nel contesto serio e cupo dello scandaglio etico-esistenziale (aspetti “leggeri” presenti nel testo ibseniano, ma interpretati sulla base di una tradizione teatrale novecentesca successiva a Ibsen). Un altro aspetto su cui si sofferma il saggio è la qualità visionaria del quarto e ultimo atto, dove i personaggi escono dal classico interno borghese verso spazi esterni e naturali, illustrando la dialettica ibseniana tra prigionia e liberazione. Nella fantasmagoria finale dell’homo faber Borkman – non più recluso – la scena diventa, in modo non così diverso dal teatro post-naturalistico di Strindberg, quasi uno spazio psichico. Le ambivalenze di Borkman, e le molteplici interpretazioni critiche possibili sul suo carattere, sono bene evidenziate dalla regia di Castri: Borkman appare sia un creatore, un eroe della modernità e del progresso, un generoso donatore, sia un sognatore mai cresciuto, solipsista e prevaricatore. Le importanti osservazioni di Peter Szondi in Theorie des modernen Dramas sul teatro di Ibsen come teatro di parola, di rievocazione verbale di azioni passate, un teatro sostanzialmente privo di azione presente, sono riviste alla luce della stretta relazione – in John Gabriel Borkman come negli altri drammi borghesi di Ibsen – tra lo svelamento del passato nel presente e l’azione sulla scena (la scelta etica possibile ora) che scaturisce sulla base della nuova consapevolezza. Come dramma sulla vecchiaia e sulle possibilità sprecate, il testo colpisce per la tensione tra il rigor mortis e il fuoco di passioni mai sopite.

John Gabriel Borkman and the modern homo faber. A reading of the play as seen through Massimo Castri's second staging

CIARAVOLO, Massimo
2007-01-01

Abstract

Il saggio propone un’analisi del penultimo dramma di Henrik Ibsen John Gabriel Borkman (1898) prendendo spunto dall’allestimento di Massimo Castri nella stagione 2002-03. In particolare si pone l’accento sul modo in cui Castri realizza la risata e il dialogo assurdo-grottesco nel contesto serio e cupo dello scandaglio etico-esistenziale (aspetti “leggeri” presenti nel testo ibseniano, ma interpretati sulla base di una tradizione teatrale novecentesca successiva a Ibsen). Un altro aspetto su cui si sofferma il saggio è la qualità visionaria del quarto e ultimo atto, dove i personaggi escono dal classico interno borghese verso spazi esterni e naturali, illustrando la dialettica ibseniana tra prigionia e liberazione. Nella fantasmagoria finale dell’homo faber Borkman – non più recluso – la scena diventa, in modo non così diverso dal teatro post-naturalistico di Strindberg, quasi uno spazio psichico. Le ambivalenze di Borkman, e le molteplici interpretazioni critiche possibili sul suo carattere, sono bene evidenziate dalla regia di Castri: Borkman appare sia un creatore, un eroe della modernità e del progresso, un generoso donatore, sia un sognatore mai cresciuto, solipsista e prevaricatore. Le importanti osservazioni di Peter Szondi in Theorie des modernen Dramas sul teatro di Ibsen come teatro di parola, di rievocazione verbale di azioni passate, un teatro sostanzialmente privo di azione presente, sono riviste alla luce della stretta relazione – in John Gabriel Borkman come negli altri drammi borghesi di Ibsen – tra lo svelamento del passato nel presente e l’azione sulla scena (la scelta etica possibile ora) che scaturisce sulla base della nuova consapevolezza. Come dramma sulla vecchiaia e sulle possibilità sprecate, il testo colpisce per la tensione tra il rigor mortis e il fuoco di passioni mai sopite.
2007
IV (2007)
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