Questo studio affronta percorsi e aporie del “fare” gli italiani fra età liberale, fascismo e repubblica, mettendo in luce due itinerari solo apparentemente divergenti. Da un lato, infatti, vengono rintracciati dibattiti e argomenti per una pedagogia nazionale di natura antipolitica, antiparlamentare e antiburocratica, dove l’avversità all’impegno nazionalizzante dispiegato dalla classe politica postunitaria esprimeva un segno contrario alla concezione volontaristica e illuministico-liberale della nazione. Al rifiuto dell’”intromissione” dello Stato e delle istituzioni pubbliche corrisponde la ricerca di altre “agenzie” meglio adeguate alla pedagogia nazionale rispetto alle istituzioni scolastiche. Riviste militanti, biblioteche, richiamo alla tradizione artistica come suscitatrice di virtù autoctone, e alla formazione del carattere come strumento di educazione popolare sono visti in quest’ottica. La scuola stessa poteva meglio assolvere al suo ufficio educativo se praticava un’antipedagogia della spontaneità e del vitalismo, come nella suggestiva figura dello scolopio Ermenegildo Pistelli. D’altro canto, la riflessione sugli strumenti di selezione e formazione delle classi dirigenti, propria del discorso sull’istruzione superiore, identifica un preciso compito dello Stato. Salvo nel caso dell’Istituto Cesare Alfieri, dove si tenta inizialmente la strada di un self-government, era senz’altro all’interno della cornice dei pubblici ordinamenti che andava condotta la selezione delle élite, per la cui efficacia andavano commisurati e ripensati gli assetti istituzionali dell’istruzione e gli stessi statuti disciplinari, dagli studi classici alle scienze sociali. L’azione dello “Stato educatore” in campo universitario ha incontrato, con segno diverso, un argine nelle vischiosità e nelle resistenze del corpo accademico e nei suoi autonomi meccanismi di riproduzione, che hanno costituito un freno al dirigismo autoritario del regime fascista, ma hanno anche generato attrito verso i tentativi di riforma democratica degli ordinamenti universitari attuati dalla politica italiana fra anni Settanta e Ottanta. I canali di formazione delle classi dirigenti vanno così ora a tornare al di fuori del sistema scolastico, e a rientrare nel campo della riproduzione dei rapporti di forza in seno alla vita sociale nel suo complesso, con ciò tendendo a svuotare la funzione democratica di scuola e università.

Pedagogie e antipedagogie della nazione. Istituzioni e politiche culturali nel Novecento italiano

CERASI, Laura
2012-01-01

Abstract

Questo studio affronta percorsi e aporie del “fare” gli italiani fra età liberale, fascismo e repubblica, mettendo in luce due itinerari solo apparentemente divergenti. Da un lato, infatti, vengono rintracciati dibattiti e argomenti per una pedagogia nazionale di natura antipolitica, antiparlamentare e antiburocratica, dove l’avversità all’impegno nazionalizzante dispiegato dalla classe politica postunitaria esprimeva un segno contrario alla concezione volontaristica e illuministico-liberale della nazione. Al rifiuto dell’”intromissione” dello Stato e delle istituzioni pubbliche corrisponde la ricerca di altre “agenzie” meglio adeguate alla pedagogia nazionale rispetto alle istituzioni scolastiche. Riviste militanti, biblioteche, richiamo alla tradizione artistica come suscitatrice di virtù autoctone, e alla formazione del carattere come strumento di educazione popolare sono visti in quest’ottica. La scuola stessa poteva meglio assolvere al suo ufficio educativo se praticava un’antipedagogia della spontaneità e del vitalismo, come nella suggestiva figura dello scolopio Ermenegildo Pistelli. D’altro canto, la riflessione sugli strumenti di selezione e formazione delle classi dirigenti, propria del discorso sull’istruzione superiore, identifica un preciso compito dello Stato. Salvo nel caso dell’Istituto Cesare Alfieri, dove si tenta inizialmente la strada di un self-government, era senz’altro all’interno della cornice dei pubblici ordinamenti che andava condotta la selezione delle élite, per la cui efficacia andavano commisurati e ripensati gli assetti istituzionali dell’istruzione e gli stessi statuti disciplinari, dagli studi classici alle scienze sociali. L’azione dello “Stato educatore” in campo universitario ha incontrato, con segno diverso, un argine nelle vischiosità e nelle resistenze del corpo accademico e nei suoi autonomi meccanismi di riproduzione, che hanno costituito un freno al dirigismo autoritario del regime fascista, ma hanno anche generato attrito verso i tentativi di riforma democratica degli ordinamenti universitari attuati dalla politica italiana fra anni Settanta e Ottanta. I canali di formazione delle classi dirigenti vanno così ora a tornare al di fuori del sistema scolastico, e a rientrare nel campo della riproduzione dei rapporti di forza in seno alla vita sociale nel suo complesso, con ciò tendendo a svuotare la funzione democratica di scuola e università.
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