La lunga vita di Martin Buber (Vienna 1878 - Gerusalemme 1965) è segnata da una formidabile presenza in diversi campi del pensare e dell'operare: prima nel Reich guglielmino, nella Germania di Weimar e in quella dei primi cinque anni hitleriani e poi, a partire dal 1938, in Palestina e nello Stato d'Israele è impressionante la capacità e versatilità d'intervento con cui Buber commenta e interpreta, dal punto di vista ebraico, ma non solo, le guerre, le rivoluzioni, le democrazie e i totalitarismi del Novecento. Di grande respiro sono le sue riflessioni sul concetto di nazionalismo, sul rapporto fra etica e politica, fra politica e religione, sul pacifismo, la disobbedienza civile, la pena di morte. E poi la Shoah, la colpa, la responsabilità. Fra l'inizio del secolo e la fine della Grande Guerra Buber disegna in Germania e in Austria un suo netto profilo di interprete dell'ebraismo europeo fino a diventare un?autorità indiscussa (anche se spesso avversata), nonché una figura di culto per la gioventù ebraica di lingua tedesca. Con le sue riscritture delle leggende chassidiche è l'autore più importante nel transito verso Occidente della cultura ebraica dell'Est europeo, di cui promuove l'affermazione letteraria in Germania e nel mondo. Esiste infatti un'intenzione costante nella biografia intellettuale di Buber: recuperare, dell'ebraismo, gli elementi fondanti, costitutivi, distintivi; rinsaldare l'ebraismo nella coscienza della propria specificità e fisionomia cultural-nazionale, che sia capace di imporsi, all'interno del pensiero europeo, nella sua valenza di insostituibile componente dell'umanesimo moderno, di parte irrinunciabile del dialogo interconfessionale, ma anche, e prima di tutto, di fertile confronto tra le culture e le filosofie. È questa la prospettiva del "Rinascimento ebraico" con cui Buber ha inteso scuotere le coscienze sopite degli ebrei tedeschi assimilati, ormai lontani da ogni tradizione e da ogni sapere riguardante l'ebraismo, per restituire loro il senso concreto dell'appartenenza a una cultura che era quanto di più vivo e attuale i tempi avessero da offrire. Il "Rinascimento ebraico" voleva parlare anche ai tedeschi non ebrei, mostrando come quel popolo - tollerato per diciotto secoli e ritenuto legato soltanto a una sterile filosofia rabbinica - fosse capace invece di inventività e innovazione: in breve, con parole care a Buber, di vitalità e creatività negli ambiti più moderni e avanzati dell'intellettualità mitteleuropea. Il libro che qui proponiamo vuole tracciare una semplice linea nel pensiero buberiano sull'ebraismo e il sionismo, cercando di toccare, con una mirata scelta di scritti (molti dei quali inediti in Italia), il formarsi e il succedersi dei passi fondamentali di quelle riflessioni: i rapporti con il sionismo politico di Herzl; la nascita del sionismo culturale; quella sorta di grammatica dell'appartenenza ebraica che sono i celebri Discorsi di Praga; il costante commento con cui, dalle colonne della sua rivista «Der Jude», Buber accompagnò l'accadere storico dal 1916 al 1923. L'arco di tempo nel quale si sviluppa questa nostra silloge - dal 1899 al 1923 - non è stato scelto a caso. Nel 1899 Buber fa la sua apparizione sulla scena sionista. Il 1923 è un anno di svolta: esce Ich und Du, il libro che inaugura la strada di Buber come filosofo; si chiude la sua vicenda di direttore e ispiratore dello «Jude»; si è appena consumata la rottura con la dirigenza sionista; è iniziato il rapporto con Franz Rosenzweig e si sta definendo il progetto di traduzione della Bibbia. Con gli ultimi articoli dello «Jude» Buber già legge la politica alla luce della filosofia del dialogo, matrice della ricchissima saggistica politica con cui, fra altri temi, accompagnerà fino agli anni Sessanta la vita della Palestina. In quei saggi egli ribadirà senza sosta che il nazionalismo ebraico, una volta realizzato nello Stato, risponderà alla sua vera essenza e al suo compito fondativo solo se saprà dialogare e vivere in pace con i popoli: innanzitutto, naturalmente, con quel popolo che da secoli abita la stessa terra.
Martin Buber, Rinascimento ebraico. Scritti sull'ebraismo e sul sionismo (1899-1923).
LAVAGETTO, Andreina
2013-01-01
Abstract
La lunga vita di Martin Buber (Vienna 1878 - Gerusalemme 1965) è segnata da una formidabile presenza in diversi campi del pensare e dell'operare: prima nel Reich guglielmino, nella Germania di Weimar e in quella dei primi cinque anni hitleriani e poi, a partire dal 1938, in Palestina e nello Stato d'Israele è impressionante la capacità e versatilità d'intervento con cui Buber commenta e interpreta, dal punto di vista ebraico, ma non solo, le guerre, le rivoluzioni, le democrazie e i totalitarismi del Novecento. Di grande respiro sono le sue riflessioni sul concetto di nazionalismo, sul rapporto fra etica e politica, fra politica e religione, sul pacifismo, la disobbedienza civile, la pena di morte. E poi la Shoah, la colpa, la responsabilità. Fra l'inizio del secolo e la fine della Grande Guerra Buber disegna in Germania e in Austria un suo netto profilo di interprete dell'ebraismo europeo fino a diventare un?autorità indiscussa (anche se spesso avversata), nonché una figura di culto per la gioventù ebraica di lingua tedesca. Con le sue riscritture delle leggende chassidiche è l'autore più importante nel transito verso Occidente della cultura ebraica dell'Est europeo, di cui promuove l'affermazione letteraria in Germania e nel mondo. Esiste infatti un'intenzione costante nella biografia intellettuale di Buber: recuperare, dell'ebraismo, gli elementi fondanti, costitutivi, distintivi; rinsaldare l'ebraismo nella coscienza della propria specificità e fisionomia cultural-nazionale, che sia capace di imporsi, all'interno del pensiero europeo, nella sua valenza di insostituibile componente dell'umanesimo moderno, di parte irrinunciabile del dialogo interconfessionale, ma anche, e prima di tutto, di fertile confronto tra le culture e le filosofie. È questa la prospettiva del "Rinascimento ebraico" con cui Buber ha inteso scuotere le coscienze sopite degli ebrei tedeschi assimilati, ormai lontani da ogni tradizione e da ogni sapere riguardante l'ebraismo, per restituire loro il senso concreto dell'appartenenza a una cultura che era quanto di più vivo e attuale i tempi avessero da offrire. Il "Rinascimento ebraico" voleva parlare anche ai tedeschi non ebrei, mostrando come quel popolo - tollerato per diciotto secoli e ritenuto legato soltanto a una sterile filosofia rabbinica - fosse capace invece di inventività e innovazione: in breve, con parole care a Buber, di vitalità e creatività negli ambiti più moderni e avanzati dell'intellettualità mitteleuropea. Il libro che qui proponiamo vuole tracciare una semplice linea nel pensiero buberiano sull'ebraismo e il sionismo, cercando di toccare, con una mirata scelta di scritti (molti dei quali inediti in Italia), il formarsi e il succedersi dei passi fondamentali di quelle riflessioni: i rapporti con il sionismo politico di Herzl; la nascita del sionismo culturale; quella sorta di grammatica dell'appartenenza ebraica che sono i celebri Discorsi di Praga; il costante commento con cui, dalle colonne della sua rivista «Der Jude», Buber accompagnò l'accadere storico dal 1916 al 1923. L'arco di tempo nel quale si sviluppa questa nostra silloge - dal 1899 al 1923 - non è stato scelto a caso. Nel 1899 Buber fa la sua apparizione sulla scena sionista. Il 1923 è un anno di svolta: esce Ich und Du, il libro che inaugura la strada di Buber come filosofo; si chiude la sua vicenda di direttore e ispiratore dello «Jude»; si è appena consumata la rottura con la dirigenza sionista; è iniziato il rapporto con Franz Rosenzweig e si sta definendo il progetto di traduzione della Bibbia. Con gli ultimi articoli dello «Jude» Buber già legge la politica alla luce della filosofia del dialogo, matrice della ricchissima saggistica politica con cui, fra altri temi, accompagnerà fino agli anni Sessanta la vita della Palestina. In quei saggi egli ribadirà senza sosta che il nazionalismo ebraico, una volta realizzato nello Stato, risponderà alla sua vera essenza e al suo compito fondativo solo se saprà dialogare e vivere in pace con i popoli: innanzitutto, naturalmente, con quel popolo che da secoli abita la stessa terra.File | Dimensione | Formato | |
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