L’indomani del Trattato di Amicizia e Commercio del 1866 tra Italia e Giap- pone, nato dalle istanze della produzione serica, la città di Venezia si rivelò uno snodo nevralgico per la di usione della cultura giapponese in Italia. Affacciata sul mare Adriatico, il suo porto era considerato un ponte proteso verso l’Oriente sin dall’inaugurazione del canale di Suez nel 1869. Il servizio di navigazione verso l’India venne successivamente implementato dal 1894 con una linea diretta mensile da Venezia a Bombay, da dove era poi possibile raggiungere Cina, Australia e Giappone. La prospettata crescita di importanza della città lagunare come base commer- ciale indusse il conte Alessandro Fè d’Ostiani, ambasciatore plenipotenziario in Giappone dal 1871 al 1877, a consigliare la città di Venezia al Ministro degli Affari Esteri giapponese come sede per il Consolato Generale, divenuto in seguito Consolato onorario. Il console Nakayama Jōji 中山譲二 arrivò a palazzo Guiccioli il 4 marzo 1873 con Miwa Sukeichi 三輪助一. A maggio, il Console riceveva, con il conferimento del sovrano exequatur del Re d’Italia, la missione guidata da Iwakura Tomomi 岩倉具視, organizzata per formalizzare i rapporti con le nazioni visitate, tentare di abolire le clau- sole sfavorevoli degli accordi bilaterali con i Paesi occidentali e nello stesso tempo per studiare e conoscere quanto potesse rivelarsi utile per la moder- nizzazione del Giappone, dalle produzioni industriali ai sistemi legislativi dei Paesi Occidentali: a Venezia Iwakura visitò Palazzo Ducale, la Basilica di San Marco, i Giardini, l’Archivio di Stato, le vetrerie di Murano. Prima dell’arrivo della missione, il Console aveva già ricevuto a Venezia rap- presentanti del governo giapponese, come Kawamura 川村, secondo Mini- stro della Marina giapponese, Akamatsu 赤松, direttore Generale dello stesso Ministero e alcuni nobili come i signori Fujiwara 藤原, Ishikawa 石川, Naru- shima 成島 e Ono 小野. La presenza del Consolato stimolò l’insediamento, nello stesso anno, del pri- mo corso di lingua giapponese presso la Regia Scuola Superiore di Com- mercio. Fondata nel 1868, nel periodo in cui si pensava che Venezia avrebbe riacquistato un ruolo preminente nell’Adriatico, la Scuola aveva istituito da tempo l’insegnamento della lingua araba e successivamente delle lingue greca e persiana. Su proposta di Fè d’Ostiani veniva quindi avviato nel 1873 anche il corso di lingua giapponese, a dato a insegnanti madrelingua, alcuni dei quali, come Ogata 緒方, vi si trasferirono dopo l’esperienza presso L’Istituto Internazionale Italiano di Torino, che aveva accolto i semai giapponesi. L’attenzione dedicata al Giappone andava aumentando: nel 1881, all’Esposi- zione Internazionale Geogra ca di Venezia era presente una sezione dedicata al Paese del Sol Levante, coordinata da Guglielmo Berchet. Parte degli oggetti esposti in quell’occasione, come le conchiglie di Ōmori 大森, non tornarono in Giappone, ma arricchirono le collezioni di alcuni musei italiani. In questo contesto cittadino, nel 1889 iniziarono ad arrivare i pezzi della col- lezione di Enrico di Borbone, acquistati nel corso di quel lungo viaggio in Estremo Oriente ampiamente descritto in più occasioni da Fiorella Spada- vecchia (Spadavecchia 1990; 2007; 2014), che sarebbero divenuti in seguito il nucleo costitutivo dell’attuale Museo d’Arte Orientale di Venezia. Anche se (secondo Elio Zorzi, che scriveva nel 1927) Enrico di Borbone aveva aperto la sua casa a chi desiderava visitare la collezione fino alla fine degli anni No- vanta, questa non era mai stata a tutti gli e etti un museo pubblico. Forse per il rapporto non sempre idilliaco del facoltoso collezionista con la città e per l’incomprensione sorta in occasione della seconda Esposizione Internazionale d’Arte, non risultano presenti opere della collezione Borbone alla Biennale del 1897, la prima a ospitare una sezione di opere giapponesi, anche antiche. Come messo in luce da Motoaki Ishii, il regolamento della Biennale venne appositamente variato per permettere l’esposizione di opere di arte applicata accanto ai dipinti contemporanei della Nihon bijutsu kyōkai 日本美術協会 (Società artistica giapponese). La prima idea del comitato della Biennale era stata quella di realizzare anche una mostra storica, ma la Società si era detta disponibile a inviare solo delle copie di opere antiche, pertanto si optò per l’esposizione di porcellane e netsuke 根付 della collezione Seeger di Berlino e, a Esposizione iniziata, di alcuni dipinti della collezione di Alessandro Fe’ d’Ostiani. All’esposizione veneziana seguirono l’Esposizione Internazionale dell’Arte Decorativa Moderna di Torino del 1902, l’Esposizione Universale di Milano del 1905 e la doppia Esposizione Universale di Roma e di Torino del 1911. La presenza di opere giapponesi in queste sedi fu di stimolo alla ri essione sul carattere decorativo dell’arte giapponese: le categorie di arte pura e applicata non potevano essere attribuite a una produzione nata in un contesto storico e culturale completamente di erente. Il vivace dibattito tuttora in corso dimostra come questa problematica sia ancora sentita. In quegli anni ad alimentare l’interesse della critica furono certamente gli articoli pubblicati sull’Illustrazione Italiana ed Emporium e gli scritti di Ugo Ojetti e Vittorio Pica che, come noto, iniziò a interessarsi all’arte giapponese in Francia grazie soprattutto a Edmond de Goncourt e Louis Gonse. Diversamente da quanto avvenuto in Francia o in Inghilterra, nonostante il desiderio e l’irrefrenabile curiosità del pubblico di avere notizie sul Giappone, testimoniati anche dal successo delle pubblicazioni di viaggio apparse in Italia proprio in quegli anni, l’introduzione dell’arte giapponese nella nostra penisola avvenne in ritardo e, a volte, in maniera super ciale. Spesso si legava principalmente a una questione di gusto estetico nella quale gli oggetti dell’Estremo Oriente, disponibili in Italia presso antiquari come Beretta o Jannetti, si legavano alla magia del sogno e della lontananza: possederne gli oggetti e accostarli a complementi di arredo eclettici, come nel caso, reso fa- moso dalle pagine dannunziane, di casa Scarfoglio, era soprattutto una questione di costume, se si eccettuano le collezioni di quei protagonisti, come Chiossone, Fe’ d’Ostiani, Ragusa, Meazza, che ebbero la possibilità di com- prendere la cultura del Giappone in maniera più profonda. La mancanza di un vero scambio con esperti giapponesi, come era stato nell’ambiente londinese o in quello parigino -si pensi al rapporto tra Hayashi Tadamasa 林 忠正, Gonse e Goncourt – non aveva certo agevolato le ricerche, tuttavia la Biennale e l’ambiente veneziano contribuirono a un avanzamento in questo senso e a una sprovincializzazione della critica, stimolando l’interesse degli studiosi, attratti anche dalla prima edizione del premio della critica. Ripercorrendo l’evoluzione critica, il lento approccio e la progressiva matu- razione di uno scambio continuo con il Giappone, era doveroso per il Museo d’Arte Orientale a Venezia, che in qualche modo raccoglie, insieme al Dipar- timento di Studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea, l’eredità culturale di que- gli anni, dedicare al centocinquantesimo anniversario del Trattato un ciclo di conferenze e di attività sulla cultura giapponese nei suoi diversi aspetti: dalle arti visive, al teatro, al cinema di animazione, alle tecniche. Questo volume raccoglie i contributi relativi agli studi, ai restauri e all’attività didattica condotti nel 2016, rinnovando il costante rapporto di scambio con il Dipartimento, con il Consolato Generale del Giappone a Milano e la Japan Foundation e con il Comitato giapponese Venezia aVvenire, che ha sostenuto il restauro di un paravento ampiamente indagato in queste pagine. Vi parte- cipano funzionari del Ministero e studiosi di diversi atenei, non solo italiani, che hanno contribuito alla lettura di fenomeni culturali anche contemporanei. La realizzazione di questo volume è stata stimolata anche da alcuni in- contri fortuiti, avvenuti nelle sale del Museo sulla scia di percorsi di studio che hanno inevitabilmente condotto a Venezia, della curiosità, della passione per un terreno di indagine comune. Perché un Museo è anche questo: un serbatoio di storie da conoscere, in grado di creare un ponte verso le culture e i Paesi che le hanno prodotte.
Bi no michi. La via della Bellezza.Esplorazioni nella cultura giapponese per i 150 anni delle relazioni diplomatiche tra Italia e Giappone
Sergio Marinelli;Silvia Vesco;Chiara Cortese;Bonaventura Ruperti;Maria Roberta Novielli;
2018-01-01
Abstract
L’indomani del Trattato di Amicizia e Commercio del 1866 tra Italia e Giap- pone, nato dalle istanze della produzione serica, la città di Venezia si rivelò uno snodo nevralgico per la di usione della cultura giapponese in Italia. Affacciata sul mare Adriatico, il suo porto era considerato un ponte proteso verso l’Oriente sin dall’inaugurazione del canale di Suez nel 1869. Il servizio di navigazione verso l’India venne successivamente implementato dal 1894 con una linea diretta mensile da Venezia a Bombay, da dove era poi possibile raggiungere Cina, Australia e Giappone. La prospettata crescita di importanza della città lagunare come base commer- ciale indusse il conte Alessandro Fè d’Ostiani, ambasciatore plenipotenziario in Giappone dal 1871 al 1877, a consigliare la città di Venezia al Ministro degli Affari Esteri giapponese come sede per il Consolato Generale, divenuto in seguito Consolato onorario. Il console Nakayama Jōji 中山譲二 arrivò a palazzo Guiccioli il 4 marzo 1873 con Miwa Sukeichi 三輪助一. A maggio, il Console riceveva, con il conferimento del sovrano exequatur del Re d’Italia, la missione guidata da Iwakura Tomomi 岩倉具視, organizzata per formalizzare i rapporti con le nazioni visitate, tentare di abolire le clau- sole sfavorevoli degli accordi bilaterali con i Paesi occidentali e nello stesso tempo per studiare e conoscere quanto potesse rivelarsi utile per la moder- nizzazione del Giappone, dalle produzioni industriali ai sistemi legislativi dei Paesi Occidentali: a Venezia Iwakura visitò Palazzo Ducale, la Basilica di San Marco, i Giardini, l’Archivio di Stato, le vetrerie di Murano. Prima dell’arrivo della missione, il Console aveva già ricevuto a Venezia rap- presentanti del governo giapponese, come Kawamura 川村, secondo Mini- stro della Marina giapponese, Akamatsu 赤松, direttore Generale dello stesso Ministero e alcuni nobili come i signori Fujiwara 藤原, Ishikawa 石川, Naru- shima 成島 e Ono 小野. La presenza del Consolato stimolò l’insediamento, nello stesso anno, del pri- mo corso di lingua giapponese presso la Regia Scuola Superiore di Com- mercio. Fondata nel 1868, nel periodo in cui si pensava che Venezia avrebbe riacquistato un ruolo preminente nell’Adriatico, la Scuola aveva istituito da tempo l’insegnamento della lingua araba e successivamente delle lingue greca e persiana. Su proposta di Fè d’Ostiani veniva quindi avviato nel 1873 anche il corso di lingua giapponese, a dato a insegnanti madrelingua, alcuni dei quali, come Ogata 緒方, vi si trasferirono dopo l’esperienza presso L’Istituto Internazionale Italiano di Torino, che aveva accolto i semai giapponesi. L’attenzione dedicata al Giappone andava aumentando: nel 1881, all’Esposi- zione Internazionale Geogra ca di Venezia era presente una sezione dedicata al Paese del Sol Levante, coordinata da Guglielmo Berchet. Parte degli oggetti esposti in quell’occasione, come le conchiglie di Ōmori 大森, non tornarono in Giappone, ma arricchirono le collezioni di alcuni musei italiani. In questo contesto cittadino, nel 1889 iniziarono ad arrivare i pezzi della col- lezione di Enrico di Borbone, acquistati nel corso di quel lungo viaggio in Estremo Oriente ampiamente descritto in più occasioni da Fiorella Spada- vecchia (Spadavecchia 1990; 2007; 2014), che sarebbero divenuti in seguito il nucleo costitutivo dell’attuale Museo d’Arte Orientale di Venezia. Anche se (secondo Elio Zorzi, che scriveva nel 1927) Enrico di Borbone aveva aperto la sua casa a chi desiderava visitare la collezione fino alla fine degli anni No- vanta, questa non era mai stata a tutti gli e etti un museo pubblico. Forse per il rapporto non sempre idilliaco del facoltoso collezionista con la città e per l’incomprensione sorta in occasione della seconda Esposizione Internazionale d’Arte, non risultano presenti opere della collezione Borbone alla Biennale del 1897, la prima a ospitare una sezione di opere giapponesi, anche antiche. Come messo in luce da Motoaki Ishii, il regolamento della Biennale venne appositamente variato per permettere l’esposizione di opere di arte applicata accanto ai dipinti contemporanei della Nihon bijutsu kyōkai 日本美術協会 (Società artistica giapponese). La prima idea del comitato della Biennale era stata quella di realizzare anche una mostra storica, ma la Società si era detta disponibile a inviare solo delle copie di opere antiche, pertanto si optò per l’esposizione di porcellane e netsuke 根付 della collezione Seeger di Berlino e, a Esposizione iniziata, di alcuni dipinti della collezione di Alessandro Fe’ d’Ostiani. All’esposizione veneziana seguirono l’Esposizione Internazionale dell’Arte Decorativa Moderna di Torino del 1902, l’Esposizione Universale di Milano del 1905 e la doppia Esposizione Universale di Roma e di Torino del 1911. La presenza di opere giapponesi in queste sedi fu di stimolo alla ri essione sul carattere decorativo dell’arte giapponese: le categorie di arte pura e applicata non potevano essere attribuite a una produzione nata in un contesto storico e culturale completamente di erente. Il vivace dibattito tuttora in corso dimostra come questa problematica sia ancora sentita. In quegli anni ad alimentare l’interesse della critica furono certamente gli articoli pubblicati sull’Illustrazione Italiana ed Emporium e gli scritti di Ugo Ojetti e Vittorio Pica che, come noto, iniziò a interessarsi all’arte giapponese in Francia grazie soprattutto a Edmond de Goncourt e Louis Gonse. Diversamente da quanto avvenuto in Francia o in Inghilterra, nonostante il desiderio e l’irrefrenabile curiosità del pubblico di avere notizie sul Giappone, testimoniati anche dal successo delle pubblicazioni di viaggio apparse in Italia proprio in quegli anni, l’introduzione dell’arte giapponese nella nostra penisola avvenne in ritardo e, a volte, in maniera super ciale. Spesso si legava principalmente a una questione di gusto estetico nella quale gli oggetti dell’Estremo Oriente, disponibili in Italia presso antiquari come Beretta o Jannetti, si legavano alla magia del sogno e della lontananza: possederne gli oggetti e accostarli a complementi di arredo eclettici, come nel caso, reso fa- moso dalle pagine dannunziane, di casa Scarfoglio, era soprattutto una questione di costume, se si eccettuano le collezioni di quei protagonisti, come Chiossone, Fe’ d’Ostiani, Ragusa, Meazza, che ebbero la possibilità di com- prendere la cultura del Giappone in maniera più profonda. La mancanza di un vero scambio con esperti giapponesi, come era stato nell’ambiente londinese o in quello parigino -si pensi al rapporto tra Hayashi Tadamasa 林 忠正, Gonse e Goncourt – non aveva certo agevolato le ricerche, tuttavia la Biennale e l’ambiente veneziano contribuirono a un avanzamento in questo senso e a una sprovincializzazione della critica, stimolando l’interesse degli studiosi, attratti anche dalla prima edizione del premio della critica. Ripercorrendo l’evoluzione critica, il lento approccio e la progressiva matu- razione di uno scambio continuo con il Giappone, era doveroso per il Museo d’Arte Orientale a Venezia, che in qualche modo raccoglie, insieme al Dipar- timento di Studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea, l’eredità culturale di que- gli anni, dedicare al centocinquantesimo anniversario del Trattato un ciclo di conferenze e di attività sulla cultura giapponese nei suoi diversi aspetti: dalle arti visive, al teatro, al cinema di animazione, alle tecniche. Questo volume raccoglie i contributi relativi agli studi, ai restauri e all’attività didattica condotti nel 2016, rinnovando il costante rapporto di scambio con il Dipartimento, con il Consolato Generale del Giappone a Milano e la Japan Foundation e con il Comitato giapponese Venezia aVvenire, che ha sostenuto il restauro di un paravento ampiamente indagato in queste pagine. Vi parte- cipano funzionari del Ministero e studiosi di diversi atenei, non solo italiani, che hanno contribuito alla lettura di fenomeni culturali anche contemporanei. La realizzazione di questo volume è stata stimolata anche da alcuni in- contri fortuiti, avvenuti nelle sale del Museo sulla scia di percorsi di studio che hanno inevitabilmente condotto a Venezia, della curiosità, della passione per un terreno di indagine comune. Perché un Museo è anche questo: un serbatoio di storie da conoscere, in grado di creare un ponte verso le culture e i Paesi che le hanno prodotte.File | Dimensione | Formato | |
---|---|---|---|
Copia di BI NO MICHI.pdf
non disponibili
Descrizione: Volune completo
Tipologia:
Versione dell'editore
Licenza:
Accesso gratuito (solo visione)
Dimensione
4.4 MB
Formato
Adobe PDF
|
4.4 MB | Adobe PDF | Visualizza/Apri |
I documenti in ARCA sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.