Negli ultimi decenni, numerose amministrazioni comunali hanno attuato un vasto insieme di strategie, piuttosto diversificate sul piano degli strumenti giuridici e delle prassi amministrative, finalizzate a restringere i requisiti per l’iscrizione anagrafica Queste strategie, a volte, si sono scontrate con la resistenza di alcune organizzazioni e/o di alcune istituzioni: lo scontro, in questi casi, ha avuto come oggetto specifici provvedimenti e decisioni municipali ma anche, più in generale, lo stesso significato giuridico e socio-politico della residenza. Attorno a questo istituto, dunque, si è andato rapidamente strutturando quello che, mutuando un concetto di Bourdieu, può essere considerato un vero e proprio campo di tensione e conflitto, (alimentato anche da alcune scelte normative compiute dai governi centrali, tra cui il Decreto Lupi del marzo 2014 – diventato poi legge nel maggio successivo –, il cui articolo 5 vieta l’iscrizione anagrafica alle persone che dimorano in alloggi occupati abusivamente). Gli attori che si “contendono” la residenza, infatti, cercano, ognuno dalla sua prospettiva e perseguendo i propri obiettivi, di esplicitare principi pratici di visione e divisione del mondo e di imporre tali principi come categorie legittime di costruzione della realtà sociale. Gli attori che compongono il campo della residenza sono piuttosto eterogenei: tra loro troviamo sindaci, operatori e dirigenti comunali, il Ministero dell’interno, l’Istat, l’Unar, l’Anusca, la polizia locale, prefetti, politici – a volte di livello statale, più spesso di livello regionale e locale –, organizzazioni che tutelano i diritti dei migranti e delle persone vulnerabili, sindacati, giornalisti, magistrati – ordinari e amministrativi –, avvocati e giuristi. Il conflitto tra gli attori qui indicati, sostanzialmente, può assumere tre forme differenti – nettamente distinguibili in via analitica ma spesso tra loro concretamente intrecciate –, configurandosi come: una disputa giuridica sul significato della residenza; una controversia giudiziaria su casi specifici di rifiuto dell’iscrizione; uno scontro politico sul controllo della popolazione locale. Più in dettaglio, il primo tipo di conflitto verte su confini giuridico-teorici, e gli attori che lo animano provano a imporre una specifica visione della residenza e delle procedure che portano al suo riconoscimento, tracciando una linea che, sul piano della teoria, sia in grado di escludere dal campo le altre visioni. Il secondo tipo di conflitto, invece, è incentrato su confini giuridico-pratici: la linea oggetto di contesa, qui, non è tracciata sul piano teorico ma al livello delle procedure concrete; la controversia, di conseguenza, è successiva a queste procedure, e l’arena in cui prende forma è costituita dai tribunali, amministrativi e civili. Il terzo tipo di conflitto, infine, è imperniato su confini politico-sociali: in questo caso, la demarcazione che alcuni attori provano a imporre, e che altri attori si impegnano a contestare, è quella tra cittadini locali legittimi e “illegittimi”, e la disputa può avere luogo parallelamente alla contesa giuridica o indipendentemente da questa. L’esistenza di un campo così “denso” e di un conflitto così articolato è un fatto di assoluto rilievo per lo studio dell’iscrizione anagrafica: in primo luogo in quanto mostra la varietà delle “interpretazioni” della residenza fornite dagli attori formalmente incaricati di gestire le procedure per il suo riconoscimento, evidenziando al contempo il profondo scollamento tra tali interpretazioni e il dettato normativo; in secondo luogo perché rivela, seppur indirettamente, come i dati comunali relativi al numero di iscrizioni, alla quota di “rifiuti” e alle ragioni riportate per giustificarli possano essere affetti da profonde distorsioni. Come emerso dalla ricerca che fa da sfondo a questa proposta di intervento, le forme illegittime di negazione della residenza possono tradursi, alternativamente, in dinieghi formali palesemente contra legem, in dinieghi informali o in rifiuti formali apparentemente legittimi ma in realtà pretestuosi. Nel primo caso, l’avvenuto diniego è registrato adducendo come motivazione il mancato soddisfacimento di requisiti assolutamente non previsti dalla legge, spesso (sebbene non necessariamente) introdotti da ordinanze o circolari. Nel secondo caso, il diniego avviene a voce, in modo da non lasciare tracce amministrative: gli operatori degli uffici anagrafici invitano coloro che richiedono l’iscrizione a non consegnare la propria dichiarazione di residenza perché “incompleta” o perché (sulla base di ragioni quasi sempre poco chiare) non sussisterebbe il diritto all’iscrizione. Nel terzo caso, infine, il rifiuto della residenza è motivato con la mancanza del requisito dell’abitualità della dimora – e perciò appare legittimo –, ma è formalizzato a seguito di accertamenti il cui esito è quantomeno discutibile, dato che risultano negativi nonostante la persona viva effettivamente nel luogo dichiarato, facendo perno, in maniera arbitraria, sulle condizioni dell’alloggio. Ora, soltanto nel primo caso l’illegittimità dell’azione dell’amministrazione comunale è evidente, mentre negli altri casi è del tutto invisibile o, quantomeno, è celata. L’assenza di tracce amministrative, infatti, rende impossibile capire, stando alla semplice analisi dei dati comunali, se si sono verificati, episodicamente o sistematicamente, casi di rifiuto illegittimo; al contempo, la presenza, all’interno di tali dati, di un numero elevato di dinieghi motivati con la ragione – di per sé legittima – dell’insussistenza del requisito dell’abitualità della dimora può essere un indizio, ma certamente non costituisce una conferma, dell’azione illegittima da parte di un comune. Di conseguenza, i ricercatori che si trovano oggi – e quelli che si troveranno domani – a decifrare le informazioni provenienti dalle amministrazioni comunali necessitano di un quadro di conoscenze di sfondo estremamente articolato in relazione alle dinamiche e ai meccanismi di esclusione che prendono forma in numerosi contesti locali: queste dinamiche e questi meccanismi, infatti, incidono, direttamente o indirettamente, sulle procedure di iscrizione anagrafica e, di conseguenza, sulle modalità con cui tali procedure possono essere studiate. Da questa prospettiva, i conflitti sull’iscrizione anagrafica costituiscono un punto di osservazione estremamente utile, in grado di fornire un aiuto prezioso nella ricostruzione dei meccanismi di esclusione dalla residenza e, dunque, nello studio delle fonti anagrafiche, così da tracciare un quadro più articolato e realistico delle migrazioni interne nel territorio italiano.

La residenza come campo di tensioni. I conflitti sull’iscrizione anagrafica e la loro rilevanza per lo studio delle migrazioni interne.

GARGIULO, Enrico
2016-01-01

Abstract

Negli ultimi decenni, numerose amministrazioni comunali hanno attuato un vasto insieme di strategie, piuttosto diversificate sul piano degli strumenti giuridici e delle prassi amministrative, finalizzate a restringere i requisiti per l’iscrizione anagrafica Queste strategie, a volte, si sono scontrate con la resistenza di alcune organizzazioni e/o di alcune istituzioni: lo scontro, in questi casi, ha avuto come oggetto specifici provvedimenti e decisioni municipali ma anche, più in generale, lo stesso significato giuridico e socio-politico della residenza. Attorno a questo istituto, dunque, si è andato rapidamente strutturando quello che, mutuando un concetto di Bourdieu, può essere considerato un vero e proprio campo di tensione e conflitto, (alimentato anche da alcune scelte normative compiute dai governi centrali, tra cui il Decreto Lupi del marzo 2014 – diventato poi legge nel maggio successivo –, il cui articolo 5 vieta l’iscrizione anagrafica alle persone che dimorano in alloggi occupati abusivamente). Gli attori che si “contendono” la residenza, infatti, cercano, ognuno dalla sua prospettiva e perseguendo i propri obiettivi, di esplicitare principi pratici di visione e divisione del mondo e di imporre tali principi come categorie legittime di costruzione della realtà sociale. Gli attori che compongono il campo della residenza sono piuttosto eterogenei: tra loro troviamo sindaci, operatori e dirigenti comunali, il Ministero dell’interno, l’Istat, l’Unar, l’Anusca, la polizia locale, prefetti, politici – a volte di livello statale, più spesso di livello regionale e locale –, organizzazioni che tutelano i diritti dei migranti e delle persone vulnerabili, sindacati, giornalisti, magistrati – ordinari e amministrativi –, avvocati e giuristi. Il conflitto tra gli attori qui indicati, sostanzialmente, può assumere tre forme differenti – nettamente distinguibili in via analitica ma spesso tra loro concretamente intrecciate –, configurandosi come: una disputa giuridica sul significato della residenza; una controversia giudiziaria su casi specifici di rifiuto dell’iscrizione; uno scontro politico sul controllo della popolazione locale. Più in dettaglio, il primo tipo di conflitto verte su confini giuridico-teorici, e gli attori che lo animano provano a imporre una specifica visione della residenza e delle procedure che portano al suo riconoscimento, tracciando una linea che, sul piano della teoria, sia in grado di escludere dal campo le altre visioni. Il secondo tipo di conflitto, invece, è incentrato su confini giuridico-pratici: la linea oggetto di contesa, qui, non è tracciata sul piano teorico ma al livello delle procedure concrete; la controversia, di conseguenza, è successiva a queste procedure, e l’arena in cui prende forma è costituita dai tribunali, amministrativi e civili. Il terzo tipo di conflitto, infine, è imperniato su confini politico-sociali: in questo caso, la demarcazione che alcuni attori provano a imporre, e che altri attori si impegnano a contestare, è quella tra cittadini locali legittimi e “illegittimi”, e la disputa può avere luogo parallelamente alla contesa giuridica o indipendentemente da questa. L’esistenza di un campo così “denso” e di un conflitto così articolato è un fatto di assoluto rilievo per lo studio dell’iscrizione anagrafica: in primo luogo in quanto mostra la varietà delle “interpretazioni” della residenza fornite dagli attori formalmente incaricati di gestire le procedure per il suo riconoscimento, evidenziando al contempo il profondo scollamento tra tali interpretazioni e il dettato normativo; in secondo luogo perché rivela, seppur indirettamente, come i dati comunali relativi al numero di iscrizioni, alla quota di “rifiuti” e alle ragioni riportate per giustificarli possano essere affetti da profonde distorsioni. Come emerso dalla ricerca che fa da sfondo a questa proposta di intervento, le forme illegittime di negazione della residenza possono tradursi, alternativamente, in dinieghi formali palesemente contra legem, in dinieghi informali o in rifiuti formali apparentemente legittimi ma in realtà pretestuosi. Nel primo caso, l’avvenuto diniego è registrato adducendo come motivazione il mancato soddisfacimento di requisiti assolutamente non previsti dalla legge, spesso (sebbene non necessariamente) introdotti da ordinanze o circolari. Nel secondo caso, il diniego avviene a voce, in modo da non lasciare tracce amministrative: gli operatori degli uffici anagrafici invitano coloro che richiedono l’iscrizione a non consegnare la propria dichiarazione di residenza perché “incompleta” o perché (sulla base di ragioni quasi sempre poco chiare) non sussisterebbe il diritto all’iscrizione. Nel terzo caso, infine, il rifiuto della residenza è motivato con la mancanza del requisito dell’abitualità della dimora – e perciò appare legittimo –, ma è formalizzato a seguito di accertamenti il cui esito è quantomeno discutibile, dato che risultano negativi nonostante la persona viva effettivamente nel luogo dichiarato, facendo perno, in maniera arbitraria, sulle condizioni dell’alloggio. Ora, soltanto nel primo caso l’illegittimità dell’azione dell’amministrazione comunale è evidente, mentre negli altri casi è del tutto invisibile o, quantomeno, è celata. L’assenza di tracce amministrative, infatti, rende impossibile capire, stando alla semplice analisi dei dati comunali, se si sono verificati, episodicamente o sistematicamente, casi di rifiuto illegittimo; al contempo, la presenza, all’interno di tali dati, di un numero elevato di dinieghi motivati con la ragione – di per sé legittima – dell’insussistenza del requisito dell’abitualità della dimora può essere un indizio, ma certamente non costituisce una conferma, dell’azione illegittima da parte di un comune. Di conseguenza, i ricercatori che si trovano oggi – e quelli che si troveranno domani – a decifrare le informazioni provenienti dalle amministrazioni comunali necessitano di un quadro di conoscenze di sfondo estremamente articolato in relazione alle dinamiche e ai meccanismi di esclusione che prendono forma in numerosi contesti locali: queste dinamiche e questi meccanismi, infatti, incidono, direttamente o indirettamente, sulle procedure di iscrizione anagrafica e, di conseguenza, sulle modalità con cui tali procedure possono essere studiate. Da questa prospettiva, i conflitti sull’iscrizione anagrafica costituiscono un punto di osservazione estremamente utile, in grado di fornire un aiuto prezioso nella ricostruzione dei meccanismi di esclusione dalla residenza e, dunque, nello studio delle fonti anagrafiche, così da tracciare un quadro più articolato e realistico delle migrazioni interne nel territorio italiano.
2016
Per una storia della popolazione italiana nel Novecento.
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