«Innanzi, innanzi ancor!». Immersa nel calore soffocante del deserto della Louisiana, una coppia di giovani allo stremo delle forze avanza faticosamente verso il proscenio. «Tutta su me ti posa»: lui la sostiene con amore e dedizione infinita, in un cammino che ha come sbocco solamente la fine – lei è stanca, quasi al limite delle forze. È uno dei finali più estenuati e coinvolgenti di tutta l’opera in musica, un rito funebre che celebra l’eterno parallelo tra amore e morte: Manon Lescaut di Giacomo Puccini, atto quarto. Nei tre episodi che preludono al finale di Elegy for Young Lovers (dal sesto all’ottavo dell’atto terzo) il clima cambia radicalmente: siamo immersi nel gelo, mentre infuria una bufera di neve, ma davanti ai nostri occhi di spettatori sono sempre due giovani amanti che vediamo avanzare. Meno disperati, forse, dei protagonisti pucciniani, ma come loro visibilmente provati: «their forms only vaguely visible through the driving snow. Both are in the last stages of exhaustion», recita la didascalia del libretto. Lei, soprattutto: «I can’t go on». E lui, devoto e premuroso, trova un riparo dalla furia degli elementi: «Come, here’s a little | Shelf of rock under which to shelter | Against the storm. We’ll stop here». E si fermano, come Manon e Des Grieux: l’appuntamento con la morte è arrivato. Hans Werner Henze, compositore contemporaneo aperto a ogni esperienza e lontano da qualsivoglia dogma, tanto passatista quanto modernista, aveva molta familiarità con Manon Lescaut. Boulevard Solitude, l’opera che lo portò alla notorietà nel 1951, è uno dei più riusciti travestimenti del soggetto di Prévost, e intrattiene un legame affettivo col capolavoro di Puccini intessuto di molti riferimenti intertestuali. Chissà se, rivedendo nel 1987 la sua opera, Henze non abbia autorizzato il taglio di questi tre episodi non solo per sveltire il passo al suo lavoro, ma anche per evitare di riproporre una scena ben nota agli appassionati del melodramma internazionale, oramai divenuta un topos del finale di disperazione nell’era moderna? Il Teatro La Fenice tenne a battesimo la nuova Elegy for Young Lovers (la cui première risale al 1961) in una versione semi-scenica curata dall’autore, il 20 ottobre 1988, e ora la ripropone meritoriamente. Il titolo, oramai uno dei pochi del dopoguerra entrato nei repertori dei grandi teatri, cattura l’attenzione del pubblico per diversi motivi. Anzitutto si vale di uno fra i libretti più belli (oltre che utili alla musica), raffinati, ingegnosi che sia dato leggere, opera di altissima poesia dovuta in gran parte al maggior poeta di lingua inglese del secolo scorso, Wystan Hugh Auden, che divise la responsabilità autoriale col compagno di quegli anni, Chester Kallman (i veneziani potranno godere fra poco del più famoso dei libretti della coppia: The Rake’s Progress, Venezia 1951). L’edizione che presentiamo offre un’impaginazione che tiene conto delle norme poetiche della poesia inglese, costata molto tempo alla nostra redazione, e anche per questo offre una prospettiva inedita per chi sa leggere fra le righe dei versi. Nella seconda parte della sezione saggistica viene documentata la genesi del lavoro grazie all’introduzione dei due poeti al libretto pubblicato in occasione della première, documento già noto in italiano ma assolutamente imprescindibile per comprendere e valutare il metodo di due talenti letterari in rapporto col musicista. Hans Werner Henze prende poi la parola nei due scritti successivi, entrambi inediti in italiano, mostrando tutta la sua lucidità nel ruolo di demiurgo dell’azione con una lezione di drammaturgia musicale fra le più alte del nostro tempo. Una fotografia che lo ritrae ai tempi del lavoro su Elegy insieme all’affascinante Ingeborg Bachmann (a p. 40) vuol rendere omaggio alla smagliante prima maturità di entrambi, e alla tenera collaborazione in corso fra loro, visto che anche la talentosa scrittrice austriaca scrisse libretti importanti per il maestro. Innamorati Ingeborg e Hans, si direbbe guardando il trasporto che anima l’espressione di lei. Ma non andò così nella vita reale, perché anche Henze, del pari di Auden e Kallman, visse consapevolmente la propria omosessualità. Di questo motore dell’ispirazione, entrando perciò nel campo degli studi sul soggetto biografico già caro a Dahlhaus, si occupa Federica Marsico nel saggio di apertura. Il tema non è importante solamente perché, come insegna la parte migliore degli studi di genere in musicologia, chiarisce quanta parte abbia la vita del destinatore nella creazione dell’opera – e in questo caso direi che sia davvero molta –, ma soprattutto perché illumina alcune importanti scelte artistiche, tanto di Henze (il quale dichiarò che l’omosessualità «in qualche modo c’è sempre in ogni mio lavoro») quanto dei due poeti. Una chiave ermeneutica importante, dunque, che si affianca ad altri spunti analitici e offre una visione complessiva di questo lavoro. Nella guida all’opera Bonomi ha tenuto conto del parametro timbrico nel commentare i nuclei nevralgici della forma, articolata in trentaquattro episodi della partitura. Dentro ai ‘numeri chiusi’ di Henze si muove una musica che non conosce compromessi con generi di consumo, per libera atonalità, piuttosto che per serie dodecafoniche trattate anch’esse con libertà, fino alle nostalgie palesi dello stile del melodramma, che trovano accenti commoventi nelle due grandi scene di follia, della gelida Carolina von Kirchstetten e, soprattutto, di Hilda Mack, personaggio di grandissimo spessore etico. Affetto, però, non vuol dire recupero di quel linguaggio: Elegy for Young Lovers non è un’opera conservatrice, ma una creazione artistica che ci è sempre contemporanea. E che apre nel finale un sipario metateatrale, quando udiamo la poesia del poeta Mittenhofer nei lamenti vocalizzati di chi ha contribuito a regalargli l’ispirazione per scrivere il suo poema. «His poem has been written. The opera is over»: la ‘commedia’ è finita…

Hans Werner Henze, «Elegy for Young Lovers»

GIRARDI, Michele
2014-01-01

Abstract

«Innanzi, innanzi ancor!». Immersa nel calore soffocante del deserto della Louisiana, una coppia di giovani allo stremo delle forze avanza faticosamente verso il proscenio. «Tutta su me ti posa»: lui la sostiene con amore e dedizione infinita, in un cammino che ha come sbocco solamente la fine – lei è stanca, quasi al limite delle forze. È uno dei finali più estenuati e coinvolgenti di tutta l’opera in musica, un rito funebre che celebra l’eterno parallelo tra amore e morte: Manon Lescaut di Giacomo Puccini, atto quarto. Nei tre episodi che preludono al finale di Elegy for Young Lovers (dal sesto all’ottavo dell’atto terzo) il clima cambia radicalmente: siamo immersi nel gelo, mentre infuria una bufera di neve, ma davanti ai nostri occhi di spettatori sono sempre due giovani amanti che vediamo avanzare. Meno disperati, forse, dei protagonisti pucciniani, ma come loro visibilmente provati: «their forms only vaguely visible through the driving snow. Both are in the last stages of exhaustion», recita la didascalia del libretto. Lei, soprattutto: «I can’t go on». E lui, devoto e premuroso, trova un riparo dalla furia degli elementi: «Come, here’s a little | Shelf of rock under which to shelter | Against the storm. We’ll stop here». E si fermano, come Manon e Des Grieux: l’appuntamento con la morte è arrivato. Hans Werner Henze, compositore contemporaneo aperto a ogni esperienza e lontano da qualsivoglia dogma, tanto passatista quanto modernista, aveva molta familiarità con Manon Lescaut. Boulevard Solitude, l’opera che lo portò alla notorietà nel 1951, è uno dei più riusciti travestimenti del soggetto di Prévost, e intrattiene un legame affettivo col capolavoro di Puccini intessuto di molti riferimenti intertestuali. Chissà se, rivedendo nel 1987 la sua opera, Henze non abbia autorizzato il taglio di questi tre episodi non solo per sveltire il passo al suo lavoro, ma anche per evitare di riproporre una scena ben nota agli appassionati del melodramma internazionale, oramai divenuta un topos del finale di disperazione nell’era moderna? Il Teatro La Fenice tenne a battesimo la nuova Elegy for Young Lovers (la cui première risale al 1961) in una versione semi-scenica curata dall’autore, il 20 ottobre 1988, e ora la ripropone meritoriamente. Il titolo, oramai uno dei pochi del dopoguerra entrato nei repertori dei grandi teatri, cattura l’attenzione del pubblico per diversi motivi. Anzitutto si vale di uno fra i libretti più belli (oltre che utili alla musica), raffinati, ingegnosi che sia dato leggere, opera di altissima poesia dovuta in gran parte al maggior poeta di lingua inglese del secolo scorso, Wystan Hugh Auden, che divise la responsabilità autoriale col compagno di quegli anni, Chester Kallman (i veneziani potranno godere fra poco del più famoso dei libretti della coppia: The Rake’s Progress, Venezia 1951). L’edizione che presentiamo offre un’impaginazione che tiene conto delle norme poetiche della poesia inglese, costata molto tempo alla nostra redazione, e anche per questo offre una prospettiva inedita per chi sa leggere fra le righe dei versi. Nella seconda parte della sezione saggistica viene documentata la genesi del lavoro grazie all’introduzione dei due poeti al libretto pubblicato in occasione della première, documento già noto in italiano ma assolutamente imprescindibile per comprendere e valutare il metodo di due talenti letterari in rapporto col musicista. Hans Werner Henze prende poi la parola nei due scritti successivi, entrambi inediti in italiano, mostrando tutta la sua lucidità nel ruolo di demiurgo dell’azione con una lezione di drammaturgia musicale fra le più alte del nostro tempo. Una fotografia che lo ritrae ai tempi del lavoro su Elegy insieme all’affascinante Ingeborg Bachmann (a p. 40) vuol rendere omaggio alla smagliante prima maturità di entrambi, e alla tenera collaborazione in corso fra loro, visto che anche la talentosa scrittrice austriaca scrisse libretti importanti per il maestro. Innamorati Ingeborg e Hans, si direbbe guardando il trasporto che anima l’espressione di lei. Ma non andò così nella vita reale, perché anche Henze, del pari di Auden e Kallman, visse consapevolmente la propria omosessualità. Di questo motore dell’ispirazione, entrando perciò nel campo degli studi sul soggetto biografico già caro a Dahlhaus, si occupa Federica Marsico nel saggio di apertura. Il tema non è importante solamente perché, come insegna la parte migliore degli studi di genere in musicologia, chiarisce quanta parte abbia la vita del destinatore nella creazione dell’opera – e in questo caso direi che sia davvero molta –, ma soprattutto perché illumina alcune importanti scelte artistiche, tanto di Henze (il quale dichiarò che l’omosessualità «in qualche modo c’è sempre in ogni mio lavoro») quanto dei due poeti. Una chiave ermeneutica importante, dunque, che si affianca ad altri spunti analitici e offre una visione complessiva di questo lavoro. Nella guida all’opera Bonomi ha tenuto conto del parametro timbrico nel commentare i nuclei nevralgici della forma, articolata in trentaquattro episodi della partitura. Dentro ai ‘numeri chiusi’ di Henze si muove una musica che non conosce compromessi con generi di consumo, per libera atonalità, piuttosto che per serie dodecafoniche trattate anch’esse con libertà, fino alle nostalgie palesi dello stile del melodramma, che trovano accenti commoventi nelle due grandi scene di follia, della gelida Carolina von Kirchstetten e, soprattutto, di Hilda Mack, personaggio di grandissimo spessore etico. Affetto, però, non vuol dire recupero di quel linguaggio: Elegy for Young Lovers non è un’opera conservatrice, ma una creazione artistica che ci è sempre contemporanea. E che apre nel finale un sipario metateatrale, quando udiamo la poesia del poeta Mittenhofer nei lamenti vocalizzati di chi ha contribuito a regalargli l’ispirazione per scrivere il suo poema. «His poem has been written. The opera is over»: la ‘commedia’ è finita…
2014
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