In questo studio mi propongo di affrontare la trattazione e lo sviluppo della tematica religiosa in due celeberrime revenge tragedies di epoca elisabettiana e giacomiana: l’Amleto di Shakespeare e La Duchessa di Amalfi di Webster. In particolare, tenterò di dimostrare la centralità del conflitto tra uomo e Dio – la “teomachia” – nella Weltanschauung dei due drammaturghi considerati, i cui personaggi sono divisi tra la fede cristiana e il nichilismo pagano, tra la speranza e la disperazione, tra la fiducia in un Dio supremo e la “lotta” quasi “demoniaca” contro il Creatore. In entrambi i casi la “teomachia” assume proporzioni che travalicano l’ambito del Leitmotiv, fino a diventare un tassello fondamentale nella struttura del testo letterario e nel pensiero dei due scrittori considerati, come elemento-spia della loro charta mundi. Il mio saggio intende mettere in luce le ansie e le contraddizioni religiose che dilaniavano l’Inghilterra protestante, anticattolica e antipapista dei Tudor e degli Stuart, ma anche e soprattutto l’importanza della tensione “teomachica” nel mondo creativo di Shakespeare e Webster, attraverso un confronto intertestuale tra i loro capolavori – Amleto e La Duchessa di Amalfi. In particolare, la prima parte del saggio presenta una sintesi delle problematiche religiose individuabili nell’Amleto. Si cercherà di dimostrare la compresenza nel dramma di tre atteggiamenti distinti nei confronti della religione, che possono essere così riassunti: - Lo “stoicismo” di Orazio. L’amico di Amleto non è un “pipe for Fortune’s finger” (III, ii, 65), bensì un sapiens dallo spirito libero con il pieno controllo sulle proprie passioni e debolezze umane. Orazio coltiva interessi filosofici e si lascia guidare dalla ratio, al punto da persuadersi dell’esistenza del fantasma del padre di Amleto solo dopo averlo visto con i suoi stessi occhi (I, i, 43-62). - L’“epicureismo” di Claudio e Gertrude. I reali di Danimarca trascorrono il loro tempo in mezzo alle gioie dei banchetti, delle danze, della lussuria (I, iv, 7-22) e cercano di convincere Amleto a troncare il lutto per il padre, dal momento che tutti dobbiamo morire e perseverare nel dolore è cosa innaturale ed empia (I, ii, 68-72, 87-106). - Il “cristianesimo” travagliato di Amleto o, in altri termini, il suo rapporto controverso con la religione e con Dio, la sua “teomachia” – focus del mio studio. Amleto utilizza un linguaggio che “mescola” concezioni cristiane e pagane – come Orazio –, e che quindi risulta di per sé ambiguo e duplice (cfr. l’uso di espressioni del tipo “by heaven”, “heavens”, “with all the vows of heaven”, “before my God”, “for God’s love”, dove al Dio cristiano si alterna il richiamo al Cielo o ai Cieli interpretabili sia in chiave biblica sia in riferimento al substrato pagano del testo). 1 La fede – tipicamente cristiana – nell’immortalità dell’anima non è tuttavia accompagnata dalla consapevolezza dell’alto valore della vita (I, iv, 64-67): l’eroe shakespeariano non solo mette a rischio la propria sicurezza personale in occasione dell’incontro con il fantasma del padre, ma valuta a più riprese la possibilità di porre fine ad un’esistenza divenuta per lui ormai insopportabile, pur nella certezza di compiere, con il suicidio, un atto contrario al volere di Dio (I, ii, 129-132). Amleto oscilla continuamente nel dramma tra inferno e paradiso, cielo e terra, bene e male, santità e dannazione. Enuncia il proposito di dedicarsi alla preghiera (I, v, 137- 138), ma rinfocola contemporaneamente il suo desiderio di vendetta evocando il cielo e l’inferno a suggello della promessa fatta al fantasma del padre (I, v, 92-93). In un altro passo Ofelia racconta a Polonio di aver ricevuto la visita di un Amleto pallido e trasandato, quasi reduce dall’inferno (II, i, 80-87). Amleto bestemmia (ad es. in II, ii, 510) per poi rimproverarsene (II, ii, 560-565), non si pente per aver ucciso Polonio ma chiede infine perdono a Laerte. La stessa vendetta di Amleto – retaggio pagano caratteristico della revenge tragedy splendidamente codificata in The Spanish Tragedy di Kyd – avviene cioè in un ambito ad essa estraneo, quello cristiano. L’eroe, infatti, afferma che la sua vendetta è mossa “by heaven and hell” (II, ii, 562), ad indicare la tortuosità e l’equivocità del suo comportamento. Se l’impulso vendicativo di Laerte nei confronti dell’assassino di suo padre sembra collocarsi infallibilmente nella sfera del male (per vendicare Polonio Laerte è pronto ad infrangere qualsiasi giuramento e a “sfidare la dannazione” in IV, v, 131-137, sgozzando Amleto in chiesa – lo dice in IV, vii, 123 –, e invita il diavolo a prenderne l’anima quando questo compare al funerale di Ofelia in V, i, 242), l’atteggiamento di Amleto pare sottrarsi ad ogni sistematizzazione o inserimento in una precisa categoria etica. Amleto crede in una “special providence”, in un disegno universale che informa la vita dell’uomo, in base al quale nemmeno la caduta di un passero è un evento casuale (V, ii, 203-207), ma la Provvidenza altro non è che triste fatalità. L’uomo è per Amleto una “quintessence of dust” (II, ii, 302) o un cadavere ingrassato per i vermi (IV, iii, 17-24). In questo pessimismo relativistico l’unico spiraglio di luce è dato dalla morte liberatrice, dal “To die, to sleep” del celeberrimo monologo sul suicidio (III, i, 55-87). Amleto è “nemico di Dio” perché rifiuta ogni certezza spirituale, rifiuta la religione come costruzione teoretica, rifiuta Dio in nome della libertà individuale e dell’atarassia. Anche il Bosola websteriano è un personaggio che – del pari di Amleto – “striscia tra terra e cielo” (III, i, 126-127), come si cercherà di dimostrare nella seconda parte della relazione, dedicata alla declinazione del tema della “teomachia” ne La Duchessa di Amalfi. Il villain Bosola diventa un familiar spirit o aiutante diabolico nel momento in cui accetta di spiare la Duchessa per conto dei suoi fratelli, votandosi così alla dannazione (I, i, 263-266). Il “good deed” di Ferdinando, che ha procurato all’ex galeotto il posto di sovrintendente alle scuderie della Duchessa in cambio dei suoi loschi servigi, trascina con sè “all the ill man can invent”, tramutando il “vile sin” in “complimental sin” (I, i, 271-277). Bosola gioca un ruolo di primo piano nell’omicidio della Duchessa, dando prova della sua cinica efferatezza di “devil” – come lo chiama la Duchessa in III, v, 99 –, salvo poi divenirne – in un secondo revenge plot – il vendicatore. In questa seconda vendetta Bosola sembra riscattarsi, la sua figura acquista un maggiore spessore e intensità di chiaroscuri, illuminata per un istante dalla pietà per la sorte della Duchessa. Nell’ottica di Antonio lo sguardo di Bosola, rivolto al cielo, è ostacolato dal demonio (II, i, 98-99): il villain di Webster è cioè incapace di compiere il bene, pur desiderandolo, e tutte le sue azioni tendono a ristabilire quella fairness che Dio sembra non poter garantire: l’uomo è faber suae fortunae, si sostituisce a Dio, configurandosi come suo “nemico”. Nel dramma di Webster il motivo della “teomachia” si sviluppa nelle forme di un’assoluta “indifferenza” nei confronti dell’ultraterreno e nella ricerca di “vie alternative”. Non solo i personaggi de La Duchessa di Amalfi non si appellano a Dio nel momento del bisogno né invocano il perdono del Creatore per gli sbagli commessi, ma si affidano all’astrologia e al buon senso comune. Ad esempio, Antonio apprende da un oroscopo che il primogenito morirà prematuramente di morte violenta (II, iv, 55-64) e il Cardinale esorta la sorella a non cedere alla tentazione di risposarsi facendo leva sulla sua giudiziosità o “discretion”, e non certo sul ricorso alle pratiche religiose (I, i, 292-293). Il rapporto tra uomo e Dio è segnato in Webster – in misura perfino maggiore rispetto a Shakespeare – dalla fragilità spirituale dell’uomo, dall’impotenza del bene, dall’ateismo. Nessun personaggio de La Duchessa di Amalfi può dirsi un perfetto cristiano, a cominciare dal Cardinale libidinoso e opportunista, mandante dell’omicidio della sorella, passando per Ferdinando, la cui accentuata cristianità è una “religione negativa” dell’odio e della vendetta, in nome della quale il Duca cerca con i mezzi più ignobili di far impazzire la Duchessa e di farle rinnegare la fede cristiana per mandarla all’inferno (IV, i). La Duchessa medesima, sebbene dotata di una “noble virtue”, di una pietas che la eleva al di sopra di tutte le altre donne (I, i, 201-204), rimane pur sempre una creatura di “carne e sangue” (I, i, 453) che deve fare i conti con una femminilità difficile da reprimere. La religiosità della Duchessa si colloca senza dubbio al di fuori della chiesa tradizionale, che è invitata ad approvare il matrimonio segreto con Antonio a fatto avvenuto (I, i, 492-494). La Duchessa è più volte maledetta dai fratelli e maledice essa stessa i propri figli, (“born accurst”, in III, v, 115). “Preghiera” e “maledizione” si mischiano nel lessico e nella mente della Duchessa, che prima afferma di voler andare a pregare, poi a maledire (IV, i, 95-96). “È la pena delle anime dannate - / vivere e non poter morire” (IV, i, 70-71) – sentenzia la Duchessa, che nella sua prigionia rinnega i valori cristiani e agogna la morte, preparandosi a lasciare la vita con una forza d’animo tutta pagana. L’unica consolazione è la certezza del ritorno nel nulla (III, v, 82-84). Nessuna religione, quindi, nessun codice etico, nessun Dio. La “teomachia” di Webster consegna l’uomo ai colpi della “frusta del cielo” (III, v,78-81), nel suo moto vorticoso verso l’abisso. “Per le stelle / siamo palle da tennis, da scagliare / qua e là, come gli piace” (V, iv, 54-55), in un mondo corrotto dove – l’ha ben capito Bosola – la speranza è per gli stolti e “mai nessuno è andato al patibolo con più terrore di chi sperava nella grazia” (I, i, 56-57).

Shakespeare, Webster e la “teomachia”: un confronto

TORRESIN, LINDA
2012-01-01

Abstract

In questo studio mi propongo di affrontare la trattazione e lo sviluppo della tematica religiosa in due celeberrime revenge tragedies di epoca elisabettiana e giacomiana: l’Amleto di Shakespeare e La Duchessa di Amalfi di Webster. In particolare, tenterò di dimostrare la centralità del conflitto tra uomo e Dio – la “teomachia” – nella Weltanschauung dei due drammaturghi considerati, i cui personaggi sono divisi tra la fede cristiana e il nichilismo pagano, tra la speranza e la disperazione, tra la fiducia in un Dio supremo e la “lotta” quasi “demoniaca” contro il Creatore. In entrambi i casi la “teomachia” assume proporzioni che travalicano l’ambito del Leitmotiv, fino a diventare un tassello fondamentale nella struttura del testo letterario e nel pensiero dei due scrittori considerati, come elemento-spia della loro charta mundi. Il mio saggio intende mettere in luce le ansie e le contraddizioni religiose che dilaniavano l’Inghilterra protestante, anticattolica e antipapista dei Tudor e degli Stuart, ma anche e soprattutto l’importanza della tensione “teomachica” nel mondo creativo di Shakespeare e Webster, attraverso un confronto intertestuale tra i loro capolavori – Amleto e La Duchessa di Amalfi. In particolare, la prima parte del saggio presenta una sintesi delle problematiche religiose individuabili nell’Amleto. Si cercherà di dimostrare la compresenza nel dramma di tre atteggiamenti distinti nei confronti della religione, che possono essere così riassunti: - Lo “stoicismo” di Orazio. L’amico di Amleto non è un “pipe for Fortune’s finger” (III, ii, 65), bensì un sapiens dallo spirito libero con il pieno controllo sulle proprie passioni e debolezze umane. Orazio coltiva interessi filosofici e si lascia guidare dalla ratio, al punto da persuadersi dell’esistenza del fantasma del padre di Amleto solo dopo averlo visto con i suoi stessi occhi (I, i, 43-62). - L’“epicureismo” di Claudio e Gertrude. I reali di Danimarca trascorrono il loro tempo in mezzo alle gioie dei banchetti, delle danze, della lussuria (I, iv, 7-22) e cercano di convincere Amleto a troncare il lutto per il padre, dal momento che tutti dobbiamo morire e perseverare nel dolore è cosa innaturale ed empia (I, ii, 68-72, 87-106). - Il “cristianesimo” travagliato di Amleto o, in altri termini, il suo rapporto controverso con la religione e con Dio, la sua “teomachia” – focus del mio studio. Amleto utilizza un linguaggio che “mescola” concezioni cristiane e pagane – come Orazio –, e che quindi risulta di per sé ambiguo e duplice (cfr. l’uso di espressioni del tipo “by heaven”, “heavens”, “with all the vows of heaven”, “before my God”, “for God’s love”, dove al Dio cristiano si alterna il richiamo al Cielo o ai Cieli interpretabili sia in chiave biblica sia in riferimento al substrato pagano del testo). 1 La fede – tipicamente cristiana – nell’immortalità dell’anima non è tuttavia accompagnata dalla consapevolezza dell’alto valore della vita (I, iv, 64-67): l’eroe shakespeariano non solo mette a rischio la propria sicurezza personale in occasione dell’incontro con il fantasma del padre, ma valuta a più riprese la possibilità di porre fine ad un’esistenza divenuta per lui ormai insopportabile, pur nella certezza di compiere, con il suicidio, un atto contrario al volere di Dio (I, ii, 129-132). Amleto oscilla continuamente nel dramma tra inferno e paradiso, cielo e terra, bene e male, santità e dannazione. Enuncia il proposito di dedicarsi alla preghiera (I, v, 137- 138), ma rinfocola contemporaneamente il suo desiderio di vendetta evocando il cielo e l’inferno a suggello della promessa fatta al fantasma del padre (I, v, 92-93). In un altro passo Ofelia racconta a Polonio di aver ricevuto la visita di un Amleto pallido e trasandato, quasi reduce dall’inferno (II, i, 80-87). Amleto bestemmia (ad es. in II, ii, 510) per poi rimproverarsene (II, ii, 560-565), non si pente per aver ucciso Polonio ma chiede infine perdono a Laerte. La stessa vendetta di Amleto – retaggio pagano caratteristico della revenge tragedy splendidamente codificata in The Spanish Tragedy di Kyd – avviene cioè in un ambito ad essa estraneo, quello cristiano. L’eroe, infatti, afferma che la sua vendetta è mossa “by heaven and hell” (II, ii, 562), ad indicare la tortuosità e l’equivocità del suo comportamento. Se l’impulso vendicativo di Laerte nei confronti dell’assassino di suo padre sembra collocarsi infallibilmente nella sfera del male (per vendicare Polonio Laerte è pronto ad infrangere qualsiasi giuramento e a “sfidare la dannazione” in IV, v, 131-137, sgozzando Amleto in chiesa – lo dice in IV, vii, 123 –, e invita il diavolo a prenderne l’anima quando questo compare al funerale di Ofelia in V, i, 242), l’atteggiamento di Amleto pare sottrarsi ad ogni sistematizzazione o inserimento in una precisa categoria etica. Amleto crede in una “special providence”, in un disegno universale che informa la vita dell’uomo, in base al quale nemmeno la caduta di un passero è un evento casuale (V, ii, 203-207), ma la Provvidenza altro non è che triste fatalità. L’uomo è per Amleto una “quintessence of dust” (II, ii, 302) o un cadavere ingrassato per i vermi (IV, iii, 17-24). In questo pessimismo relativistico l’unico spiraglio di luce è dato dalla morte liberatrice, dal “To die, to sleep” del celeberrimo monologo sul suicidio (III, i, 55-87). Amleto è “nemico di Dio” perché rifiuta ogni certezza spirituale, rifiuta la religione come costruzione teoretica, rifiuta Dio in nome della libertà individuale e dell’atarassia. Anche il Bosola websteriano è un personaggio che – del pari di Amleto – “striscia tra terra e cielo” (III, i, 126-127), come si cercherà di dimostrare nella seconda parte della relazione, dedicata alla declinazione del tema della “teomachia” ne La Duchessa di Amalfi. Il villain Bosola diventa un familiar spirit o aiutante diabolico nel momento in cui accetta di spiare la Duchessa per conto dei suoi fratelli, votandosi così alla dannazione (I, i, 263-266). Il “good deed” di Ferdinando, che ha procurato all’ex galeotto il posto di sovrintendente alle scuderie della Duchessa in cambio dei suoi loschi servigi, trascina con sè “all the ill man can invent”, tramutando il “vile sin” in “complimental sin” (I, i, 271-277). Bosola gioca un ruolo di primo piano nell’omicidio della Duchessa, dando prova della sua cinica efferatezza di “devil” – come lo chiama la Duchessa in III, v, 99 –, salvo poi divenirne – in un secondo revenge plot – il vendicatore. In questa seconda vendetta Bosola sembra riscattarsi, la sua figura acquista un maggiore spessore e intensità di chiaroscuri, illuminata per un istante dalla pietà per la sorte della Duchessa. Nell’ottica di Antonio lo sguardo di Bosola, rivolto al cielo, è ostacolato dal demonio (II, i, 98-99): il villain di Webster è cioè incapace di compiere il bene, pur desiderandolo, e tutte le sue azioni tendono a ristabilire quella fairness che Dio sembra non poter garantire: l’uomo è faber suae fortunae, si sostituisce a Dio, configurandosi come suo “nemico”. Nel dramma di Webster il motivo della “teomachia” si sviluppa nelle forme di un’assoluta “indifferenza” nei confronti dell’ultraterreno e nella ricerca di “vie alternative”. Non solo i personaggi de La Duchessa di Amalfi non si appellano a Dio nel momento del bisogno né invocano il perdono del Creatore per gli sbagli commessi, ma si affidano all’astrologia e al buon senso comune. Ad esempio, Antonio apprende da un oroscopo che il primogenito morirà prematuramente di morte violenta (II, iv, 55-64) e il Cardinale esorta la sorella a non cedere alla tentazione di risposarsi facendo leva sulla sua giudiziosità o “discretion”, e non certo sul ricorso alle pratiche religiose (I, i, 292-293). Il rapporto tra uomo e Dio è segnato in Webster – in misura perfino maggiore rispetto a Shakespeare – dalla fragilità spirituale dell’uomo, dall’impotenza del bene, dall’ateismo. Nessun personaggio de La Duchessa di Amalfi può dirsi un perfetto cristiano, a cominciare dal Cardinale libidinoso e opportunista, mandante dell’omicidio della sorella, passando per Ferdinando, la cui accentuata cristianità è una “religione negativa” dell’odio e della vendetta, in nome della quale il Duca cerca con i mezzi più ignobili di far impazzire la Duchessa e di farle rinnegare la fede cristiana per mandarla all’inferno (IV, i). La Duchessa medesima, sebbene dotata di una “noble virtue”, di una pietas che la eleva al di sopra di tutte le altre donne (I, i, 201-204), rimane pur sempre una creatura di “carne e sangue” (I, i, 453) che deve fare i conti con una femminilità difficile da reprimere. La religiosità della Duchessa si colloca senza dubbio al di fuori della chiesa tradizionale, che è invitata ad approvare il matrimonio segreto con Antonio a fatto avvenuto (I, i, 492-494). La Duchessa è più volte maledetta dai fratelli e maledice essa stessa i propri figli, (“born accurst”, in III, v, 115). “Preghiera” e “maledizione” si mischiano nel lessico e nella mente della Duchessa, che prima afferma di voler andare a pregare, poi a maledire (IV, i, 95-96). “È la pena delle anime dannate - / vivere e non poter morire” (IV, i, 70-71) – sentenzia la Duchessa, che nella sua prigionia rinnega i valori cristiani e agogna la morte, preparandosi a lasciare la vita con una forza d’animo tutta pagana. L’unica consolazione è la certezza del ritorno nel nulla (III, v, 82-84). Nessuna religione, quindi, nessun codice etico, nessun Dio. La “teomachia” di Webster consegna l’uomo ai colpi della “frusta del cielo” (III, v,78-81), nel suo moto vorticoso verso l’abisso. “Per le stelle / siamo palle da tennis, da scagliare / qua e là, come gli piace” (V, iv, 54-55), in un mondo corrotto dove – l’ha ben capito Bosola – la speranza è per gli stolti e “mai nessuno è andato al patibolo con più terrore di chi sperava nella grazia” (I, i, 56-57).
2012
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