Gli storici della gastronomia sono soliti affermare che non esistette una cucina creativa ottomana, nonostante la quantità di prodotti a disposizione e i contatti con culture culinarie diverse. Le fonti che hanno dato luogo a una simile interpretazione sono certo degne di fede, eppure è possibile trovare anche altre testimonianze. Oltre ad alcuni ricettari antichi, esistono nomi di piatti, quantità di cibi acquistate per il palazzo imperiale o per grandi famiglie, calmieri di prezzi per le derrate alimentari, resoconti di processi e descrizioni di feste organizzate per celebrare i fasti dell’Impero e dimostrare così che il sultano era un padre amorevole che nutriva i suoi sudditi. Inoltre le fonti europee devono essere lette da un’angolatura diversa, che tenga conto innanzi tutto della cultura ottomana e non solo di quella italiana, francese o inglese come era quella degli autori dei resoconti presi in esame. Le conclusioni a cui si può arrivare con una simile analisi sono sorprendenti. La cucina ottomana seppe trarre vantaggio dai contatti che ebbe con culture gastronomiche diverse, da quella iranica a quella arabo-islamica, da quella greco-bizantina sino a quelle fiorite nella zona balcanica e nel nord-Africa. Diversa da quella in uso nelle corti europee era però l’etichetta, che prevedeva si mangiasse in silenzio e si tenessero separati il momento di mangiare da quello del bere, attribuendo al primo un carattere quasi religioso. Inoltre i due pasti forti della giornata erano la prima colazione e la cena della sera, a cui raramente si ammettevano estranei, soprattutto se provenienti da paesi lontani e di diversa religione e cultura. Altra cosa era il veloce spuntino di mezzogiorno, utilizzato appunto per interrompere il lavoro e ritemprare il corpo, creduto però dagli ambasciatori stranieri il vero e proprio ‘banchetto del sultano’. Diversa era infine la scala di valori e simboli legati al cibo. Certi piatti, come per esempio quelli a base di pollame, erano offerti agli ospiti di riguardo per il significato simbolico che si voleva trasmettere e non per poco riguardo e assenza di cibi più raffinati. Partendo da tali considerazioni questo volume intende modificare il pensiero corrente, dimostrando che quella ottomana fu una gastronomia molto più raffinata di quanto si sia generalmente conosciuto fino ad oggi, che seppe recepire l'influsso di altre civiltà e altri gusti, appropriarsene e creare una commistione nuova e originale.

La grande cucina ottomana. Una storia di gusto e di cultura

PEDANI, Maria Pia
2012-01-01

Abstract

Gli storici della gastronomia sono soliti affermare che non esistette una cucina creativa ottomana, nonostante la quantità di prodotti a disposizione e i contatti con culture culinarie diverse. Le fonti che hanno dato luogo a una simile interpretazione sono certo degne di fede, eppure è possibile trovare anche altre testimonianze. Oltre ad alcuni ricettari antichi, esistono nomi di piatti, quantità di cibi acquistate per il palazzo imperiale o per grandi famiglie, calmieri di prezzi per le derrate alimentari, resoconti di processi e descrizioni di feste organizzate per celebrare i fasti dell’Impero e dimostrare così che il sultano era un padre amorevole che nutriva i suoi sudditi. Inoltre le fonti europee devono essere lette da un’angolatura diversa, che tenga conto innanzi tutto della cultura ottomana e non solo di quella italiana, francese o inglese come era quella degli autori dei resoconti presi in esame. Le conclusioni a cui si può arrivare con una simile analisi sono sorprendenti. La cucina ottomana seppe trarre vantaggio dai contatti che ebbe con culture gastronomiche diverse, da quella iranica a quella arabo-islamica, da quella greco-bizantina sino a quelle fiorite nella zona balcanica e nel nord-Africa. Diversa da quella in uso nelle corti europee era però l’etichetta, che prevedeva si mangiasse in silenzio e si tenessero separati il momento di mangiare da quello del bere, attribuendo al primo un carattere quasi religioso. Inoltre i due pasti forti della giornata erano la prima colazione e la cena della sera, a cui raramente si ammettevano estranei, soprattutto se provenienti da paesi lontani e di diversa religione e cultura. Altra cosa era il veloce spuntino di mezzogiorno, utilizzato appunto per interrompere il lavoro e ritemprare il corpo, creduto però dagli ambasciatori stranieri il vero e proprio ‘banchetto del sultano’. Diversa era infine la scala di valori e simboli legati al cibo. Certi piatti, come per esempio quelli a base di pollame, erano offerti agli ospiti di riguardo per il significato simbolico che si voleva trasmettere e non per poco riguardo e assenza di cibi più raffinati. Partendo da tali considerazioni questo volume intende modificare il pensiero corrente, dimostrando che quella ottomana fu una gastronomia molto più raffinata di quanto si sia generalmente conosciuto fino ad oggi, che seppe recepire l'influsso di altre civiltà e altri gusti, appropriarsene e creare una commistione nuova e originale.
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