Il lavoro ha come obiettivo l’individuazione e la ricostruzione di un “nuovo” principio di diritto contrattuale, vale a dire la trasparenza contrattuale, riflettendo sul ruolo che assumono i fenomeni di conoscenza nel contratto. L’analisi prende anzitutto in considerazione il ruolo delle clausole generali e, segnatamente, della buona fede, rilevando come le regole di condotta che costituiscono il contenuto della buona fede non sono create dall’interprete attingendo da valori esterni all’atto e/o al rapporto, bensì dal medesimo trovate al loro interno e già messe in forma dal diritto per mezzo della stessa regola di buona fede. L’Autore opera dunque una ricognizione della teoria della conoscenza in Falzea, Pugliatti e Luhmann, della teoria dell’errore e del dolo, nonché dei contenuti degli artt. 1337 e 1338 c.c., per giungere ad individuare i criteri di selezione dei fattori di conoscenza da comunicare. Vengono dunque indagati i seguenti problemi: a quale categoria concettuale o a quale principio possono ricondursi le informazioni tipicamente individuate nella normativa settoriale o di derivazione europea? Quale è il rapporto tra questi dati conoscitivi e la forma dell’atto? Quale rimedio fa sortire l’ordinamento nell’ipotesi di mancata comunicazione di tutte o di talune informazioni? Si cerca di chiarire fino a che punto i “nuovi” obblighi di informazione possono essere governati dalla clausola generale di buona fede, o dalla disciplina dell’oggetto del contratto, o, ancora, da quella della forma del contratto, il tutto alla luce della ratio che governa, in particolare, la disciplina sul c.d. contraente debole. Al fine di mettere in luce le diverse manifestazioni del principio di trasparenza, vengono considerati i suoi contenuti nella disciplina delle clausole vessatorie. L’analisi delle ulteriori discipline in materia contrattuale di fonte o di ispirazione europea conduce ad individuare un nuovo modello di contratto: il contratto a contenuto minimo vincolato (contratti di consumo e contratti di impresa). La constatazione è che mentre nell’orizzonte del codice civile la trasparenza contrattuale viene consegnata alla clausola generale di buona fede; nell’orizzonte dei contratti a contenuto minimo vincolato è consegnata a norme imperative che tipicizzano gli elementi conoscitivi da comunicare. In quest’ottica anche la buona fede contrattuale costituisce un congegno applicativo del principio di trasparenza. La trasparenza dunque assurge a principio generale, valido cioè per tutte le relazioni intersoggettive, non solo private (si pensi alla trasparenza dell’attività della P.A.); è un principio che governa l’accessibilità e l’intelligibilità delle informazioni e della loro comunicazione. La ricerca infine si concentra sul regime di rimedi per giungere alla conclusione che la rappresentazione della trasparenza come categoria comprensiva di una pluralità di forme applicative, conduce ad esiti differenti. L’Autore si sofferma, in particolare, sul principio di non interferenza tra regole di validità e regole di comportamento, specificando il contenuto anche alla luce della più recente giurisprudenza, per soffermarsi sul rimedio da accordare alla inosservanza delle norme sulla trasparenza a contenuto specifico, rispetto alle quali il legislatore non abbia disposto un rimedio specifico. Il tutto adottando il metodo rimediale, il quale richiede di approdare alla forma di rimedio restitutorio, risarcitorio o satisfattivo che, tenuto conto della specifica istanza di tutela, davvero realizzi la ratio normativa piuttosto che una mera esigenza di giustizia sostanziale.

Accesso alle informazioni e trasparenza. Profili della conoscenza nel diritto dei contratti.

SENIGAGLIA, Roberto
2007-01-01

Abstract

Il lavoro ha come obiettivo l’individuazione e la ricostruzione di un “nuovo” principio di diritto contrattuale, vale a dire la trasparenza contrattuale, riflettendo sul ruolo che assumono i fenomeni di conoscenza nel contratto. L’analisi prende anzitutto in considerazione il ruolo delle clausole generali e, segnatamente, della buona fede, rilevando come le regole di condotta che costituiscono il contenuto della buona fede non sono create dall’interprete attingendo da valori esterni all’atto e/o al rapporto, bensì dal medesimo trovate al loro interno e già messe in forma dal diritto per mezzo della stessa regola di buona fede. L’Autore opera dunque una ricognizione della teoria della conoscenza in Falzea, Pugliatti e Luhmann, della teoria dell’errore e del dolo, nonché dei contenuti degli artt. 1337 e 1338 c.c., per giungere ad individuare i criteri di selezione dei fattori di conoscenza da comunicare. Vengono dunque indagati i seguenti problemi: a quale categoria concettuale o a quale principio possono ricondursi le informazioni tipicamente individuate nella normativa settoriale o di derivazione europea? Quale è il rapporto tra questi dati conoscitivi e la forma dell’atto? Quale rimedio fa sortire l’ordinamento nell’ipotesi di mancata comunicazione di tutte o di talune informazioni? Si cerca di chiarire fino a che punto i “nuovi” obblighi di informazione possono essere governati dalla clausola generale di buona fede, o dalla disciplina dell’oggetto del contratto, o, ancora, da quella della forma del contratto, il tutto alla luce della ratio che governa, in particolare, la disciplina sul c.d. contraente debole. Al fine di mettere in luce le diverse manifestazioni del principio di trasparenza, vengono considerati i suoi contenuti nella disciplina delle clausole vessatorie. L’analisi delle ulteriori discipline in materia contrattuale di fonte o di ispirazione europea conduce ad individuare un nuovo modello di contratto: il contratto a contenuto minimo vincolato (contratti di consumo e contratti di impresa). La constatazione è che mentre nell’orizzonte del codice civile la trasparenza contrattuale viene consegnata alla clausola generale di buona fede; nell’orizzonte dei contratti a contenuto minimo vincolato è consegnata a norme imperative che tipicizzano gli elementi conoscitivi da comunicare. In quest’ottica anche la buona fede contrattuale costituisce un congegno applicativo del principio di trasparenza. La trasparenza dunque assurge a principio generale, valido cioè per tutte le relazioni intersoggettive, non solo private (si pensi alla trasparenza dell’attività della P.A.); è un principio che governa l’accessibilità e l’intelligibilità delle informazioni e della loro comunicazione. La ricerca infine si concentra sul regime di rimedi per giungere alla conclusione che la rappresentazione della trasparenza come categoria comprensiva di una pluralità di forme applicative, conduce ad esiti differenti. L’Autore si sofferma, in particolare, sul principio di non interferenza tra regole di validità e regole di comportamento, specificando il contenuto anche alla luce della più recente giurisprudenza, per soffermarsi sul rimedio da accordare alla inosservanza delle norme sulla trasparenza a contenuto specifico, rispetto alle quali il legislatore non abbia disposto un rimedio specifico. Il tutto adottando il metodo rimediale, il quale richiede di approdare alla forma di rimedio restitutorio, risarcitorio o satisfattivo che, tenuto conto della specifica istanza di tutela, davvero realizzi la ratio normativa piuttosto che una mera esigenza di giustizia sostanziale.
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