MIMESIS / FILOSOFIE N. xxx Collana diretta da Pierre Dalla Vigna (Università “Insubria”, Varese) comitato scientifico Paolo Bellini (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como), Claudio Bonvecchio (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como), Mauro Carbone (Université Jean-Moulin, Lyon 3), Antonio De Simone (Università degli Studi di Urbino Carlo Bo), Morris L. Ghezzi (†, Università degli Studi di Milano), Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza), Giovanni Invitto (Università degli Studi di Lecce), Micaela Latini (Università degli Studi di Cassino), Enrica Lisciani-Petrini (Università degli Studi di Salerno), Luca Marchetti (Università Sapienza di Roma), Antonio Panaino (Università degli Studi di Bologna, sede di Ravenna), Paolo Perticari († , Università degli Studi di Bergamo), Susan Petrilli (Università degli Studi di Bari), Augusto Ponzio (Università degli Studi di Bari), Riccardo Roni (Università di Urbino), Viviana Segreto (Università degli Studi di Palermo),Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis), Tommaso Tuppini (Università degli Studi di Verona), Antonio Valentini (Università di Roma La Sapienza), Jean-Jacques Wunenburger (Université Jean-Moulin Lyon 3) Francesco Mora MARTIN HEIDEGGER PENSARE SENZA FONDAMENTI MIMESIS MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it mimesis@mimesisedizioni.it Collana: Filosofie n. xx Isbn: 9788857555782 © 2019 – mim edizioni srl Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone +39 02 24861657 / 24416383 INDICE Introduzione 11 Capitolo primo 19 1. Demolire il fondamento 19 2. Überwindung Vervindung torsione 26 3. Il pensiero anarchico 32 Excursus 39 4. Nihil est sine ratione 42 Capitolo secondo 51 1. Il luogo senza dimensione 51 2. Un passo indietro 61 3. L’uomo è l’ente più inquietante 66 4. La polis impolitica 72 5. L’uomo spaesato e straniero 78 Capitolo terzo 85 1. Una politica del silenzio 85 2. Pensare Heidegger e il nazionalsocialismo 97 Capitolo quarto 121 1. Alcune note sul rapporto di Heidegger con l’ebraismo 121 2. Alterità linguaggio Heimat 130 3. Banalità di Heidegger? 134 Testi di Heidegger consultati nell’edizione della Gesamtausgabe. Klostermann, Frankfurt a.M. 1976 149 Per Chiara Ciò che, infine, ci custodisce È il nostro essere senza-protezione e che noi Ci siamo rivolti all’Aperto, avendo visto la minaccia (Dedica di R. M. Rilke al Malte, copia donata al Barone Lucius, vv. 12-15) INTRODUZIONE A dispetto, probabilmente, della sua stessa volontà, Heidegger resta al centro del dibattito filosofico e dell’attenzione mediatica; non tanto grazie a geniali interpretazioni riguardantanti la sua meditazione filosofica, quanto piuttosto per gli aspetti negativi della sua lunga e tormentata esistenza: prima la questione della sua adesione al nazionalsocialismo, aperta dal libro, non sempre corretto, di Farias e ora, con la pubblicazione parziale dei cosiddetti Schwarze Hefte, per il suo antisemitismo sostenuto da detrattori e accusatori di tutta Europa, tedeschi compresi, e negato dai suoi difensori e apologisti. Questa mia ricerca non intende entrare nella querelle, per lo più mediatica, sull’antisemitismo heideggeriano ma nemmeno evitare il problema del rapporto che Heidegger ebbe con il mondo ebraico. Ciò che in questo testo intendo sottolineare è una ipotesi di lavoro che ritengo essenziale per poter accedere ad una comprensione quanto più corretta del pensiero heideggeriano; questa si può riassumere, in forma molto concisa, nei seguenti termini: la meditazione filosofica, il pensiero di Martin Heidegger appaiono come lo sforzo e il tentativo continui di eliminare ogni tipologia di fondamento (Grund); fin dall’inizio del suo filosofare – termine che successivamente non accetterà più come suo compito – si ha la percezione che il terreno solido della riflessione filosofica si sfaldi a poco a poco, sotto i colpi delle interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, delle lettere di San Paolo, di Sant’Agostino e della vita fattiva delle comunità protocristiane. Ma è soltanto con gli Anni Trenta/Quaranta del Novecento – e in particolare con l’anno 1936 – che l’opera di demolozione del fondamento si fa sempre più potente, sino a gingere, dopo vent’anni densi di avvenimenti tragici, al corso di lezioni tenuto all’Università di Freiburg i.B. sul principio di ragione (Der Satz vom Grund). Ed è proprio da qui che parte il presente lavoro, in quanto lo scardinamento del fondamento se per un verso risulta essere l’unica via che può condurre all’“ altro inizio”, per un altro verso è l’eredità di pensiero che Heidegger ci ha lasciato come compito e la sua stessa attualità. 12 Martin Heidegger pensare senza fondamenti Il testo ha il pregio o il difetto di poter esser letto sia unitariamente che per capitoli singoli e separati; tuttavia, ciò non inficia il carattere unitario del lavoro che nel continuo riferimento alla Destruktion – non più fenomenologica come si ritrova in Sein und Zeit – dei fondamenti pone in evidenza il superamento (Verwindung) della metafisica, in quanto il pensiero, svincolatosi dalle catene della ratio, si avvia straniero, nella terra straniera, in una sorta di autodecostruzione delle stesse sue strutture portanti, in una an-archia, che è assenza di principio ma anche di potere. Il primo capitolo sviluppa le differenti modalità con le quali Heidegger intende demolire i fondamenti inconcussi (bebaiotate arche, principium firmissimum) dell’edificio metafisico. Dopo aver preso in considerazione Oltrepassamento della metafisica (1938/39), il suo vocabolario concettuale e il senso di fuga della metafisica, della sua erranza nel vuoto dell’universale e il suo rifugiarsi nella concretezza dell’oggettivo e del particolare, l’attenzione si concentra su ciò che s’intende per pensiero an-archico, attribuito a Heidegger, ossia il subentrare al pensiero metafisico della verità dell’Essere (Seyn) in quanto abisso in-fondato (Ab-grund). L’abisso originario senza fondo è il pensiero an-archico, an-archia che si differenzia per essenza da quanti abbiano usato questo termine in altri contributi; ciò porta a una ridefinizione del senso dell’esistenza dell’uomo e a una metamorfosi della sua essenza. Dopo un breve Excursus su metafisica e secolarizzazione vista come escamotage della metafisica per costituire l’uomo moderno e contemporaneo in virtù della potenza tecnocratica, si giunge al testo decisivo (il corso di lezioni del semestre invernale 1955/1956) che demolisce il principio del fondamento: nihil est sine ratione. È questo il terreno – che s’identifica con la storia del pensiero occidentale – da cui è possibile spiccare il salto verso un “altro inizio”, salto particolare perché rivolto verso quell’origine metafisica – certamente obliante – che rimane, tuttavia, l’unica che dà la possibilità di allontanarsi per incamminarsi verso il “tratto proprio”, verso l’autentico esser-di-casa dell’uomo. Il salto – figura fondamentale dei Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis) – che resta sospeso e rivolto all’indietro prosegue indefinitamente la sua traiettoria verso l’essenza della verità dell’essere, ma non lo abbandona mai il rischio di ricadere sulla terra straniera della metafisica, del deserto del nichilismo. Dopo Nietzsche, l’ultimo filosofo che, secondo Heidegger, ha provato lo spaesamento (Unheimsche) di chi attraversa il deserto (“Il deserto cresce: guai a chi cela in sé deserti” è la disperata constatazione di Nietzsche), il pensiero heideggeriano, mettendo in atto una completa desostanzializzazione dell’essere, si pone come pensiero anarchico, in quanto pensa l’essere (Seyn) del “nuovo inizio” come privo di fondamento (Grundlos) e come abisso senza fondo (Ab-Grund). Introduzione 13 Le figure qui esposte prendono corpo nell’interpretazione dell’opera poetica di Trakl (1953); un verso in particolare viene considerato da Heidegger: “è l’anima straniera sulla terra”; è quell’essere anima una cosa straniera (ein Fremdes) proprio su questa terra; è il senso decisivo dell’uomo deinotaton, e se “fremd” deriva dall’alto tedesco “fram”, allora straniero è colui che non appartiene a un ambito familiare. Egli, quindi, provoca inquietudine e spavento negli altri suoi simili proprio in quanto è “in cammino verso”, si dirige verso altri luoghi (altro significato di Fremd, sottolinea Heidegger), senza una meta, poiché il suo essere straniero coincide con il suo essere viandante, ma non come il Waldgänger di Jünger, né come il passeggiatore solitario di Walser. La terra madre (Heimat) ben presente in Heidegger e in Nietzsche, ma anche in Klages e Spengler, come in un autore quale Hamsun, trova la sua espressione musicale nel Lied von der Erde di Mahler e finalmene ritorna qui nelle liriche di Trakl; in tutti la trasgressione per la forma di vita capitalistico-borghese, tipica della metropoli con il suo simmeliano Nerveleben; avversa al denaro che produce denaro e non merci – si pensi al pamphlet di Sombart Mercanti ed Eroi – arricchendo speculatori e banchieri affamando il popolo; demolitrice dei nietzscheani ideali ascetici della tradizione protestante e cattolica inutilmente rigidi, porta a una sorta di ribellismo, che se in Trakl si manifesta in una sessualità incestuosa – sarà Derrida a sollevare la questione del Geschlecht in Heidegger – e in Hamsun nel rifiuto della ricchezza e nel rifugio ingenuo – soprattutto nel romanzo Fame – nella vita bohémien, per Heidegger gli sviluppi sono particolarmente rilevanti; a partire dalla critica all’Occidente tecnologico e tecnocratico e alla sua forma più consistente di civilizzazione, alla conseguente devastazione del paesaggio naturale e del rapporto essenziale tra uomo e terra, alla rappresentazione dell’uomo metafisico e la ricerca della sua essenza originaria e autentica (eigentlich). Se per Trakl, decomposizione e lacerazione dell’uomo contemporaneo, la desertificazione del suo stile di vita sono dovute alla “discordia dei sessi”, per Heidegger decisiva è la figura dello straniero che attraversa la terra (Land) nell’ora del crepuscolo, terra del tramonto – occasum, Occidente – e terra della sera (Abenland), il tratto estraneo per avere la possibilità, anche se remota, di pervenire nel familiare (Heimat). L’anima è straniera sulla terra in quanto è unterwegs, mentre la stirpe malata degli Altri resta radicata nella certezza della polis. Una differente modalità di pensare rispetto al pensiero razionale calcolante, è quello che lo rende povero e anarchico, proprio perché nella povertà (Armut) e nell’an-archia esso trova la propria essenza (Wesung) e la stessa essenza (Wesen) dell’essere, l’Erörterung – termine intraducibile –, in quanto località (Ort-schaft) che si manifesta come l’Aperto che permette alla luce di penetrare nel luogo del Semplice (Leicht), la Lichtung, dove cade appunto la luce. Il pensiero della povertà è presente in Heidegger fin dal Krignotsemester del 1919, fino a giungere all’ultima lezione che tenne nel giugno del 1945 nel castello di Wildstein, sulle colline del Giura svevo, che dominano il Danubio, l’Ister di Hölderlin. Ed è proprio nel corso del semestre estivo 1942, dedicato all’inno Der Ister, che il poeta non pubblicò, che Heidegger riprende, nella parte centrale, il commento al primo stasimo del coro dell’Antigone, titolandolo “la concezione greca dell’uomo”; già nel 1935, nella Introduzione alla metafisica, Heidegger aveva preso in considerazione gli stessi passi sofoclei con paricolare riguardo alla tematica della violenza (Gewalt), ma nel 1942 in piena guerra mondiale, la meditazione è molto più elaborata e polisemica. L’uomo nella sua essenza non è uno zoon politikon, bensì è das Unheimliche, l’essere inquietante (Freud in un suo famoso saggio del 1919 lo traduce con ‘perturbante’), e das Unheimische, l’essere spaesato, ciò che Sofocle definisce deinoteron, ossia colui che non è di casa e che ha nel farsi-di-casa la propria cura. Esperire la lontananza dalla terra natìa (Heimat), e divenire perciò inquietante e spaesato, straniero in una terra che gli è straniera, non significa errare (Irren), l’erramento infatti è quello dell’uomo contemporaneo che è Heimatlos, senza patria, pur vivendo in ogni parte del mondo e antropizzando ogni angolo della terra con le sue attività (praxeis) avendo abbandonato Herta, la terra madre. La mancanza di patria (Heimatlosigkeit), tematizzata in modo specifico nel Brief über den “Humanismus” del 1946, è propria dell’“avventuriero” che viaggia per terra e per mare al fine di realizzare i propri scopi, che ha votato la sua vita all’utilità, uomo contemporaneo che nel suo errore ha dimenticato la sua autentica essenza ed è convinto di essere-di-casa- in tutto il mondo, l’errore (Irrtum) della sua vita alienata e alienante. Va sottolineato che se per Sofocle l’uomo è deinoteron, per Heidegger è deinotatos, la differenza tra superlativo relativo e superlativo assoluto non è di lana caprina; se Sofocle pensa che l’uomo sia uno tra i tanti enti inquietanti, il più inquietante, Heidegger invece attribuisce soltanto all’uomo l’essere inquietante, che vive fuori della polis intesa “politicamente”; egli rispetto a questa istituzione è apolis, è senza luogo e senza casa, il suo è un dis-locarsi, una deterritorializzazione, per dirla con Deleuze e Guattari. Ma se ‘politico’ è ciò che appartiene alla polis, allora ‘logico’ ed ‘etico’ dovrebbero appartenere rispettivamente al logos e all’ethos; la polis, dunque, non ridà una rappresentazione del “politico” e la sua essenza non è “politica”; il suo significato non è quello di Stato o città-stato, ma polis, per Heidegger, è polos, ciò che attrae verso il non-fondamen to, l’autentico e originario essere-di-casa dell’uomo deintaton, colui che resta in cammino (è questo il senso del suo esistere) come viandante. È a partire da tali considerazioni che si è potuto affrontare la questione spinosa riguardante l’aspetto politico del pensiero heideggeriano, una politica del silenzio, il silenzio di Heidegger sulla Shoah e sui campi di sterminio, quella che Derrida chiama, riprendendo un’espressione di Blanchot, “la ferita del pensiero”, utilizzata da Trawny per scopi meno nobili. Questa via, accidentata ma ricca di indicazioni, porta a sviluppare alcune riflessioni per valutare il peso che il nazionalsocialismo e l’antisemitismo abbiano potuto avere nella filosofia di Heidegger, al di là di ogni polemica mediatica, che nulla ha a che fare con l’autentico problema del rapporto della filosofia di fronte al totalitarismo e al genocidio. Mettere in liquidazione Heidegger, farla finita una volta per tutte con la Seinsfrage, anzi affermare che tutta la filosofia di Heidegger è la filosofia della più efferata delle dittature, mettendo una pietra tombale sul progetto filosofico heideggeriano, che per quanto si dica ha determinato lo sviluppo della filosofia europea e anche anglo-americana, banalizza il pensiero heideggeriano e, cosa ben più grave, vede nel nazismo e nei lager solo il male assoluto, senza andare alla ricerca di chi e perché ha permesso la loro attuazione. Differente è la presa di posizione di Volpi con il suo articolo “Good-bye Heidegger”, che non ha potuto né leggere né esprimersi sugli Schwarze Hefte, così come quella di Vattimo – che continua a dirsi heideggeriano – che pur mettendone in luce le contraddizioni e anche gli errori propri di quel pensiero mette in evidenza, nelle critiche attuali, una “componente ideologica democratico-progressista, una sorta di sfondo atlantico” che s’incentra sulla stigmatizzazione di un suo presunto antisemitismo, antisemitismo che per Di Cesare ha un carattere “metafisico”, mentre per Trawny è “ontostorico”. Ciò che è fuori di dubbio è che Heidegger non si sia mai “pentito” pubblicamente della sua scelta politica, così come è innegabile che la sua filosofia offra ancora una “possibilità di salvezza”, una possibile via di “fuga” da un Occidente in mano al neoliberismo, alla globalizzazione, al livellamento tecnologico, una fuga da un mondo dominato totalmente dalla tecnocrazia, virtuale e mediatico, condannato anche da Nietzsche, Wittgenstein e Adorno. Ammettere la propria colpa, dichiararsi correo, proclamare un pentimento o un’autocritica da parte di Heidegger, avrebbe sortito l’effetto di sopire gli animi e di allontanare una riflessione sul crimine più efferato che una dittatura, e forse un popolo, si sia macchiato. La questione della colpa, esposta da Jaspers, allontana, tuttavia, il popolo tedeco e Heidegger da fare un “viaggio al termine della notte” della propria coscienza; infatti, allonta nare il mostro, attraverso l’ammissione della colpa, non serve a comprendere perché esso si sia impadronito delle nostre anime; pensarlo come male assoluto – ci insegna Arendt – serve solo a esorcizzarlo. Ecco allora perché il silenzio di Heidegger ci lascia, come afferma Derrida, una eredità, cioè il compito di pensare sempre e radicalmente ciò che ha segnato in maniera indelebile il nostro tempo. Dare risposte significa prendersi delle responsabilità, e ciò che prima valeva per l’essere ebreo ora vale per Heidegger; l’enigma per cui l’ebreo – termine perfomativo – è colpevole consiste nel fatto che egli si è originariamente macchiato di un torto, e la sua appartenenza all’ebraicità, la sua identità, significa essere assegnato al mistero di una colpa originaria. Incriminazione e colpevolizzazione (Schuldingsein), responsabilità che significa colpevolezza, se vale per l’essere ebreo, ora, paradossalmente, vale per la filosofia heideggeriana. E tuttavia, non si può pensare che il pensiero heideggeriano assomigli anche in minima parte al razzismo e all’antisemitismo del regime hitleriano, fondato sul biologismo e sull’eugenetica; le critiche a Krieck e a Rosenberg e alle loro teorie sulla razza, anche se non esplicite, per timore di ritorsioni, sono una costante dei corsi post Rettorato, proprio in quanto “la metafisica pensa l’uomo a partire dall’animalitas, e non pensa in direzione dell’humanitas”. Per affrontare la serie di questioni filosofiche e politiche che mettono in gioco non solo il ruolo che ha avuto Heidegger ma di tutti gli intellettuali in rapporto con la dittatura, mi sono valso delle interpretazioni, fra loro spesso anche in conflitto, dei principali studiosi di Heidegger e della filosofia contemporanea: da Levinas a Arendt a Simon Weil, Zarader, Fedier, da Gadamer a Derrida a Schürrmann, da von Herrmann a Trawny, Faye, Di Cesare, da Vattimo a Agamben, da Lacoue-Labarthe a Nancy. Attraverso questi contributi non ho potuto superare le due posizioni opposte tra apologisti e colpevolisti, ma ho potuto farmi chiarezza sullo stato dell’arte, cioè sul coinvolgimento della filosofia con il totalitarismo. L’ultima parte della ricerca approfondisce il rapporto che Heidegger ha intrattenuto, cosciamente o inconsciamente, con il mondo ebraico, la sempre problematica relazione tra Deutschtum e Judentum, il discorso di guerra agli ebrei pronunciato da Hitler nell’aprile 1937 e infine alcuni passi dei cosiddetti Quaderni neri, per la copertina cerata, oltre che per il loro contenuto talvolta imbarazzante. Queste annotazioni vanno lette in parallelo con quanto Heidegger insegnava pubblicamente, vanno cioè di volta in volta contestualizzate e non enucleate e rese assolute. In tal modo la filosofia, o meglio il pensiero, di Heidegger non s’identificano e non possono identificarsi con l’antisemitismo della dittatura hitleriana, poiché nulla vi è, neppure lontanamente, che possa approvare o giustificare la Endlösung. A differenza che in Hannah Arendt, in Heidegger resta il silenzio, senz’altro e senza appello colpevole, ma a differenza anche di coloro che vogliono buttar via il bambino con l’acqua sporca, resta, alla fine di questo percorso, tortuoso e faticoso, e che non porta a casa, l’insegnamento, ancora attuale, di Heidegger: quello di dover essere sempre e comunque unterwegs. CAPITOLO PRIMO Anche di fronte all’inconoscibile ha luogo un fuggire, e quest’ultimo è il più fatale. M. Heiddeger, Oltrepassamento della metafisica 1. Demolire il fondamento A partire dal 1936, Martin Heidegger allontanandosi in modo sempre più convinto dall’ideologia e dalla prassi politica del nazionalsocialismo mette in campo, sia attraverso i corsi universitari sia attraverso le opere esoteriche come le rare conferenze, un’ipotesi di ricerca che può essere definita “rivoluzionaria” e che lo impegnerà almeno per un ventennio. Il tentativo consisterebbe nel rimuovere e liquidare qualsiasi tipo di fondamento del pensiero, separandosi di fatto con questa mossa dalla filosofia intesa come storia della metafisica. La sfida che Heidegger lancia alla filosofia, e alla sua massima espressione in quanto sistema della razionalità (nei Beiträge scrive: “il tempo dei ‘sistemi’ è trascorso”1), è quella di un pensiero senza fondamento. Non si tratta soltanto di ripensare e ridefinire in senso “ateo”2 le nozioni schellin 1 M. Heidegger, Contributi alla filosofia (Dall’evento), tr. it. di A. Iadicicco, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2007, p. 35. 2 M. Heidegger, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Prospetto della situazione ermeneutica, tr. it. di G.P. Cammarota, rivista da V. Vitello, saggio introduttivo di H.G. Gadamer, (Uno scritto “teologico” giovanile di Heidegger), in “Filosofia e Teologia”, Anno IV, n. 3, settembre-dicembre 1990; “‘Ateo’ non nel senso di una teoria come il materialismo o altre simili. Ogni filosofia che si comprende per quello che è, deve, in quanto rappresenta un modo effettivo (das faktische Wie) di interpretazione della vita, sapere che, proprio quando ha ancora un’‘idea’ di Dio, il ritrarsi in sé della vita allontanandosi da tale idea è, per esprimersi in termini religiosi, come levare la mano contro Dio. Ma solo così la filosofia sta davanti a Dio rettamente, cioè in modo conforme alla possibilità per lei disponibile; ateo significa qui: tenersi liberi dalla allettante occupazione di parlare ghiane di Urgrund, Ungrund o Grundlos, né di interpretare le figure della Überwindung e della Verwindung della metafisica, quanto piuttosto di un comportamento fattivo (faktisch), ossia deprivato di qualsiasi qualità, per riprendere l’immagine che Löwith fornisce di “fatticità” riguardo al faktisches Leben3, di denegazione nei termini in cui ne parla Derrida4 e forse anche in quelli del concetto freudiano. Si tratta di una deterritorializzazione5 delle strutture del pensiero, un compito che è destinazione (Bestimmung) e destino (Geschick), che può essere detto an-archico6, nel senso di un “rifiuto” (Verweigerung) del potere, del dominio dell’inizio, inteso come Gewalt della legge e del diritto, temi questi sui quali si cimentano non solo Benjamin o Derrida ma anche uno scrittore come Kafka. L’originaria an-archia dell’altro pensiero è ciò che permette l’ingaggio contro il dominio dell’ente sull’Essere (Seyn), ciò che nomina la parola fondamentale (Grundwort) – Ereignis – che si oppone al Leitwort dell’ontologia fondamentale e che svela il “rifiuto” e l’“Enteignis”, l’espropriazione del Sé portata avanti dallo strapotere della tecnica che conduce nel più profondo nichilismo e alla fine della filosofia e del pensiero. L’allontanamento dal “trattato” incompiuto Sein und Zeit, per non dire un vero e proprio distacco, avviene attraverso un lungo percorso di avvici soltanto di religiosità. Chissà che non sia già un puro controsenso l’idea di una filosofia della religione e che non faccia, tale filosofia, i suoi calcoli senza l’effettività (die Faktizität) dell’uomo”, ivi, nota 2, p. 507. Viene qui tradotto il termine fondamentale Faktizität con ‘effettività’, il che si presta a non pochi fraintendimenti. Cfr. F. Mora, L’ente in movimento. Heidegger interprete di Aristotele, Il Poligrafo, Padova 2000. 3 K. Löwith, L’orizzonte politico dell’ontologia esistenziale di Heidegger, in Id., Il nichilismo europeo, F. Ferraresi, a cura di C. Galli, Laterza, Roma-Bari 1999. “All’autoaffermazione dell’esistere sempre proprio di ciascuno corrisponde l’autoaffermazione dell’esistenza politica, e alla ‘libertà per la morte’ il ‘sacrificio della vita’ nell’emergenza politica della guerra. Il principio, in entrambi i casi, è lo stesso: la ‘fatticità’, ossia ciò che resta della vita quando sia stata privata di tutti i suoi contenuti”, ivi, p. 67. 4 J. Derrida, Come non parlare. Denegazioni, in Id., Psyché. Invenzioni dell’altro, vol.2, tr. it. di R. Balzarotti, Jaca Book, Milano 2009, pp. 171-236. 5 G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, tr. it. di G. Passerone, intr. di M. Guareschi, Cooper &Castelvecchi, Roma 2003. 6 P. Trawny, Fuga dall’erramento. L’anarchia di Heidegger, in Id., Saggi su Heidegger, ETS, Pisa 2017, pp. 81-124. Anche se il termine usato è lo stesso (“an-archia”), verrà in luce tutta la differenza di significato che distanzia le due interpretazioni. Va tuttavia sottolineata la coincidenza del tutto casuale di aver pensato e fatto ricorso ad uno stesso termine per esprime motivi differenti del pensiero di Heidegger. namento all’abisso in-fondato (Abgrund) che supera sia il fondamento del pensiero metafisico sia la sua espressione politica, in un abbandono che, se corrisponde al ritrarsi dell’Essere (Ent-zug), afferma tutta la denegazione dell’an-archia, che diviene l’unico autentico comportamento d’ascolto del richiamo dell’Essere. La Überwindung, l’otrepassamento della metafisica7, indica il suo giungere a compimento, ne mostra il limite di cui il pensiero deve fare esperienza, il confine che l’uomo deve esperire in quanto nel mondo vige il primato dell’ente, e con esso, vige pure l’abbandono da parte dell’essere dello stesso ente8. Proprio in virtù di tale abbandono si esperisce “l’assenza di fondamento” della verità dell’Essere, e per converso “la necessarietà” della metafisica di trovare una fondazione per l’essenza della propria verità. Infine, il compito decisivo, quello più pericoloso e difficile, per poter pensare l’oltrepassamento della metafisica consiste nell’ “accantonamento dell’‘ uomo’” (OM, p. 9); mettere da parte ma non obliare l’uomo animal rationale, il soggetto della modernità, dominus del mondo, in cui “antropomorfia” e “antropologia” governano tanto l’esterno quanto l’interiore homine. In tal modo, mettendo da parte l’“uomo” della metafisica, Heidegger mette da parte non solo il soggettivismo ma l’essenza stessa del fondamento e della verità come omoios e adequatio. La metafisica in quanto destino (Geschick) della verità dell’ente (enticità, Seinendheit) è quell’accadimento (Er-eignung) che, pur celandosi, è tuttavia essenziale, consistendo nell’oblio dell’essere, ossia ciò su cui si fonda la metafisica stessa e la verità essenziale dell’ente. Il fondamento della metafisica sta anch’esso in una denegazione e cioè nel rifiuto, attraverso l’oblio dell’essere, dell’Er-eignis in cui l’Essere viene a torsione (Verwindung), o se si vuole, viene a manifestazione nell’esperienza della Svolta (Kehre)9. 7 M. Heidegger, Oltrepassamento della metafisica (1938/39), in M. Heidegger, Metafisica e nichilismo, tr. it. di C. Badocco, a cura di C. Angelino, il melangolo, Genova 2006. “Nella copia dattiloscritta la parola ‘oltrepassamento’ fu cancellata da Heideger e al suo posto venne inserita tra parentesi la parola ‘compimento’. La prima correzione venne da lui stesso nuovamente annullata”, nota 1 del Curatore tedesco H. J. Friedrich, ivi., p. 9. D’ora in poi citato nel testo con la sigla OM e numero di pagina tra parentesi. 8 M. Heidegger, Introduzione a “Che cos’è metafisica?” (1949), a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2001. 9 Cfr. O. Pöggeler, L’evento della svolta, in “aut aut”, n. 248-249, marzo-giugno 1992, pp. 17-37; M. Ruggenini, La questione dell’essere e il senso della “Kehre”, ivi, pp. 93-119; M. Ferraris, Cronistoria di una svolta, postfazione a M. Heidegger, La svolta, il melangolo, Genova 1990. “Oltrepassamento” non significa abbandonare ed escludere “dall’orizzonte della ‘cultura’ filosofica” (OM, p. 45) la metafisica, piuttosto ne indica il suo essere passato (Vergangenheit), la sua “scomparsa” che è un trapassare (Heidegger usa il neologismo Ver-endung che richiama verenden, il morire degli animali contrapposto a sterben, il morire proprio degli uomini, indicando con ciò che a fondamento della metafisica sta il principio- vita che è l’essenza dell’animalitas e non dell’humanitas)10, trapassare che è agonia, poiché la fine biologica “dura più a lungo della storia che la metafisica ha avuto fino a oggi”. Überwindung non implica un essere usciti fuori dalla metafisica o un abitare l’epoca post-metafisica11; infatti, “la metafisica oltrepassata non scompare. Essa ritorna (…)”, e nelle sue differenti epoche storiche si impone come il destino dell’Occidente nella forma della “dominazione planetaria”. Il dominio incondizionato della metafisica “è solo al suo inizio”; la sua verità consiste nella sua “non-essenza”, che rappresenta il fondamento dell’accadere storico (historisch) occidentale- europeo, all’interno del quale l’essere dell’ente non viene mai esperito (OM, p. 50). Se si ha come orizzonte la Seinsgeschichte, l’oltrepassamento della metafisica, essendo il pre-avviso, il “presagio”, della Verwindung, la torsione che è Kehre, la svolta che lascia indietro l’oblio dell’essere, è ciò che demolisce, superandoli, i fondamenti e i principi (archai) della metafisica, in una torsione che abbatte i pilastri portanti dell’edificio metafisico. Oltrepassare acquista così significato solo se viene messo in relazione con la torsione, che nel suo sforzo supera il pensiero calcolante e rappresentativo per approdare all’Andenken, a quel pensiero che, solo, può andare – rammemorando – verso l’“altro inizio”. L’oltrepassamento è l’esperienza della “espropriazione” (Enteignung) dell’essere ente dell’ente, e tuttavia non ancora il decisivo superamento (Verwindung) che porta, con la sua forza di torsione, la sua dynamis (ossia il suo specifico Da-sein), alla distruzione (Destrktion) in quanto decostruzione della metafisica. Figura di mezzo, di transito, l’oltrepassamento è, se così si può dire, un trait-d’union, una “tra-duzione” (Überlieferung, 10 M. Heidegger Lettera sull’“umanismo”, tr. it. di P. Dal Santo, intr. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1995; Id, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo, finitezza, solitudine, tr. it. di P. Coriando, a cura di C. Angelino, il melangolo, Genova 1992. 11 Cfr. J. Habermas, Il pensiero post-metafisico, a cura di M. Calloni, Laterza, Roma- Bari 1991; G. Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985, in part. le pp. 172-189; J.F. Lyotard, La condizione postmoderna, tr. it. di C. Formenti, Feltrinelli, Milano 1981. lett. tra-dizione) che permette di condurre l’ente attraverso e oltre la metafisica, verso la verita dell’Essere (Seyn) e il suo autentico principiare. Per queste ragioni, Heidegger specifica che “l’oltrepassamento della metafisica può essere pensato solo a partire dalla metafisica” (OM, p. 51), come se l’andare oltre non potesse significare lasciarsi alle spalle la propria origine e la propria Kultur. La Überwindung in quanto volere andare oltre rimane ancora all’interno delle pastoie della metafisica e non ha ancora abbattuto la struttura del fondamento sulla quale cresce e si sviluppa la tradizione del pensiero filosofico. In un altro luogo, temporalmente non lontano, Heidegger chiarisce: “su che cosa poggia allora l’oltrepassamento (Überwindung) del nichilismo? Sul superamento (Verwindung) della metafisica”12; superare la metafisica è il destino che porta alla dissoluzione dell’idea di fondamento e non una decisione o una volontà umane. Ciò che va, poi, specificato è l’origine dei due lemmi: entrambi derivano dal verbo winden che significa propriamente “torcere, attorcigliare”, ma anche “intrecciare” e “strappare”; se Überwindung è un oltre-passare ancora però attorcigliato e intrecciato con il pensiero metafisico e i suoi principi fondamentali, come il serpente all’aquila di Zarathustra, la Verwindung mette in atto lo strappo definitivo con l’essenza del fondamento, ponendosi di fatto come la vera e propria Kehre. Il pensiero del superamento si coniuga in un legame imprescindibile con il pensiero della Kehre, la curvatura del pensiero, la sua essenziale non linearità teleologica, una curva continua che provoca un senso di vertigine e di angoscia, con il suo proprio andamento circolare volvente che supera ogni stabile fondamento, così come l’evidenza della causalità e della dialettica. In una pagina del corso del semestre invernale 1929/1930 Heidegger aveva già presente il pensiero della svolta e il suo procedere in circolo13. Per la filosofia della metafisica – ma per Heidegger non ci può essere filosofia al di fuori della metafisica, proprio in quanto la filosofia esiste soltanto come espressione del fondamento attualizzato (energheia) dalla metafisica della presenza/presente – “girare in cerchio non conduce a niente”14 e in più, come in una giostra o in una serie di tornanti15 un tale procedere del pensiero conduce in una dimensione che è quella dell’in 12 M. Heidegger, La questione dell’essere, in Id, Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano, p. 362 e E. Jünger, M. Heidegger, Oltre la linea, tr. it. di A. La Rocca e F. Volpi, intr. di F. Volpi (Itinerarium mentis in nihilum), Adelphi, Milano 1989, pp. 107-167. 13 M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., pp. 235. 14 Ibidem. 15 M. Ferraris, Cronistoria di una svolta, cit. quietante16, del deinon e del vertiginoso, insomma in qualcosa di non tollerabile per l’essere umano. Girando intorno ci si ritrova, dice Heidegger, “come sospesi nel nulla”, privati di qualsiasi fondamento e della nostra stessa essenza di uomini dotati di ratio, di viventi razionali; ma eliminando questo movimento distruttivo, si elimina anche la contraddizione, il circolo vizioso, “l’anello che non tiene” e si riprende in mano “il filo da disbrogliare che finalmente ci metta/ nel mezzo di una verità”17; in ciò consiste la logica e l’“orgoglio” della filosofia scientifica. E tuttavia, chi, si chiede Heidegger, si sia confrontato con le questioni della filosofia non sia stato preso da vertigini? Se non le ha mai provate, se non si è mai sentito spaesato (Unheimlich e Unheimsch) e inquieto (non nel senso dell’agostiniano “inquietum est cor meum”, poiché l’inquietudine di Agostino si scioglie nelle braccia di un Dio che è morto e gli dèi sono fuggiti e tramontati), allora “costui non si è mai interrogato filosofando, cioè non si è mai mosso dal circolo” e ha posto soltanto il logos della Leitfrage, la domanda guida, sui principi e sul fondamento; ha proseguito il percorso spianando la strada dagli ostacoli che intralciano l’andare avanti verso un fine. In una conferenza tenuta a Roma nel 1936, Heidegger affermava riguardo l’incidenza della filosofia nei confronti della nostra esistenza storica e la “svolta della storia europea”: “cosa può e cosa deve fare, in ciò, la filosofia? Già la domanda sembra superflua se pensiamo a come la filosofia non abbia mai direttamente fondato e costituito un’esistenza storica. Essa si mostra più come un che di aggiunto e di superfluo; in ogni caso come un ostacolo. Ma, in fondo, proprio in ciò consiste la sua destinazione”18. La filosofia, intesa come il pensare autentico, è ciò che fa resistenza e che è ostacolo nella via piana e diritta della logica e della dialettica, dei principi e dei fondamenti metafisici che non hanno bisogno di essere interrogati poiché sfuggono a qualsiasi contraddizione. Questo pensiero senza ostacoli s’identifica con quello dell’uomo contemporaneo, tecnologico, a una dimensione e pure in 3D, post-umano e post-veritativo, capace soltanto di creare storytelling e dimensioni di virtualità, che ha sempre evitato accuratamente e con precisione scientifica di cadere all’in 16 Su questo aspetto si ritornerà in modo più ampio, intanto si rinvia a M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, tr. it. di G. Masi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1979, pp. 154 sgg.; Id., L’inno Der Ister di Hölderlin, tr. it. di C.Sandrin e U. Ugazio, Mursia, Milano 2003, in part. Parte seconda, pp.50-112. 17 E. Montale, I limoni, vv. 27-29, in Id., Ossi di seppia, Mondadori, Milano 1973. 18 M. Heidegger, L’Europa e la filosofia tedesca, pp. 23-24, in M. Heidegger, H.G. Gadamer, L’Europa e la filosofia, tr. it e intr. di J. Bednarich, postfazione di M. Riedel (Heidegger e l’Europa), Marsilio, Venezia 1999. terno delle spire del pensare, che non ha mai provato l’essere unheimlich e che si dimostra come heimatlos, un senza patria, sradicato, aggrappato a headlines sicure e certe, a domande-guida che chiedono cosa sia la vita e ricercano l’immortalità. Nella circolarità del pensiero decisivo è il rivolgersi e il guardare al centro della circonferenza, non tanto percorrerla per giungere al punto di partenza, come sull’anello di una pista; e il centro si rivela tale soltanto “nel girare in cerchio attorno ad esso”. Se la Grundfrage che è Vor-frage, la domanda fondamentale è quella pre-liminare, essa che chiede dell’essere, chiede del centro; di contro l’“argomentazione”, ossia la razionalità metafisica e “l’intelletto comune” coprono con la potenza della logica e dell’etica l’autentico “carattere circolare della filosofia [e] conducono fuori dalla filosofia stessa”19. Curvatura, ostacolo, circolarità portano tutti al superamento (Verwindung) del pensare metafisico e di ogni fondamento. L’intendimento di Heidegger, e il suo andare per Holzwege, è quello di poter pensare, e pensare l’uomo20, senza fondamento, nella più abissale denegazione dello stesso pensiero e delle determinazioni, nello sprofondare vorticoso di enti e uomo; e questo tentativo di pensare da un’altra parte – la differenza – non può essere considerato come espressione di nichilismo, poiché deprivare del fondamento l’orizzonte ontologico e umano non significa fare dell’essere un nulla né dell’uomo polvere, quanto piuttosto svincolare essere e uomo nella loro assoluta ed essenziale differenza e libertà. Sembra certo che Heidegger usi molte formule per dire il tentativo di superamento della metafisica e quindi, perché di questo si tratta, smantellare il principio stesso di fondamento; quando, ad esempio, afferma che l’Essere (Seyn) giace nel nucleo della verità “da lungo tempo dimenticata e senza fondamento (Grundlos)” (OM, p. 55) pone il problema a partibus veritatis; nella Rektoratsrede – in contesto ovviamente differente e temporalmente antecedente – la parola nuova per dire il superamento della dimensione onnicomprensiva della metafisica è Geist, parola che, come sottolinea Derrida21, in precedenza aveva una valenza negativa, in quanto identificata con la filosofia dell’idealismo tedesco. 19 M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., p. 235. 20 J. Derrida, Fini dell’uomo, in Id. Margini- della filosofia, a cura di M. Iofrida, Einaudi, Torino 1997. “Il pensiero dell’essere, il pensiero della verità dell’essere in nome del quale Heidegger de-limita l’umanismo e la metafisica, resta un pensiero dell’uomo”, ivi, p. 176. 21 J. Derrida, Dello spirito. Heidegger e la questione, tr. it. di G. Zaccaria, Feltrinelli, Milano 1989; si veda in part. tutto il cap. quinto, pp. 39-52. 2. Überwindung Verwindung torsione Un vero e proprio vocabolario viene creato da Heidegger per abbattare la theoria di un pensiero filosofico basato su fondamenti immutabili, sulla bebaiotate arche (principium firmissimum). L’opera di disgregazione delle fondamenta dell’edificio metafisico avviene attraverso uno scarto, un détournment 22 linguistico che si manifesta principalmente come assenza di qualsiasi fondamento e, contemporaneamente, il sorgere della possibilità di un pensare in-fondato (Ungrund, Grundlos, unbegründet). Questo pensiero “fa appello a un’altra sintassi, eccedente l’ordine e la struttura del discorso predicativo. Non ‘è’ e non dice ciò che ‘è’. Si scrive tutt’altrimenti”23; quanto afferma Derrida in Denegazioni si sovrappone perfettamente ad alcune figure-chiave che si trovano all’interno dei Beiträge heideggeriani a cominciare da Il ritegno (13. Die Verhaltenheit, che richiama Halt, halten, una sosta, un fermarsi, un trattenersi), “stile di pensiero iniziale” in quanto diverrà lo stile dell’uomo futuro, sarà la tonalità emotiva, “lo stato d’animo fondamentale” che permetterà il radicarsi dell’umanità nel Dasein, ritegno il solo in grado – ossia in possesso della sua specifica dynamis – di creare “il grande silenzio” (die große stille), condizione essenziale per il “dominio” “dell’ultimo Dio”. Ma soprattutto con il ritegno “viene meno la parola (…) (…) in senso originario, ossia fin da sempre; la privazione (Verschlagung) è “la condizione iniziale per sviluppare la possibilità originaria – poetante – denominazione dell’essere”24. 22 Cfr. G. Debord, La società dello spettacolo, tr. it. di P. Salvadori, intr. di C. Freccero e D. Strumia, Baldini&Castoldi Dalai, Milano 2004; Id. Commentari sulla società dello spettacolo, tr. it. di F. Vasarri, nota di G. Agamben, Sugarco, Milano 1990. 23 J. Derrida, Come non parlare. Denegazioni, cit., p. 179. “‘Oltrepassamento della metafisica’, direzione di ‘altro inizio del pensiero’ e di ‘un’altra storia’; ma di un pensiero che non può ignorare il ‘non’ dell’Essere e deve fare tesoro proprio nel momento in cui un’altra costellazione di parole fondamentali deve subentrare alla costellazione del primo inizio”, C. Angelino, Postfazione del Curatore all’edizione italiana di M. Heidegger, Metafisica e nichilismo,cit., p. 241. Cfr. per una costellazione di termini dell’altro inizio, M. Heidegger, La storia dell’Essere, tr. it. di A. Cimino, Marinotti Edizioni, Milano 2012: “2. La storia dell’Essere da dirsi con la parola semplice, quale framezzo [termine presente nei Beiträge, ndr], che, trasformando ogni riferimento all’essere, regge abissalmente la divergenza nel modo in cui l’essere umano può in generale reggere in questo ambito iniziale. Il mondo. La terra. La contesa. (Streit). L’uomo. Il Dio. La replica. La divergenza. La storia. L’ad-propriazione (Er-eignung). L’evento appropriazione (Er-eignis).”, pp. 7-8. 24 M. Heidegger, Contributi alla filosofia. (Dall’evento), cit., p. 63. La steresis della parola produce l’Ab-grund, il fondo abissale in cui il pensiero privo di ogni fondamento – Grundlos – ritrova il rifiuto (Verweigerung) e il ritrarsi (Entzug) del Seyn rispetto all’ente, ciò che con espressione che si presta facilmente alla critica adorniana25 Heidegger afferma: “La torsione – nella radura – lo svelamento del rifiuto (evento)” (OM, p.13), e che tuttavia, per chi scrive, risulta per quanto fin qui detto, chiara, in quanto il superamento della metafisica la windung della Verwindung, la torsione, accade in quel luogo (Ort) che è il Da (ci) del Seyn (essere), la radura (Lichtung) in cui l’Essere si manifesta come assenza e rifiuto, come abbandono dell’ente. Non siamo qui nel territorio hegeliano della potenza del negativo né all’interno di una teoria nichilistica; la deterritorializzazione agisce prepotentemente sul pensiero che da metafisico e ben fondato subisce la torsione della Verwindung; la differenza, allora, che intercorre tra Überwindung e Verwindung non è soltanto storico-destinale (Geschichte-Geschick) ma è, se così ci si può esprimere, funzionale, nel senso che le due figure operano in modo differente all’interno e dall’esterno della metafisica, al suo essere incondizionato che “pone al sicuro l’essere”, al quale conferisce potere e in cui fa aggio “il predominio della macchinazione”, della “soggettività” e dell’“antropomorfia” (OM, p. 11). Tutto ciò significa “abbandono dell’essente da parte dell’essere – oblio dell’Essere (Seyn) – accadimento”. E tuttavia, l’oltrepassamento se per un verso è un “abbandono” e un “affrancamento” dalla metafisica in quanto anch’esso promana dalla storia dell’Essere26, dall’altro esso “non va inteso come un mettere da parte e lasciare alle spalle” la filosofia metafisica. Heidegger ci dice che oltrepassare è un “portare dietro di sé e sotto di sé” e che per manifestare ciò che viene oltrepassato – attività che risponde al suo aspetto volontaristico – deve muoversi all’interno della metafisica. In Sein und Zeit la questione del senso dell’essere viene ripetuta (Wiederholung) come qualcosa propria della metafisica, anche se interrogata in modo essenzialmente differente; ciò riguarda anche il fondamento della Seinsfrage, ossia dell’“ontologia fondamentale”; “‘ontologia’ e questa ‘metafisica’ sono (…) oltrepassate; cioè sono mutate in qualcosa di diverso”. L’oltrepassamento è quindi una sorta di metamorfosi, una metabole che tuttavia rimane intrecciata all’essenza del fondamento e ancorata alla metafisica; se così è, la “ripetizione” (Wiederholung) è la modalità in cui si dà la me 25 Th.W. Adorno, Il gergo dell’autenticità, tr. it. di P. Lauro, intr. di R. Bodei (Segni di distinzione), Bollati Boringhieri, Torino 1989. 26 Cfr. M. Heidegger, La storia dell’essere, (1938/40), cit. tamorfosi e lo specifico carattere volontaristico dell’oltrepassamento lo porta a volere la “riappropriazione della tradizione nella sua essenza” (OM, p. 15). In questo trattato del 1938/1939, che segue anche come stile i Beiträge, così come mette in luce il curatore tedesco, la Überwindung ha una continua oscillazione e risulta una figura ambivalente: per un verso essa non può essere considerata l’accantonamento della metafisica, dall’altro la “liberazione di un’essenza (dell’aletheia e della physis) inizialmente non-fondabile”; e tuttavia, ciò che determina l’oltrepassamento è la sua capacità di aprirsi una “fenditura” tra “l’enticità dell’ente e la verità dell’Essere”, poiché soltanto in virtù di questa situazione “viene fondata nell’assenza di fondamento, come conforme alla storia dell’Essere” la differenza tra Essere ed ente. Windung – la radice di Überwindung e Verwindung – consiste in un movimento a spirale, come una vite senza fine, una continua torsione, una spirale che crea un vortice, un movimento rotatorio ma anche di attorcigliamento che ha la sua origine nel “fondamento nascosto” della metafisica; “Il termine ‘metafisica’ significa, qui, l’orditura propria dell’apertura dell’essente nell’aperto dell’enticità (stabilizzazione del venire alla presenza)”27 (OM, p. 18). Ancora una volta non troviamo un punto fermo: il movimento a spirale è la stessa Kehre; la Windung intesa come contorcimento, tortuosità, curva, come cioè una Wegwindung è il senso e il verso del Seyn, essa “è la svolta essenziale dell’enticità verso l’essere in quanto svelamento da parte di ciò che si rifiuta (evento/Ereignis)”. Da un lato quindi la Überwindung “appartiene” alla storia dell’Essere e dall’altro è ancora interna alla metafisica e alla sua storia28, seppure come movimento a spirale che porta dal non-fondamento (Ungrund) all’assenza di fondamento (Grundlos); se in tal modo si giunge al “compimento della metafisica”, ossia alla “piena realizzazione dell’essenza della metafisica”, va anche detto che il compimento non corrisponde al raggiungimento della perfezione né della completezza, quanto va inteso come lo sviluppo della sua “non-essen 27 Da questa affermazione si può intendere meglio la critica che Heidegger muove a R.M. Rilke e al suo concetto di “aperto” che descrive all’inizio dell’VIII Elegia duinese, in Perché i poeti, in M. Heidegger, Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968. Cfr. G. Agamben, L’“aperto” Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 60-65. 28 “La metafisica rimane la prima cosa della filosofia, anche se non raggiunge mai la cosa del pensiero. Nel pensiero che pensa alla verità dell’essere, la metafisica è oltrepassata. (…) Ma questo ‘oltrepassamento (Überwindung) della metafisica’ non elimina la metafisica”, M. Heidegger, Introduzione a “Che cos’èmetafisica?”, cit., p. 93. za”, cioè del predominio dell’ente sull’Essere29. Tale compimento si manifesta come l’abbandono, da parte dell’Essere (Seinverlassenheit), dell’ente, che si manifesta come rifiuto, come “svelamento di ciò che si rifiuta” (OM, p. 19). L’Essere che abbandona l’ente si nasconde30 nella semplicità del Semplice (Lichtung) e quindi si nega; l’unico modalità del suo svelarsi consiste nell’assentarsi nel rifiuto di riconoscere l’esserci di quell’ente predominante in virtù della macchinazione. La Seinsverlassenheit è un fatto: abbandonare l’ente “significa che l’Essere si vela nell’evidenza dell’ente. E l’Essere stesso è essenzialmente determinato come questo velarsi che si sottrae”31; oltrepassare la metafisica, allora significa esprimere la verità dell’Essere come abisso (Abgrund), come vortice che non ha un fondo, movimento che applicato alla metafisica la caratterizza come non-fondata (Ungrund). Fondamentale per la tesi che qui si sostiene è la nota b che Heidegger inserisce nella quinta edizione (1949) dell’Introduzione a “Che cos’è metafisica?” nella quale è scritto: “essere come non-fondamento, fondamento” completamente barrato. Va subito chiarito che sostenere che il pensiero heideggeriano sia un pensiero caratterizzato dall’assenza di fondamento non solo non porta al nichilismo ma non ha alcuna parentela con il cosiddetto pensiero debole, come alcuni interpreti vorrebbero32; la nota poi ha un preciso riferimento nel testo heideggeriano in cui si dice: “considerato ancora dal punto di vista della metafisica, questo pensiero ritorna al fondamento della metafisica. Ma ciò che così appare ancora come fondamento (nota b), se viene esperito partendo da se stesso, è presumibilmente qualcos’altro di ancora non detto, per cui l’essenza della metafisica è altro dalla metafisica”33. La metafisica fugge dinanzi all’Abgrund, in quanto non è in grado, con i propri principi di dominarlo e di dargli un fondamento, un 29 “ Poiché la metafisica interroga l’ente in quanto ente, essa si attiene all’ente senza rivolgersi all’essere in quanto essere. (…) In quanto rappresenta sempre e soltanto l’ente in quanto ente, la metafisica non pensa all’essere stesso”, ivi, p. 91 e p. 92. 30 “Abbandono dell’ente da parte dell’essere: il fatto che l’Essere si è ritirato dall’ente e che l’ente (cristianamente) è diventato soltanto ciò che è stato creato da un altro ente. L’ente supremo, in quanto causa dell’ente, ha assunto l’essenza dell’Essere (…). Abbandono dell’essere (Seinsverlassenheit): il fatto che l’Essere abbandona l’ente, lo rimette a se stesso e lo lascia diventare oggetto della macchinazione (Machenschaft)”, M. Heidegger, Contributi alla filosofia. (Dall’evento), cit., L’abbandono dell’essere, p. 131. 31 Ibidem. 32 Cfr. R. Morani, Essere, fondamento, abisso. Heidegger e il problema del nulla, Mimesis, Milano-Udine 2010, pp. 188-189. Va riconosciuto a questo impegnativo lavoro l’originalità del taglio interpretativo e la ricchezza di nozioni e informazioni. 33 M. Heidegger, Introduzione a “Che cos’è metafisica?”, cit., p. 92. terreno solido che lo annulli, di poterlo conoscerlo e sottometterlo alla volontà dell’uomo animal rationale, ossia l’uomo metaphysicus34. La fuga (Fuge) è la fuga dalla domanda sulla verità che viene trasformata dall’ente rappresentabile come correttezza: “La dove (…) la correttezza determina l’‘idea’ di verità, tutte le vie che conducono alla sua origine sono ostruite”; le vie tracciate dalla metafisica e dalla ratio sono quelle del fondamento e della correttezza che costituiscono, nel loro insieme, il pensiero calcolante dell’Occidente. Ben altro è il senso di Todesfuge di Celan35, nel dire poetico del quale Hiedegger incontra forse, pur nel silenzio ineluttabile, il motivo autentico del suo Denkweg: “l’erranza della metafisica consiste nel fatto che essa, a partire dal suo essere persa in ciò che è più universale e vuoto, conosce soltanto la scappatoia della fuga in ciò che è ‘particolare’ e concreto” (OM, p. 55)36. La sottomissione dell’Essere all’ente, si dà come erranza, come ricerca vana di un fondamento nell’Incondizionato e nell’Assoluto, nella verità come adequatio, nella razionalità tecnico-scientifica; oltrepassare la metafisica impone l’abbandono dell’ente da parte dell’Essere, ossia “l’avvenimento fondamentale della nostra storia (…) che dà forma e che guida”, la volontà di “potenza della macchinazione” che ha deposto l’uomo dalla sua posizione centrale nel cosmo, uomo che si ritrova “sgomento” – heimatlos – all’interno del Ge-stell, di un ‘casellario’ che lo inquadra in una determinata posizione stabile, dalla quale non può e non vuole evadere, essendo le leggi che si è dato e i principi della sua razionalità incapaci di controllare la “superpotenza” della tecnica. Lo “sgomento” che caratterizza l’uomo tecnologico è il “riflesso” appannato dell’Essere e del dispiegarsi nella sua “verità in-fondata”; all’apice storico-epocale della metafisica, rappresentato dall’età della macchinazione, l’abbandono prende i tratti di una tras-posizione, di una metamorfosi dell’uomo da animale 34 “Finché rimane animal rationale, l’uomo è animal metaphysicum”, ivi, p. 93. Cfr. F. Mora, L’uomo è un “animale razionale?”, in Id. (a cura di), Metamorfosi dell’umano, Mimesis, Mialno-Udine 2015, pp. 151-175. 35 P. Celan, Fuga della morte, in Id., Poesie, tr. it. e intr. a cura di G. Bevilacqua (Eros-Nostos-Thanatos), I Meridiani, Mondadori, Milano 1998, pp. 62-65; Derrida, Schibboleth. Per Paul Celan, tr. it. di G. Scibilia, Gallio, Ferrara 1991; M. Heidegger, Contributi alla filosofia. (Dall’eveneto), a cura di F. Volpi, § 210. 36 Sull’errannza si veda, pur non condividendo l’interpretazione, il testo di P. Trawny, Fuga dall’erramento. L’an-archia di Heidegger, in Id., Saggi su Heidegger, cit. razionale a Dasein che per essenza si prende cura della verità in-fondata dell’Essere, uomo che diviene pastore dell’Essere37. L’Essere in-fondato (Grundlos), abissale (Ab-Grund), che vive soltanto in quanto si trova nell’assenza del fondamento, a differenza della ragione dell’Aufklärung che si autorappresenta come “il dispiegarsi della forza del fondamento nella storia”38, si allontana definitivamente anche e soprattutto dall’“ontologia fondamentale” di Sein und Zeit e da ciò che J. Derrida definisce come logocentrismo, cioè il principio fondamentale della metafisica39. Lo “sgomento” svincola l’uomo, e la totalità degli enti, dalla tecnica che lo tiene incatenato nella parcellizzazione dell’utile e lo traspone in una dimensione di problematicità che è la dimensione dell’in- fondato e dell’an-archia. Lo “sgomento” che prende l’uomo non è uno stato d’animo come la paura ma piuttosto, se è possibile usare la terminologia di Sein und Zeit, è paragonabile tanto alla Befindlichkeit quanto a un “esistenziale”; allo stesso modo, il movimento di tras-posizione corrisponde al mutamento d’essenza dell’uomo, alla sua metamorfosi che da un territorio costituito di leggi, principi e valori transita in un Ort che è Er-orterung (collocazione)40 del “non-fondato” dell’Essere, in modo del tutto inconsapevole. Ed è tale inconsapevolezza, tale assenza di coscienza, che permette la metamorfosi dell’uomo e del suo Dasein: dall’indifferenza calcolante indirizzata a scopi e orientata all’utilità, alla essenziale “povertà” (il “fare a meno” che non si confronta con un plus o un minus, con l’avere di più e il possedere di più di un altro)41 del prendersi cura dell’Essere, tenendosi in ascolto. Il venire 37 “Egli [l’uomo, ndr], in quanto e-siste, ha da custodire la verità dell’essere. L’uomo è il pastore dell’essere”, M. Heidegger, Lettera sull’“umanismo”, cit., p. 56; F. Duque, Gli “umori” del pastore nel pensiero di Heidegger, Mimesis, Milano-Udine 2009. 38 G. Vattimo, La fine della modernità, cit., p. 176. 39 J. Derrida, Della grammatologia, a cura di R. Balzarotti et Al., Jaca Book, Milano 1989, Id., La mano di Heidegger, tr. it. di G. Scibilia e G. Chiurazzi, intr. di M. Ferraris, Laterza, Roma-Bari 1991. 40 Cfr. M. Heidegger, Il linguaggio nella poesia. Il luogo del poema di Georg Trakl, (1953), in Id., In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano 1984. 41 Sulla decisiva figura della “povertà” si veda M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., p. 272.; Id., Die Armut; (27 giugno 1945), in “Heidegger Studies”, 10, 1994, p. 5-11; tr. francese di Ph.Lacoue-Labarthe, A. Samardzija, La pauvreté, Press Universitaire de Strasburg, Strasburg 2004. Traggo queste informazioni dalla Presentazione di M. Dolcetta, La ‘catastrofe’ di Heidegger, contenuta in M. Heidegger, La povertà, tr.it. di A. Ardovino, “MicroMega” 3/2006, pp. 109-118. Mi permetto di rinviare a F. Mora, Martin Heidegger. La provincia dell’uomo, Mimesis, Milano-Udine 2011, in part. le pp. 53-64. a trovarsi nel non-fondato corrisponde all’entrata nell’essenza della verità, “rispetto a tutto ciò che è stato in precedenza” (OM, p. 22), in quanto ora l’Essere si manifesta in quanto Er-eignis, l’evento appropriante, nella “storia essenziale” in cui non dominano più “gli ‘interessi’, non accade ‘qualcosa ’, bensì è l’evento che dispone e intona42 l’essente nella verità dell’Essere” Grundlos; il “puro ‘accadere’”, ossia l’accadere privo di ogni determinazione, di “intenzioni” e di “fatti”, l’Ereignis è l’Essere stesso, quell’Essere tuttavia che nella storia della metafisica ancora presente (Historie) abbandona l’ente alla violenza del potere tecnico e si rifiuta, ritraendosi, di pervenire a manifestazione nel luogo della radura (Lichtung)43. Oltrepassare, allora, significa far emergere “il fatto” che l’abisso è la stessa Lichtung, il luogo (Ort), il Da del Seyn che, in quanto rifiuto “è un inizio dell’altra essenza della storia”; l’occultarsi dell’Essere, il rifiuto, che si dà come un dono, non esprime mancanza bensì l’inziale “da cui proviene la storia”. L’evento dell’Essere in quanto rifiuto apre alla donazione di un’altra storia e in quanto Ereignis, l’evento appropriante, “dispiega soltanto il suo essere presente”. L’essere pensato come Evento, come verità dell’Essere, viene, per un attimo (kairos), a manifestazione nel luogo del Semplice chiamato “radura” (Lichtung), in cui oltrepassamento e storia (Geschichte) formano il “framezzo”, compagine dell’essente; afferma Heidegger: “l’Essere non è mai causa dell’essente e non è mai immediatamente fondamento”. Ma quest’epoca che noi uomini attraversiamo soggiace – è questo il suo destino – a una “duplice violenza rappresentata dalla storiografia (Historie) e dalla tecnica “ (OM, p. 24). In questo senso, anche se proprio qui viene in luce l’ambiguità e l’oscillazione del pensare heideggeriano, la metafisica – che vuole fondare ed essere fondata a sua volta – perviene soltanto a una “verità infondata” della totalità dell’ente. 3. Il pensiero an-archico Tutte le formule heideggeriane per dire l’indicibile cozzano contro una serie sempre più oscura di lessemi che non richiamano unicamente una lingua della ruralità ma anche, e in modo particolare, un insieme di figure concettuali che si avvicinano all’enigmatico, se non all’esoterico, nel senso di segreto sacro. Dice bene Franco Volpi nell’ultimo paragrafo dell’Introduzione all’edizione italiana ai Contributi alla Filosofia (Dall’evento), che il figlio di 42 Si tenga presenta la sezione Risonanza dei Beiträge. 43 M. Heidegger, Lettera sull’“umanismo”, cit., p. 46 e sgg. Heidegger, Hermann, censurò e non fece pubblicare, quando mette in luce le più forti contraddizioni del pensiero heideggeriano, e l’analogia con il diario di bordo di un naufragio è estremamente calzante: “per avventurarsi troppo in là nel mare dell’Essere, il pensiero di Heidegger va a fondo. Ma come quando a inabissarsi è un grande bastimento, lo spettacolo che si offre alla vista è sublime”44. A parte la vicinanza con l’immagine lucreziana ripresa nel famoso saggio di Blumenberg45, l’importanza delle affermazioni di Volpi consiste nella presa di distanza decisiva non solo dall’opera considerata il capolavoro che si affiancava a Sein und Zeit, ma di tutta la filosofia dello Heidegger maturo. Il “bye bye Heidegger”46 che Volpi aveva in progetto, stroncato dalla tragica scomparsa, avrebbe sicuramente avuto un effetto “distruttivo” sulla critica “scolastica”. Ma abbandonare Heidegger è poi davvero possibile? Non si rischia di buttar via il bambino con l’acqua sporca47? Pensare la fine della metafisica come l’epoca del nichilismo compiuto e la sua im-posizione (Ge-stell) nell’Assoluto Incondizionato (non esclusa la morte di Dio) che Heidegger identifica con la “trasvalutazione di tutti i valori”48, ovvero con la “macchinazione”; pensare l’ente collocato all’interno di questa dimensione finale e antropomorfa, richiama ciò che già Nietzsche aveva illustrato con forza ne Il nichilismo europeo e in opere precedenti49. Tuttavia, il pensiero di Heidegger non può essere identificato, anche solo analogicamente, con quello nietzscheano, in quanto la fine della metafisica, l’epoca dell’abbandono e del negarsi dell’Essere, avviene in virtù dell’oltrepassamento che permette alla metafisica stessa di essere considerata “per la prima volta dal punto di vista della storia dell’Essere”; ed è per tale motivo che “l’Essere oltrepassa la ‘verità’ dell’ente” (OM, p. 36). È possibile, dunque, oltrepassare la metafisica perché non è una “dottrina” o un’“opinione” o ancora la posizione dell’uomo nel cosmo, ma perché è “la 44 F. Volpi, Selvaggia chiarezza, cit., p. 299. 45 H. Blumenberg, Naufragio con spettatore, tr. it. di F. Rigotti, rev. di B. Argenton, intr. di R. Bodei (Distanza di sicurezza), il Mulino, Bologna 1985.; T. Lucrezio Caro, De rerum natura, a cura di A. Fellin, UTET, Torino 2013, libro II, vv. 2-4 46 Risuona il titolo di M. Ferraris, Goodbye Kant, Bompiani, Milano 2004. 47 D. Di Cesare, Heidegger & Sons. Eredità e futuro di un filosofo, Bollati Boringhieri, Torino 2015; pù corretta ci sembra la posizione di G. Vattimo, Non basta un quaderno nero per liquidare Heidegger, in “Il Fatto Quotidiano”, 12 dicembre 2015. 48 Cfr. M. Heidegger, Nietzsche, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, p. 33 e sgg.; F. Nietzsche, Genealogia della morale, tr. it. di F. Masini, intr. di M. Montinari, Adelphi, Milano 2010. 49 Cfr. Nietzsche, Volontà di potenza, a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Bompiani 1992, Libro Primo, Il nichilismo europeo, pp. 5-79. verità dell’ente”, qualcosa che vuole avere fondamento, ma la cui non-essenza è non-fondata (Ungrund), in quanto la verità dell’ente altro non è che la correttezza, l’adeguazione, l’esatta rappresentazione del dualismo soggetto/ oggetto. La non-fondazione si manifesta nella supremazia dell’ente nei confronti dell’essere (sein), determinando ogni forma di dominio, tra cui la giustizia, ossia il bene e il male, il giusto e l’ingiusto. La non-fondazione, “l’oblio dell’aletheia” del Seyn, corrisponde all’inizio della storia della metafisica, ossia all’imposizione degli assoluti e dei principi primi e delle cause ultime; la metafisica che determina la propria verità come orthotes è il pensiero che inizia con Platone50, con il quale ha inizio l’abbandono, da parte dell’Essere, dell’ente. Allo stesso modo, la “fine della metafisica” – che s’identifica con la fine della filosofia51 – non va intesa come un mero cessare, una conclusione in quanto compimento, bensì come l’avvento del non-essenziale sull’essenziale, il dominio del non-essenziale, di un fondamento che non fonda, mentre “con il (…) domandare della verità [aletheia, ndr] dell’Essere inizia un altro inizio” (OM, p. 41) in cui l’uomo viene gettato da quel movimento a spirale dell’Über-windung e della Ver-windung “nell’abisso della storia”. L’avvenire della storia, ciò che noi abbiamo davanti come il nostro futuro è il “compimento della metafisica”, la sua destituzione da essenza fondante l’uomo e la stessa storia; “un’altra essenza”, dice Heidegger, la verità dell’Essere in quanto abisso in-fondato, “subentra definitivamente” (OM, p. 98), avviene un altro inizio, abisso originario senza fondo. Questo è il pensiero an-archico di Heidegger52. E tuttavia, per Heidegger, “l’Essere è, ed è svelato nella misura in cui esso fa avvenire l’uomo [non nel senso di principio causativo, ndr], in quanto accade nell’uomo grazie ad una metamorfosi della sua essenza nell’esser-ci” (OM, p. 56); tale affermazione sembra essere in conflitto con quanto più sopra si era sottolineato, ossia l’affermazione heideggeriana secondo la quale l’Essere non è la causa dell’essente e non è mai un fondamento (OM, p. 24); ora, invece, si dice che l’Essere si rende tanto più manifesto, o se si vuole esce dall’occultamento e dall’oblio del rifiuto e del 50 Cfr. M. Heidegger, L’essenza della verità, a cura di F. Volpi 1997; Id., Sull’essenza della verità, (1943), tr. it. e intr. (L’oblio della verità, L’essenza della verità) di U. Galimberti, Editrice La Scuola, Brescia 1973, ora in M. Heidegger, Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987. 51 M. Heidegger, La fine della filosofia e il compito del pensiero, in Id., Tempo ed essere, a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli 1980, pp. 169-187. 52 Da queste affermazioni si comprende la distanza che separa questo contributo da quello di Trawny. pensiero metafisico, quanto più fa avvenire l’uomo. La questione non riguarda l’uomo ma il fondamento (Grund) e il suo significato derivante dal principio di ragion sufficiente; il Seyn heideggeriano, essenzialmente povero, è “far a meno” e in ciò sta la sua verità e indicibilità (il Sein barrato a croce)53, fare a meno dell’arché, an-archia, cioè “del punto di partenza e di dominio – ypokeimenon – ratio –reor – ritenere che …..” (OM, p. 66); il fondamento diviene la ratio essendi e cognoscendi dell’ente e l’uomo così dis-posto diviene l’animale razionale che giudica e domina in virtù della sua posizione antropocentrica. Rinunciare all’arché, al principio e al potere (ancora una volta an-archia), all’ypokeimenon significa “superare” (Ver-winden) la metafisica della rappresentazione soggettivistica della realtà, che ha il suo fondamento nel logos-ratio; l’autentico fondamento, invece, risulta l’in-fondato, in quanto “abisso senza fondo”, luogo del Semplice (Lichtung), l’Er-eignis, l’essenza dell’Essere stesso, in quanto evento che si fa proprio, che si autoappropria del Sé (das Ereignis ereignet, l’evento si fa evento), che si trova in pura concordanza54 con Sé. L’Ab-Grund, l’abisso senza fondamento (Grundlos), concentra in sé il rifiuto in quanto Ereignis, l’evento di autoappropriazione del sé, ovvero della verità dell’Essere e dell’Essere della verità, unico fondamento in-fondato in grado di superare (Ver-winden) il non-fondamento (Ungrund) che vuole la volontà di fondare e di essere fondamento del pensiero metafisico, avendone soltanto l’aspetto apparente, essendo pura parvenza di fondamento55. Se è vero che la Fisica di Aristotele56 è il testo sul quale l’Occidente ha fondato la sua potenza, la nozione di arché, traducibile non solo come 53 M. Heidegger, La questione dell’essere, in Id., Segnavia, cit. 54 Eignis è neologismo heideggeriano, formato sul verbo Eignen: convenire, accordare, essere proprio, appartenere; richiama Ereignis privato del suffisso –er, fondamentale nei testi heideggeriani posteriori al 1936. Si veda C. Angelino, Postfazione all’edizione italiana di M. Heidegger, Metafisica e nichilismo, cit., pp. 245-247 e in part. la nota 22, p. 247. 55 “Abisso in quanto rifiuto essenziale (avvenimento di appropriazione) di ciò che ha carattere di fondamento – non fondamento – il senza fondamento – che doveva essere fondamento – fondamento apparente – avendo l’aspetto di fondamento”, M. Heidegger, Metafisica e nichilismo, cit., p. 67. 56 M. Heidegger, Sull’essenza e sul concetto della Physis. Aristotele, Fisica B 1, in Id., Segnavia, cit., pp. 193-255; “La Fisica aristotelica è il libro fondamentale della filosofia occidentale, un libro occultato e quindi mai pensato sufficientemente a fondo. (…) in genere ha poco senso dire che la Fisica preceda la Metafisica, perché la metafisica è tanto ‘fisica’ quanto la fisica è ‘metafisica’”, ivi, p. 196. “La Fisica di Aristotele rimane il libro fondamentale di ciò che in seguito si chiamerà metafisica; ed è la metafisica a determinare la struttura dell’intero pensiero occidentale, anche là dove esso, in quanto pensiero moderno, sembra pensare contro principio ma anche come dominio e potere sugli uomini e sulla totalità degli enti, “ci insegnerà come l’origine è stata intesa da quella tradizione dominante che celebra il suo trionfo con la tecnica moderna”57; l’opposizione heideggeriana alla tradizione consiste allora nel “princeps-principium”, nel fondamento inconcusso, ma anche, a nostro modo di vedere, nell’arche non come Ursprung, quanto piuttosto come la ‘secolarizzazione’ dell’idea di fondamento, in un “governare ed essere governato”, nell’autorità della legge e della costituzione (Verfassung) dello Stato, nella Gewalt che nell’interpretazione hölderliniana del primo Coro dell’Antigone è legata all’uomo in quanto deinotatos, violento per essenza, e per questo motivo il più inquietante tra gli enti58; non lo zoon – che per Heidegger rappresenta l’ambito dell’animalitas – ma il deinotaton definisce l’essenza umana, l’unheimlich (inquietante) che è unheimsch (spaesato, non di casa, straniero). Se si enuclea la Gewalt59 dall’essere dell’uomo in quanto das Unheimlichste e la rendiamo con il neutro to deinon, allora avremo a che fare con “il terribile nel senso dell’imporsi predominante (Überwaltigendes walten)”, ossia non con l’uomo ma con una determinata topologia ontologica: “la violenza, la prepotenza, rappresentano il carattere costitutivo essenziale dell’imporsi (walten) stesso”60. Soltanto se si attribuisce all’uomo l’essere deinon, allora, “per altro verso”, dice Heidegger, deinon assume il significato di “violento”, riferito all’uomo che esercita la violenza, “che non solo ne dispone ma che è violento (gewalt- tätig)”61 per se stesso. Il suo agire s’identifica con l’esercizio della violenza, che diviene in tal modo il suo stesso essere, il suo comportamento e il suo riconoscimento. Ma per Heidegger, e questo a nostro parere va chiarito rispetto ad altre interpretazioni, Gewalt non è, “innanzitutto e per lo più”, la condizione originaria dell’uomo, il suo lato “bestiale”, ferino, Fisica di Aristotele non ci sarebbe Galilei”, M. Heidegger, Il principio di ragione, cit., p. 112. il pensiero antico. (…) Senza la 57 R. Schürmann, Dai principî all’anarchia. Essere e agire in Heidegger, tr. it. e intr. a cura di G. Carchia, il Mulino, Bologna 1995, p. 194. 58 Si veda M. Heidegger, L’inno der Ister di Hölderlin, cit., pp. 58-65. 59 S. Knoche, Benjamin – Heidegger: Über Gewalt. Die Politisierung der Kunst, Turia und Kant, Wien 2000; H. Blumenberg, Storia dello spirito della tecnica, a cura di A. Schmitz e B. Stiegler, Mimesis, Milano-Udine 2014; U. Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 2009. 60 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 157. Cfr. W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Id., Angelus Novus, tr. it e intr. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1976, pp. 5-28; Id, Il carattere distruttivo, tr. it. di P. Segni, in “Millepiani”, 4, 1995, pp. 9-12. 61 Ivi, p. 158. e “inumano” – concetti62 sui quali ci si potrebbe dilungare – per due motivi fondamentali: il deinon riferito all’uomo assume il senso di unheimlich, “inquietante” e non immediatamente quello di violento, gewalttätig; e poi, perché se si considera l’uomo come l’essere violento, la “bestia bionda” nietzscheana, gli si attribuisce quell’animalità e quella brutalità inumana e bestiale che è propria dell’homo metaphysicus, e della definizione che la metafisica fornisce di uomo in quanto zoon, cioè vivente, la cui essenza è la vita, sia esso zoon politikon sia dotato di logos. A fugare i leciti dubbi, si può far riferimento all’affermazione contenuta nella Introduzione alla metafisica che dice “noi conferiamo qui alla parola violenza (Gewalt-tätigkeit) un significato essenziale che oltrepassa, in linea di principio, il significato usuale della parola per cui essa significa per lo più brutalità e arbitrio”, affermazione che dimostra come non si tratti di un carattere dell’essenza propria dell’uomo, di un uomo violento per natura, l’“homo homini lupus” di Hobbes e di tutta la tradizione occidentale sino a Derrida63, ma di una originaria manifestazione dell’essere. Continua Heidegger: “la violenza è in tal caso assunta in un ambito in cui il criterio di esistere è determinato dalla convenzione dell’accomodamento e dalla mutua assistenza, onde ogni violenza è necessariamente considerata soltanto come perturbazione e violazione”64; la dislocazione della violenza nell’uomo la trasforma in un fatto soggettivo e collettivo, in un conflitto che non ha più niente del polemos eracliteo, e che diviene nella modernità protezione della proprietà privata o lotta di classe65 o ancora dittatura e sterminio. Se “l’essente nella sua totalità, in quanto si im 62 Basti pensare all’opera di Hobbes, al problema dell’animalitas (M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., corso 1929/30) e a quanto Heidegger afferma nella Lettera sull’“umanismo”, cit., “poiché si parla contro l’‘umanismo’ si teme una difesa dell’in-umano e un’esaltazione della barbara brutalità. Che cosa c’è infatti di più ‘logico’ del fatto che a chi nega l’umanismo non resta che l’affermazione dell’inumanità?”, p. 79. Cfr. J. Derrida, L’animale che dunque sono, tr. it. M. Zannini, intr. di G. Dalmasso (Il limite della vita), Jaca Book, Milano 2006, pp. 199-222. 63 J. Derrida, La bestia e il sovrano, vol. I, tr. it. di G. Carbolelli, Jaca Book, Milano 2009; “Là dove l’uomo si racconta la storia del politico, la storia dell’origine della società, la storia del contratto sociale, ecc.: per l’uomo, l’uomo un lupo”, p. 28. Sul mito dell’uomo lupo N. Abraham, M. Torok, Il verbario dell’Uomo dei Lupi, a cura di M. Ajazzi Mancini, con un saggio di J. Derrida, F(u)ori, Liguori, Napoli 1992 64 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 158 65 Cfr. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di F. Messineo, Laterza, Roma-Bari 1979; K. Marx, Manifesto del partito comunista, a cura di E Sbardella, Newton Compton, Roma 1971; V. Ilic Ulianov Lenin, Stato e rivoluzione, a cura di V. Gerratana, Editori Riuniti, Roma 1970. pone (als walten), è il predominante (das Überwaltigende)”, cioè se l’Essere si apre nell’evento appropriante (Ereignis) della storia66 in quanto colui che predomina, allora l’uomo è deinon in quanto appartiene al predominante. Nel momento in cui – il primo inizio, la storia della metafisica – l’uomo viene considerato come deinotaton, ecco che ha inizio il dominio dell’ente sull’Essere; l’ente fa violenza e impone la propria volontà di potenza sull’Essere, che ormai lo ha abbandonato: così ha inizio la storia della metafisca: “egli [l’uomo, ndr] è to deinotaton, il più violento, in quanto esercita la violenza in seno al predominante”; in ciò consiste la sua ybris e il suo essere metafisico. L’essere deinon dell’uomo non significa, come sottolinea Heidegger nella Lettera sull’“umanismo”, essere inumano, quanto piuttosto riconoscersi come l’in-quietante (das Un-heimliche), ciò che “estromette dalla ‘tranquillità’, ovverosia dal nostro elemento, dall’abituale, dal familiare, dalla sicurezza inconcussa”67; l’uomo tragico – altro da quello moderno metafisico-tecnologico, Der Mann ohne Eigenschaften, proprio perché le ha tutte68 – abita la dimensione dell’insolito e del non-familiare (das Unheimische) quella dimensione che ci toglie – vera e propria deterritorializzazione – dalla tranquillità della certezza della ragione, dalla sicurezza nichilistica della tecnica, dalla quotidianità dell’homo oeconomicus. L’uomo che soggiorna nel deinon, nel das Un-heimliche, nell’inquietante luogo dell’evento del predominante, nell’a-letheia, in quanto svelamento del segreto (Heimlich) e nel das Unheimische, nell’estraneità dello straniero (Fremde) a-polide, soggiorna in una dimensione pre-metafisica e pre-logica; se si attribuisce all’uomo il deinon e l’essere deinotatos, allora accade una Umkehr, una metamorfosi d’essenza dell’uomo, che diviene violento, poiché egli soltanto può divenire inumano e assumere comportamenti bestiali, perché egli soltanto applica la violenza sull’Essere. In tal modo il predominante diviene l’ente che esercita il proprio dominio (arche) sull’Essere; questo non è heimlich ma Geheim, segreto e nascosto; l’occultamento e l’oblio sono le forme con le quali l’ente esercita la violenza e il predominio sull’Essere e il fondamento di questo potere, che si articola nelle istituzioni (società, Stato, leggi) lo acquisisce dal pensiero meta 66 Diversamente in K. Löwith, Evenienzialità, storia, ventura dell’essere, in Id., Saggi su Heidegger, tr. it. di C. Cases e A. Mazzone, Einaudi, Torino 1974, pp. 49- 82; G. Vattimo, Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Marietti, Genova 1989. 67 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 159. 68 R. Musil, L’uomo senza qualità, tr. it. di A. Rho, Einaudi Torino 1972. fisico e dall’apparato assiologico della tradizione ebraico-cristiana, secolarizzata successivamente dall’avvento dell’età dei Lumi. Excursus La secolarizzazione69 – il processo analogico-metabolico che determina la modernità e, con modalità diverse, la nostra contemporaneità – trasforma i fondamenti del pensiero ontoteologico in sistemi tecnico-scientifici. In questo movimento ciò che muta non è il pensiero metafisico (il post-moderno come il post-metafisico70, il post-umano e l’attuale post-verità fanno parte a pieno titolo del “sistema” della metafisica, come tutti i post-) che sussiste come fondo (Grund), sempre più vicino al collassare su se stesso, e tuttavia ossimoricamente sempre più stretto alla convinzione che questo sia il migliore dei mondi possibili. La secolarizzazione della metafisica è l’escamotage, la finzione dell’uomo moderno e del suo dominio, al fine di perpetuare la forma di vita illuministico-borghese, tecnico-capitalistica, creando instancabilmente sempre nuovi feticci, simulacri e totem71, producendo speranze ireniche e brama di giustizia. In quest’epoca è venuta meno – e questo Heidegger lo mette in chiaro nella sua conferenza sul Gestell 72 – la sacralità della metafisica e questo processo di desacralizzazione avviene in virtù della tecnica ma conduce anche al suo dominio totalitario e planetario, la espande ai massimi livelli che tendono all’infinito e all’immortalità. Il fondamento (Grund), anche se edificato dalla metafisica e quindi per questa sua natura di prodotto, risulta essere una mera rappresentazione concettuale e logica, muta la sua essenza e smarrisce anche la propria ragion d’essere in forza di una secolarizzazione che s’identifica con il processo tecnico dell’Occidente. 69 E.W. Bökenförde, Diritto e secolarizzazione, tr. it. di M. Capitella, pref. di G. Preterossi, Laterza, Roma-Bari 2007. 70 J.F. Lyotard, La condizione postmoderna, tr.it. di C. Formenti, Feltri, Milano 1981; J. Habermas, Il pensiero post-metafisico, a cura di M. Calloni, Laterza, Roma- Bari 1991. 71 J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, tr. it. di G. Mancuso, Feltrinelli, Milano 2002; S. Freud, Totem e tabù, tr. it. di S. Daniele, introduzione di K. Kerényi, Boringhieri 1969; C. Lévi-Strauss, Il totemismo oggi, tr. it. di D. Montaldi, Feltrinelli, Milano 1976. 72 M. Heidegger, L’impianto, in Id., Conferenze di Brema e Friburgo, tr. it. di G. Gurisatti, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2002, pp. 45-70. Se la modernità 73– non ancora conclusa – trova la propria specifica determinazione nel principio fondamentale di secolarizzazione, va detto che Heidegger non può essere definito un “antimoderno” come gli appartenenti alla “rivoluzione conservatrice”74, se non forse agli inizi del suo Denkweg, influenzato da Kierkegaard e dalla sua formazione cattolica per un verso, e dalla lettura giovanile di Nietzsche come dalla frequentazione del teologo antimodernista Carl Braig75, per l’altro. Piuttosto Heidegger, a differenza dell’antimodernismo à la Spengler, si pose subito su una posizione di aperta critica nei confronti del processo di secolarizzazione, in quanto in esso rinviene la fondazione della politica liberal-democratica e della società estraniante illuministico-borghese, la finanziarizzazione del mondo e dell’uomo, la metamorfosi del fondamento che da logico-razionale si trasforma in quello scientifico-tecnologico76. La domanda da porsi, allora, è perché Heidegger individua proprio nella tecnica il grado massimo, il punto di fusione, della metafisica e quindi il pervenire nel deserto del nichilismo? Non si vuole qui proporre l’ennesima esegesi della tecnica del pensiero heideggeriano, bensì domandare il valore che a essa attribuisce, valore che farebbe ricadere Heidegger in quella tradizione metafisica che fin dagli inizi degli anni Venti del secolo scorso e dagli albori del suo filosofare aveva messo al bando. Heidegger ricadrebbe con tutti e due i piedi dentro la palude del pensiero metafisico, ormai insuperabile. A tale questione si potrebbe rispondere che Heidegger pone le sue energie versus la tecnica, in quanto questa, a differenza di tutti gli altri ambiti del sapere e dell’agire umani, rappresenta il moderno universale 77. La sua vali 73 K. Löwith, L. Strauss, Dialogo sulla modernità, tr. it. di A. Ferrucci, intr. di R. Esposito (Sull’orlo del principio), Donzelli, Roma 1994. 74 Cfr. E. Nolte, La rivoluzione conservatrice nella repubblica di Weimar, tr. it. di L. Iannone, Rubettino, Soveria Mannelli (CZ) 2009; Id., Heidegger e la rivoluzione conservatrice, con la collaborazione di A. Krali, Sugarco, Milano 1997; A. Mohler, K. Weissmann, Die konservative Revolution in Deutschland 1918-1932, (1950), Ares Verlag, Graz 2005; H. von Hofmannsthal, La rivoluzione conservatrice europea, pres. di D. Barbaric, a cura di J. Bednarich e R. Cristin, Marsilio, Venezia 2003. 75 R. Safranski, Heidegger e il suo tempo, tr. it. di N. Curcio, Longanesi, Milano 1996, in part. il cap. 2., pp. 28-55; O. Pöggleler, Il cammino di pensiero di Martin Heidegger, tr. it. di G. Varnier, Guida, Napoli 1991, in part. il cap. primo, pp. 17- 28; F. Volpi, Heidegger e Brentano, CEDAM, Padova 1976. 76 H.D. Bahr, Das Wesen der Technik, in “Heidegger Studies”, vol. 29, 2013, pp. 89- 120. 77 Cfr. C. Esposito, ‘Al di sopra’, ‘attraverso’, ‘al di là’. Heidegger, Suarez, Tommaso nella storia della metafisica, in “Giornale di metafisica”, 32 (2010), pp. 553-586. dità globale investe ogni ordine: dal politico all’etico, dalla scienza alla storia; viene esportata come modello e diffusa sulla terra, come la lingua dell’impero (il latino ieri, l’anglo-americano oggi), attraverso un processo di iper-umanizzazione ed egemonia antropocentrica. La tecnica è semplificazione, abbreviamento del tempo, massimo sfruttamento dell’utile, dominio dell’infinitesimalmente piccolo, azzeramento tendenziale dei tempi di produzione, e per ciò è il fondamento del “pensiero calcolante”78. La semplificazione – che non coincide con la schmittiana “epoca delle neutralizzazioni”79 – non conduce al “Semplice”, bensì alla complessità dei linguaggi e dei saperi specialistici che non comunicano tra loro, che costituiscono isole ma non un arcipelago, e che hanno nell’organicità biologica e nella naturalità, che fonda la genetica, la loro propria origine. La tecnica e il suo dominio sono possibili soltanto perché, metafisicamente, si pensa l’essenza dell’uomo come vita80. Egli, infatti, prima di ogni altra cosa, è un vivente e perciò sottoposto al potere della tecnica, che si svincola dall’origine umana e prometeica e si fa potenza autonoma, come vero e proprio trascendentale. Nella complessità feticistica e spettacolare, nella ricchezza fantasmagorica del denaro e dei suoi simulacri, nel ripetuto e costante vulnus all’Umwelt, nel dominio unilaterale e planetario si manifesta il Wille zur Macht dell’universo tecnologico. Heidegger avverte nella potenza di manipolazione della tecnica il pericolo per l’uomo di essere incasellato (Gestell) in un ruolo e posto su un binario che porta da una sola parte e dal quale non si può uscire. Va però sottolineato che tale lettura non ha nessun punto in comune con quella, per fare un esempio, di Gunther Anders o della Scuola di Francoforte (in particolare Horkheimer e Marcuse)81, poiché l’epoca che viviamo, quella dell’esasperazione tecnologica, della volontà di creare vita per l’immortalità, l’epoca del calcolo e dell’utile, del dispendio e della povertà, fa parte essa stessa della storia dell’Essere (Seinsgeschichte) che si dà ancora come storia della metafisica (Historie). Im-posizione, impianto, sistema sono le parole che segnano e incatenano l’uomo al fondamento della vita metafisica 78 M. Heidegger, Qual è l’essenza nascosta della tecnica moderna, (semestre estivo 1952), in Id., Che cosa significa pensare?, tr. it. e prefazione di G. Vattimo, Sugarco, Varese 1996. 79 C. Schmitt, L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, in Id., Le categorie del politico, a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna1981. 80 M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., Id., Lettera sull’“ umanismo”, cit. 81 G. Anders, L’uomo è antiquato, voll. 1 e 2, t tr. it. di L. Dallapiccola e M.A. Mori, intr. di C. Preve (Un filosofo controvoglia, Bollati Boringhieri, Torino 2003. e che riducono la sua memoria a omologazione genetico-organicistica, tenendolo lontano dalla sua e-sistenza autentica. 4. Nihil est sine ratione La decostruzione del paradigma metafisico, che ha nell’idea e nella pratica del fondamento il suo nucleo essenziale, mette in luce il carattere anarchico del pensiero heideggeriano. La storia dell’Essere si libera definitivamente dalle partizioni razionalistiche dello storicismo come anche dal Creatore della tradizione ebraico- cristiana e di una sua parousia, ormai secolarizzata nella modernità sotto l’aspetto dell’idea di progresso umano82; essa trova la sua verità e la sua essenza nell’Ereignis, in quel “presagire” la fine della Historie, della “storia fatta di rotture epocali”83, non tanto per esprimere un’epoca in sé unitaria e uniforme, quanto quel “presagire”, “parola (…) polemicamente antirazionalista”, indica come la Seinsgeschichte sia discontinuità e assenza di leggi, annullamento dei paradigmi e di un qualsiasi ordine della razionalità e insostenibilità dei “canoni del razionalismo trionfante”. La “distretta (Not) della ragione”, ciò che le è necessario ma ugualmente legato alla scarsità, è il tempo storico84, il continuum che le permette di transitare “da una costellazione all’altra”85, da un periodo a un altro, nell’ottica fondamentale del progresso, nel segno che il progresso diviene il fondamento della razionalità moderna. Di contro a questo pensiero dominante si staglia il pensiero an-archico, senza cronologia, tempo misurabile, inizio 82 Com’è noto, differente è la lettura della secolarizzazione della religione cristiana che offre C. Schmitt; sarebbe qui interessante tentare un confronto sui temi del progresso e della violenza con G. Sorel e i suoi Scritti politici (Riflessioni sulla violenza, Le illusioni del progresso, La decomposizione del marxismo), a cura di R. Vivarelli, UTET, Torino 1971. 83 R. Schürrmann, Dai principî all’anarchia, cit., p. 490; cfr. di contro Th. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, tr.it. a cura di A. Carugo, Einaudi, Torino 2009; M. Foucault, Le parole e le cose, tr. it. di E. Panaitescu, postfazione di G. Canguilhelm (Morte dell’uomo o estinzione del cogito?), Rizzoli, Milano 1978. 84 Cfr. G. Simmel, Il problema del tempo storico, in Id., La forma della storia a cura di F. Desideri, presentazione di G. Cantillo, Edizioni 10/17, Salerno 1987. Si veda ora anche G. Simmel, Ultimi saggi sulla teoria della storia. Ein ganz neues Buch 1916-1918, tr. it. di G. Chivilò, intr. di F. Mora, Mimesis, Milano-Udine 2018. 85 Le citazioni sono tratte da R. Schürmann, Op. cit., pp.490-491; sulla nozione di continuum si veda Aristotele, Fisica, Libro VI, a cura di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1995. e fine, senza cioè principî da cui qualcosa ha inizio – come il primo inizio della storia della metafisica –, senza alcun fondamento perché il venire alla presenza, l’enticità (Anwesenheit), assolutizzata in qualcosa di “a-temporale” dal pensiero metafisico, risulta ciò che “si mostra e si occulta nei campi finiti” dischiusi dall’Essere-Er-eignis; questo ferma il progredire senza fine della ragione e della dialettica. Pensiero dell’anarchia o anarchia del pensiero portano a evidenza la circolarità di significati e segni che si tengono l’uno con l’altro senza la necessità di un fondamento o di un paradigma, di un principio primo che è causa; viceversa, l’altra pre-comprensione dell’Essere, che Heidegger chiama “presagio” lo fa trapassare dal significato usiologico della presenzialità (l’ousia in quanto Anwesenheit)86 nella storia-destino (Geschichte/ Geschick) che è Er-eignis. Ma l’assenza dei principi (archai) – che è assenza anche di potere dominante –, di un Dio “archi-presente” che lascia lo scettro all’uomo – dal divino “io sono colui che è” si transita all’ “ego cogito” – viene in luce con tutta la sua forza interpretativo-decostruttiva nel corso del semestre invernale 1955/1956 che titola Der Sazt vom Grund e che viene tradotto con Il principio di ragione.87 I passaggi sempre più serrati della meditazione heideggeriana hanno inizio dalla definizione del principio di ragione, “la tesi del fondamento”, che dice “nihil est sine ratione”; formula che per Heidegger: “traduce: niente è senza ragione, senza fondamento”. Fin da subito, quindi, la ragione, la ratio della Romanitas e poi la Vernunft della Modernità, e il fondamento (Grund) vengono identificati in una “tesi” che è un vero e proprio principio (arche), pur venendo formalizzata soltanto in epoca moderna da Leibniz, ma presente già nella riflessione filosofica e nel “rappresentare umano” fin dai tempi della Grecia presocratica. La tesi del fondamento che ha valore di principio di tutti i principî ha due “tonalità”, può essere cioè letta in due modi che si possono riassumere come “principio del fondamento” (Grundsatz) gnoseologico di ciò che è – nulla esiste senza una ragione – o in quella, per Heidegger decisiva, che esprime il carattere ontologico, trasformandosi in una “tesi del fondamento [che] parla dell’essere dell’ente (…). La tesi del fondamento dice: all’essere appartiene qualcosa come il fondamento. L’essere 86 M. Heidegger, Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, UTET, Torino, p. 25; 44; R. Schürmann, Op. cit., p. 492. 87 M. Heidegger, Il principio di ragione, tr. it. di G. Gurisatti e F. Volpi, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1991. D’ora in poi citato tra parentesi nel testo con la sigla PR e il n. di pagina. è dello stesso genere del fondamento, ha il carattere del fondamento (…). La tesi del fondamento è un dire dell’essere” (PR, pp. 90-91). Da questa seconda “tonalità” si sviluppa con un andamento a spirale la meditazione heideggeriana che prende di mira, tra l’altro, l’uomo in quanto animale razionale e l’essenza della tecnica moderna nell’era atomica. Analiticamente, il primo passo consiste nell’affermare che Essere e Fondamento “sono» lo Stesso; tuttavia, l’Essere, per essenza, è in-fondato, senza fondamento, tanto che il Fondamento “rimane via (abweg) dall’Essere”. Il rimaner-via (Ab-bleiben) del fondamento dell’essere “è” “il fondo abissale, l’Ab-Grund”, e però l’“è” può essere detto solo dell’ente e non dell’essere; “l’‘essere’ – afferma Heidegger – non ‘è’”: la scrittura adeguata, allora, sarebbe “Essere e fondamento: lo Stesso” ed “‘Essere’: il fondo abissale (Abgrund)”. Un secondo aspetto della tonalità ontologica del principio di ragione consiste nel fatto che questo è “un salto nell’essere (Satz des Sein) in quanto essere” (PR, p. 98). Il salto del pensiero non abbandona nella sua spinta propulsiva, nel suo slancio (Absprung) il terreno da cui spicca il balzo, in quanto, soltanto perché avviene il salto, può essere determinato il terreno di lancio: “il salto del pensiero non lascia dietro di sé ciò da cui esso balza via, ma, anzi, se ne appropria in modo più originario (…) il pensiero del salto diventa pensiero rammemorante (Andenken)” (PR, p. 108). È chiaro che la figura del “salto” riprende la meditazione della IV sezione dei Beiträge che porta il medesimo titolo e non muta l’andamento del pensiero heideggeriano che qui come allora collega l’Absprung, “il balzar via”, del salto del pensiero alla storia dell’Essere e al pensiero rammemorante. Fa da ponte tra le due opere, una esoterica e una pubblica, e tra i due periodi il corso del semestre invernale 1941/1942 L’inno Andenken di Hölderlin88; il pensiero rammemorante si rivolge non al passato (Vergangenes) proprio dell’Historie, quanto al “già stato” (das Gewesene) della Geschichte; se il primo è un trascorso ormai perduto, il secondo permane e dona al pensiero che rammemora un’altra dimensione. Nell’epoca in cui ci troviamo a essere, l’epoca atomica, estrema espressione dell’era tecnologica globalizzata, l’essere si sottrae all’ente e, sottraendosi, si occulta. La sottrazione e il velarsi sono le modalità con le quali l’essere “ci si destina” e queste sono lo stesso destino dell’essere. In quella che viene storicamente (historisch) definita “età moderna” “l’essere si destina nell’oggettività degli oggetti, sottraendosi (…) nella sua essenza”; 88 M. Heidegger, L’inno Andenken di Hölderlin, tr. it. di C. Sandrin e U. Ugazio, Mursia, Milano 1997. questo significa che nell’epoca moderna prende il sopravvento il principium reddendae rationis sufficientis, ossia la tesi del fondamento interpretata in quanto principio primo, in quanto ragione. Il fatto che l’Essere sia abisso senza fondo, ossia che non abbisogna di alcun fondamento e di alcuna causa, non significa che sia un precipitare infernale, piuttosto l’abisso conduce l’uomo in uno stato di “sbigottimento” (bestürzt), che lo stesso uomo vuole superare tramite il principio di causalità; il reale (wirklich) diviene per l’uomo vivente dotato di ragione il causante (Wirkend) e il causato (Gewirkt), ciò che fonda ed è, a sua volta, fondato. La pretesa di dominio e di spiegazione insiti nella “tesi del fondamento” proviene, dice Heidegger, da un luogo (Ort) che deve essere esplorato durante quel cammino del pensiero89 a cui dà nome di Erorterung, localizzazione: “tutto sta nel cammino” (PR, p. 107). È questa proposizione ancipite: da un lato, infatti, significa che essenziale per essere più vicini al luogo – che non è un determinato punto dello spazio, una meta o un telos90 – è un mantenersi “in cammino” su quelli che Heidegger chiama sentieri del pensiero; dall’altro lato, la proposizione ci dice che “tutto ciò che bisogna scorgere, si mostra sempre e soltanto cammin facendo”. Nessuna ipotesi, nessuna tesi, nessuna causa, nessun fine; un pensiero ateologico, contro ogni finalismo e una ragione fondante divenuta logica e tecnica; il pensiero si dà nel cammino e solo in esso; se ci si mantiene in cammino il pensiero si avvicina all’essenza della verità (aletheia); solo se ci manteniamo nella dynamis e non ci fermiamo nella stabilità dell’energheia in quanto atto e presenza, allora possiamo davvero superare (Verwindung) la metafisica. Questo pensare, sempre in cammino, non potrà mai dare risposte – ma solo domande – perché non giunge mai a una meta che non ha; il pensiero pensa perché pensa, un po’ come la rosa di Silesio91. Il Denkweg contrassegnato dalla localizzazione (Erörterung) del principio di 89 M. Heidegger, Il linguaggio nella poesia. Il luogo del poema in Georg Trakl, in Id., In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano 1984, “Erörtern vuol dire qui per prima cosa: indicare il luogo (Ort). E poi significa: osservare il luogo. Ambedue le cose (…) sono i passi preliminari necessari per una Erörterung”, ivi, p. 45, si veda la nota del Traduttore. 90 Diversamente S. Weil, Quaderni, II, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1985, p. 252, “Essere radicati nell’assenza di luogo”. Ricavo l’informazione da F. Rella, Limina. Il pensiero e le cose, Feltrinelli, Milano 1987, che così commenta l’affermazione di S. Weil, “l’assenza di luogo è dunque ciò che paradossalmente ci permette di ‘afferrare’ lo spazio in tutte le sue estensioni, di coglierne la specifica ‘realtà ’”, ivi, p. 9. 91 M. Heidegger, Il principio di ragione, cit., pp. 68-76. ragione abbisogna del salto (Satz): per pensare l’essenza del fondamento bisogna saltare nella localizzazione del suo cammino. Il salto (Satz) balza fuori, oltrepassa il principio del fondamento, torcendosi (Verwindung) all’indietro e rivolgendo indietro il proprio sguardo verso il “già stato”, ossia verso la storia dell’Essere in quanto destino della storia del pensiero occidentale. L’oltrepassamento della metafisica non sta dunque nella Destruktion o nella Überwindung quanto nel Satz, inteso come Verwindung, un salto che con una torsione si rivolge indietro verso l’altro inizio. Saltare fuori dal principio di ragione ha due decisivi significati che entrambi rimandano alla decostruzione della ratio: tentare un pensiero senza fondamento e togliere di mezzo la causalità, che non solo intende spiegare i fenomeni ma che sta anche alla base delle scienze positive e dell’economia; destituire il pensiero della sua funzione utilitaristica, incentrata sul nesso inscindibile causa/effetto e la duplice valenza della ratio, quella di fondamento e causa, che ormai sono diventati sinonimi, evidenzia il carattere anarchico del pensiero di Heidegger. L’azione del fondare presuppone sempre un atto di volontà, sia esso divino o umano e se il fiat dimostra la volontà divina, Ignazio di Loyola afferma che qualsiasi modo è utile per raggiungere quella volontà sovraumana92. La volontà umana si avvale della tecnica – il furto del fuoco prometeico o il mangiare del frutto proibito della conoscenza che mostrano la forza della curiositas dell’uomo –, il sapere della poiesis che ha ormai fagocitato la praxis, intesa nella sua massima espressione come politica, e la theoria93. La storia del pensiero occidentale – la metafisica nei suoi molteplici e differenti aspetti – diviene il terreno sul quale può avvenire il salto verso un altro pensiero che ha la capacità e la forza (dynamis), esso soltanto, di avere memoria del destino dell’Essere; ciò viene a significare che non è possibile pensare un’opposizione tra storia della metafisica e storia dell’Essere, non vi è frattura tra di esse, poiché senza il terreno, senza la rampa di lancio, non potrebbe avvenire quel salto che, guardando al primo inizio della filosofia, si proietta verso il pensiero dell’Essere e verso 92 Il famoso “todo modo para buscar la voluntad divina”, in Id., Esercizi spirituali tr. it., note e lessico a cura del “Centro Ignazio di spiritualità”, Napoli 2001. Proposizione ripresa da Sciascia e nel titolo del film di Elio Petri. 93 Cfr. M. Heidegger, L’autoaffermazione dell’università tedesca, a cura di C. Angelino, il melangolo, Genova 1988, “Ma che cos’è per i Greci la theoria? Si risponde: la pura contemplazione (…). Ma questo richiamo ai Greci è inesatto ed errato. La teoria infatti non accade in primo luogo neppure una volta per sé stessa – ma solo soltanto nel pathos che coglie chi si trova in prossimità dell’essente in quanto tale e preda del suo incalzare”, ivi, p. 20. (um) l’“altro inizio”94. Il salto, che mai giunge al pensiero dell’Essere, in quanto esso non è una meta, rimane pur sempre un salto in quanto permane “in cammino”; e tuttavia, è forse possibile paragonarlo alla platonica “epekeina tes ousias”95, nel senso di ciò che supera in “dignità e potenza” il senso dell’essere metafisico e che nella torsione (Verwingung) e nel distacco dal suolo metafisico, lo mantiene in vita, pur non generando, come il sole platonico, gli enti. Il salto che resta sospeso e rivolto all’indietro, che continua indefinitamente il suo andare lungo la sua traiettoria, verso il destino dell’Essere, non può abbandonare del tutto il deserto del nichilismo96; il rischio è che ricada nel Boden metafisico e si perda definitivamente. La “extra-sostanzialità”97 o la de-sostanzializzazione dell’Essere è ciò che permette a Heidegger di pensare l’Essere (Seyn) del nuovo inizio come privo di fondamento (Grundlos) e come abisso (Abgrund) e costituire un pensiero an-archico. In quest’ottica, l’essere che si destina a un’epoca, nell’atto stesso di destinarsi, si ritrae e si sottrae, e tale sottrarsi nell’occultamento “va contro ogni abitudine del nostro rappresentare. Tuttavia, la storia dell’Occidente e del suo pensiero – la metafisica – è caratterizzata nella sua essenza da ciò che Heidegger chiama “destino dell’essere”; ma cosa intende Heidegger, a metà degli anni Cinquanta con “destino” (Geschick)? Certamente non ciò che intende nella Rektoratsrede del 1933. Se qui “destino” corrisponde alla “missione storica” che il popolo tedesco deve portare a compimento, nel corso del semestre invernale 1955/1956 sul principio di ragione (DerSatz vom Grund), il termine “destino” significa il rivolgersi a noi dell’essere e nel medesimo tempo il suo diradarsi; questo movimento, che assomiglia all’equilibrio volvente di una sfera, “predispone” la dimensione spazio-temporale, il framezzo, il tra (Zwischen), in cui “l’ente può apparire”. Destino, dunque, non è la sorte (Schicksal) che guida l’esistenza umana e la storia, che non va più pensata come processo e accadimento di fatti sui quali l’uomo detiene decisione e responsabilità, ma altresì va intesa “in base al destino dell’essere, all’essere in quanto destino, in base cioè a ciò che si destina a noi nel momento stesso in cui si ritrae” (PR, p.111). Il destino – il sottrarsi dell’essere dall’ente – è lo stes 94 Sull’“altro inizio” si veda M. Heidegger, Contributi alla filosofia (dall’evento), cit., 87-95., pp. 186-199 (III. Il gioco di passaggio). 95 Platone, Repubblica, 509b 9-10, in Id., Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1991. 96 Cfr. V. Vitiello, Utopia del nichilismo. Tra Nietzsche e Heidegger, Guida, Napoli 1983. 97 Cfr., A. Le Moli, Heidegger e Platone, Vita e Pensiero, Milano 2002. so movimento di questa sottrazione, che chiede dell’essenza della storia (Geschichte), pensata come storia dell’essere, ma non risponde a che cos’è la storia; il destino è una “parola” (Wort) che non è una “risposta” (Ant- wort) ma una “domanda” (Frage), una continua interrogazione che dice l’essere in cammino. Facile a questo punto proporre un’analogia con il pensiero greco arcaico e tragico che racconta del chiedere del viandante e del non dire dell’oracolo. Ma come si fa a spiegare le differenti epoche storiche se il destino è l’assentarsi dell’essere dall’ente e il predominio di quest’ultimo sul primo? Il destino, ci dice Heidegger, è “destinazione” e, di volta in volta, l’essere si destina – ossia si rivolge e si ritrae dall’ente – in modo differente. L’essere dunque si nasconde, dis-velandosi si occulta, poiché l’atto del disvelamento (Unverborgenheit) è coappartenente al velamento (Verborgenheit); disvelarsi e occultarsi sono le medesime facce di Giano; senza l’occultamento non potrebbe avvenire il disvelamento e in questo movimento di darsi e di ritrarsi, di ritrarsi e darsi, consiste la storia dell’essere. Eraclito, nel suo fr. 123 dice “physis kriptesthai phylei” e Heidegger traduce “l’essere ama (un) velarsi”; e si chiede: “ma cosa significa, pensato in greco, phylein, amare? Significa: coappartenere nello Stesso” (PR, p. 115)98. L’essere fin da sempre coappartiene al nascondimento (Verborgenheit), si tiene al riparo e si isola nell’Er-örterung del Se Stesso, della sua verità. E tuttavia, perché la sua voce risuoni in quell’ente che ha la modalità d’essere dell’e-sistere, l’essere è destinato a svelarsi per poi ritrarsi e lasciare il dominio all’ente che lo oblia99. Il sottrarsi nel nascondimento, “fonte di ogni svelamento”, il velarsi dell’essere, assottigliandosi sino a svanire, manifesta (vorscheint) “l’autosapersi assoluto dello spirito assoluto nella metafisica dell’idealismo tedesco, lo svelamento dell’ente relativamente al proprio essere – vale a dire la metafisica – appare compiuto, e la filosofia è alla fine” (PR, p. 116)100. 98 Cfr. M. Heidegger, Eraclito. L’inizio del pensiero occidentale.Logica. La dottrina eraclitea del logos, (semestre estivo 1943 e 1944) tr. it. di F. Camera, Mursia, Milano 1993. 99 Analogo movimento si ritrova in quello che Georg Simmel intuisce nella sua Lebensphilosophie, ossia il conflitto Vita/Forma, nel quale la vita per dimostrarsi nella sua essenza di motilità è costretta a irrigidirsi in una forma; che a sua volta verrà superata da un’altra più potente. Cfr. G. Simmel, Intuizione della vita. Quattro capitoli metafisici, tr. it. di F. Sternheim, introduzione di A. Banfi, Bompiani, Milano 1938; più recente l’edizione a cura di G. Antinolfi, ESI, Napoli 1997. 100 Nell’Introduzione alla metafisica, Heidegger scrive “l’essere permane incline a ritornarvi [nella latenza], sia nel grande occultamento e silenzio, sia nella più superficiale finzione e dissimulazione. La stretta contiguità di physis e di kriptesthai La fine della filosofia, non è, tuttavia, la fine della storia della metafisica, ma con essa si apre l’epoca del definitivo dominio planetario della tecnica, ossia l’attuale e compiuta espressione della metafisica contemporanea. Ciò significa che la tesi del fondamento prende definitivamente possesso degli enti e della terra nel modo più violento e potente, provocando la ritrazione e la sottrazione sempre più decise dell’essere. Affermare ciò significa indicare lo svuotamento d’essere dell’ente, il suo diventare vuota oggettività e sterile volontà; l’Heimatlosigkeit diviene lo spazio di questo ente privo di essere che vive in questo paesaggio catastrofico in cui si espande il deserto del nichilismo dell’uomo-soggetto, divenuto puramente virtuale. Ma esiste ancora la possibilità di un pensiero rammemorante la storia del pensiero occidentale, in quanto storia del destino dell’essere, un pensiero cioè in grado di avere memoria del movimento essenziale dell’essere di svelamento e occultamento? La differenza tra la storia dell’essere (Geschichte) pensata come il destino (Geschick) che sottrae e la storia della metafisica, che è la rappresentazione del destino in quanto sorte (Schiksal), consiste nel fatto che la seconda viene pensata come “accadere simile a un processo continuo” (PR, p. 121). La serialità degli accadimenti dell’Historie ha sostituito, con l’avvento della metafisica, il tempo del destino dell’essere che si sottrae all’ente e al suo dominio, tempo della Verborgenheit, del prendersi cura di Sé nel nascondimento. Svelamento e velamento dell’essere non sono all’interno del tempo cronologico, né sono un carattere “contingente” dell’essere, qualcosa di già esistente e sussistente, di presente (Anwesen); al contrario, sono le modalità in cui l’essere si destina in quanto presenza (Anwesenheit) e in quanto assentarsi, in quanto velamento. Nella dimensione cronologico-storico metafisica del pensiero prevale la “soggettività” che fornisce alla “tesi sul fondamento” il potere della ratio, che “scatena il calcolo universale e totale che riduce tutto alla calcolabilità” (PR, p. 139). Nel momento in cui la ratio viene concepita come soggettività, viene a emersione il fatto e la modalità in cui “la ragione racchiude in sé l’interezza delle possibili rationes, vale a dire dei fondamenti, ed è così il fondamento di ogni fondazione” (PR, pp. 150-151). Grund, fondamento, in primo luogo indica la profondità di qualcosa, ma anche, nell’area linguistica svevo-alemanna, l’humus, la terra pesante e feconda; è solo a partire dal XVI secolo che acquisisce il significato di “andare a fondo”, nel senso della ricerca delle cause, del fondo: “la parola te è insieme manifestazione [Vorschein] dell’intimità dell’essere e apparenza e del loro conflitto”, p. 123. Grund è la traduzione della parola latina ratio”, poiché il principio di ragione (Grundsatz vom Grund) traduce la locuzione latina “principium reddendae rationi sufficientis”. Ratio, ragione, significa allora sia fondadesca mento (Grund) che Vernunft, e nella modernità ratio viene intesa e tradotta in questo duplice significato di fondamento e ragione: “nella parola tedesca Grund parla la ratio, e precisamente nel duplice senso di ragione e fondamento. L’essere un Grund caratterizza anche ciò che chiamiamo una ‘causa’, in latino causa; per questo la tesi del fondamento (….) è formulata anche così: nihil est sine causa” (PR, p. 168). Ciò che Heidegger vuole qui evidenziare è che inizialmente la parola Grund non ha a che fare con la ragione e con la causa, ma con la profondità e con la terra; e tuttavia, nella modernità, in virtù della lingua della Romanitas, Grund diviene la traduzione di ratio e di causa (Ursache); in questo modo, la tesi sul fondamento diviene il principio di ragione e la causa prima. La ratio, è causa e fondamento, calcolo che richiede riflessione e capacità di valutazione; “ratio significa calcolo” dice Heidegger, poiché all’interno di essa è già insito il “reddere”, cioè il rendere conto, il giustificare con la ragione. La tesi del fondamento che dice che l’Essere e il fondamento sono lo stesso si è trasformata in principio di ragione, che è causa e calcolo, in quanto la ratio è espressione latina e romana e non greca, e ciò per Heidegger significa porre la questione in termini non iniziali, né “conformi alla storia dell’essere” (PR, p. 180). Ma vi è anche un’altra possibilità che è quella del pensiero rammemorante (Andenken), che “ri-pensa” non il passato storiografico ma il destinale “già stato”; rammemorare, dice Heidegger, significa “pensare a fondo (bedenken) ciò che è ancora impensato nel già stato, come ciò che è da- pensare”, perché “il pensare è un pensare già che ripensa” (PR, p. 161). CAPITOLO SECONDO 1. Il luogo senza dimensione Una delle parole-chiave ma anche più intraducibili nel paesaggio del pensiero heideggeriano è senz’altro Erörterung che, a differenza del verbo erörtern al quale Heidegger assegna i due significati per “indicare il luogo” e per “osservare il luogo”, rappresenta “una domanda” in quanto appartiene al pensiero dell’essere in cammino; Erörterung descrive in tutta la sua profondità (Abgrund) il luogo (Ort) del poetare di Georg Trakl che accoglie, non solo con la sua biografia, lo scandalo ma, in maniera molto più radicale, il suo essere deinon, volto alla repulsione delle convenzioni e di un sistema rispetto al quale si sente del tutto estraneo. Perché Heidegger prenda in considerazione un poeta minore e trasgressivo, che influenzera però anche Paul Celan, altro poeta determinante per il pensiero heideggeriano, non è facile dire. Senz’altro, una prima e più semplice ipotesi può riferirsi alla stessa biografia di Heidegger e alla sua forma di ribellismo nei confronti di regole e di valori dell’ambiente piccolo-borghese1da cui proviene e in cui vive. Trakl, poi, starebbe all’interno della filiera che ha il suo inizio in Hölderlin e arriva a Celan: pazzia, incesto e droghe, suicidio, ma soprattutto crucialità del senso di estraneità e dell’originarietà del dire poetico. Ma è forse l’ultimo aspetto quello che rende questi tre poeti decisivi per il pensatore Heidegger, perché in modi differenti hanno posto al centro del loro linguaggio il problema della ricerca dell’autentica essenza dell’essere dell’uomo. Il saggio del 1953 sull’opera poetica di Trakl intende descrivere il luogo, la Erörterung che lo assume nella sua “considerazione discorsiva”, Derrida dirà “situazione”2, come ciò che portando a sé “riunisce” e “custo 1 Si veda R. Safranski, Heidegger e il suo tempo. Una biografia filosofica, tr. it. di N. Curcio, Longanesi, Milano1996. 2 J. Derrida, La mano di Heidegger, tr. it. di G. Scibilia e G, Chiurazzi, intr. di M. Ferraris (A mano, troppo a mano), Laterza, Roma-Bari 1991, in particolare la p. disce”, lasciando essere autenticamente il dire poetico, che si manifesta come luogo del poetare (Gedicht), che pur rimanendo inespresso nella sua essenza, parla nel singolo componimento. Gedicht, l’essenza stessa della poesia (Dichtung), resta “nella sfera del non detto”; ciò significa che noi uomini non abbiamo la possibilità di ap-propriarci (erörtern) del suo luogo, se non osservando la filigrana dei componimenti (Dichtungen). L’Erörterung è il non-fondamento del luogo (Ort) del linguaggio poetico (Gedicht), quel poetare che solo attraverso la spiegazione della singola poesia può trovare la sua essenza; anche qui, Heidegger conferma che è necessario sempre prendere avvio dall’inautentico e dal territorio dominio della metafisica – in questo caso la “spiegazione” – se si vuole incominciare il sentiero verso l’autentico, il non-metafisico, privo di alcun fondamento, il non-metafisico, in quanto an-archico. E la Erörterung è quel “colloquio del pensiero con la poesia” che, evocando l’origine e l’essenza del linguaggio, dice ai mortali come autenticamente abitare e soggiornare; fornisce gli uomini di quel pensiero che è ascolto, rendendolo un próblema, ossia un’attività e non un essere ricettivo. Ma qual è il luogo della poesia di Trakl, l’unico e solo luogo del suo “poema” (Gedicht)3? Heidegger lo intravede in un verso: “È l’anima straniera sulla terra” (“Es ist die Seele ein Fremdes auf Erden”, Frühling der Seele – Primavera dell’anima)4; qui l’anima non va pensata come il soprasensibile platonico che ha nel corpo il suo carcere, o come l’elemento infinito e trascedente nel finito immanente, qui l’anima è “ein Fremdes”, “una cosa straniera”, e ancora non nel senso di uno dei molteplici casi di estraneità propri dell’uomo; per Heidegger – diversamente da quanto afferma Schmitt5 – “fremd” deriva dall’alto tedesco “fram” che significa ciò che non appartiene al familiare6, e che per questo suo essere straniero provoca in 65. Erörterung, se proprio ci si vuole arrischiare in una traduzione che è più una parafrasi, potrebbe essere pensata come una modalità non metafisica di indicare e considerare il luogo della meditazione (Besinnung) poetica. 3 Così traduce Caracciolo il termine Gedicht nell’edizione italiana di M. Heidegger, Il linguaggio nella poesia. Il luogo del poema di Georg Trakl, in Id., In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1984. 4 G. Trakl, Poesie, tr. it, intr. e note a cura di E. Pocar, Rizzoli, Milano 1974, pp. 104-107. 5 C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, tr. it. di P. Schiera, a cura di F. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna 1972, p. 108 e sgg. 6 Su queste tematiche ritorneremo in maniera dettagliata più avanti prendendo in considerazione M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, tr. it. di G. Masi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1979; Id., L’inno Der Ister di Hölderlin, tr. it. di C. Sandrin e U. Ugazio, Mursia, Milano 2003. quietudine negli Altri; “fremd” ha pure il significato di avviarsi verso un altro luogo, essere “in cammino verso” ciò che da sempre è riservato ai mortali, avanzare che non è un errare “senza destinazione (…) [ma] ciò che è straniero va cercando il luogo dove potrà restare come viandante”7. Lo straniero è chiamato sulla strada che lo porta nel luogo proprio, seguendo la voce che gli è stata disvelata; l’anima, in quanto qualcosa di straniero, “cerca la terra, non la fugge”, essa è nel suo cammino alla ricerca del suo farsi-di-casa sulla terra, perché l’uomo vi possa soggiornare; e in questo modo, “salvando la terra come terra”, l’anima si realizza nella sua essenza più autentica. E tuttavia, l’anima rimane “straniera sulla terra” in quanto è in cammino, cioè percorre il “tratto” che la conduce alla sua essenza. Soltanto attraversando il tratto estraneo e facendosi straniero è possibile pervenire al tratto proprio, al sentiero, che guida – come il timoniere governa la nave (kibernan, parola eraclitea) – verso la terra natia, verso ciò che vi è di familiare; soltanto nell’estraneità dell’essere straniero si ritrova il cammino verso l’essere-di-casa. Questo attraversare la terra degli Altri da parte dello Straniero avviene in un tempo specifico che è quello del tramonto, “il passo dello straniero procede nel crepuscolo” afferma Heidegger prendendo in considerazione alcune poesie di Trakl e in particolare Sebastian in sogno8; e due aspetti la Dämmerung intesa come il tramontare che scolora l’azzurro del fiume (elemento naturale fondamentale nel Gedicht di Hölderlin), come crepuscolo “spirituale”, unitamente al carattere del viandante, dello straniero-estraneo richiamano il dire nietzscheano: “quel che si può amare nell’uomo è che egli è un passaggio (transizione) e un tramonto”; nel capitolo Il viandante, Zarathustra ripensa al solitario peregrinare che lo ha segnato: “io sono un viandante e uno scalatore di montagne (…), non amo le pianure”; l’unica cosa che può ancora capitare a Zarathustra, non per caso ma perché è sua propria, è il peregrinare e l’ascendere e il suo se stesso “non fa che ritornare, che ritornare a casa”, quel se stesso che “fu a lungo in terra straniera”. Il tema della terra, ben presente sia in Heidegger che in Nietzsche, con tonalità e approcci filosofici differenti, ritorna non solo in Trakl ma anche in un autore quale Knut Hamsun che ne Il risveglio delle terra esprime tutto il profondo e atavico radicamento alla terra in contrapposizione al Nervenleben delle metropoli occidentali9; ma soprattutto oppone allo stile di vita ru 7 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, a cura di G. Pasqualotto, Rizzoli, Milano 1985. 8 G. Trakl, Sebastian in sogno, a cura di G. Forti, Adelphi, Milano 2014. 9 Si veda K. Hamsun, Il risveglio della terra, tr. it di L. Taroni, ELI, Cremona 1945; G. Simmel, Le metropoli e la vita spirituale, in T. Maldonado ( a cura di), Tecni rale legato al ciclo naturale delle stagioni e al lavoro della terra, il ritmo improduttivo e il tempo dell’economico della società borghese-capitalistica. La critica distruttiva della forma-vita della Città è sintetizzata nell’intellettuale straniero nella società metropolitana, caratterizzato da un ribellismo anarcoide del protagonista del romanzo Fame, in cui il rifiuto del vivere all’interno della società distopica dell’uomo contemporaneo nel suo vagare per Cristiania, in estrema povertà e nel rifiuto contemporaneo di ogni forma di ricchezza, lo conduce al confine dell’estraneità, dal quale può ritrarsi solo attraverso la poesia e l’arte, in cui può scorgere una via di salvezza10. La desertificazione (Verwüstung) della terra, ad opera della civilizzazione occidentale che porta alle estreme frontiere il progresso tecnologico, produce l’annicchilimento del paesaggio naturale e della sua forma-di-vita, la devastazione del rapporto essenziale che l’uomo ha con la terra. Di tutto questo parla anche Klages negli stessi anni in cui Hamsun scrive i propri romanzi e Mahler compone Das Lied von der Erde, legati come Spengler e Jünger, non solo alla crisi della civiltà moderna e alla centralità dell’elemento ctonio e del paesaggio naturale, al di là di ogni forma di neo romanticismo völkisch11, ma anche al personaggio del viandante12. La ricerca della terra aurorale nella quale l’uomo ha il suo radicamento e trova la sua essenza autentica, se in Klages si risolve in una sorta di Lebensphi ca e cultura. Il dibattito tedesco fra Bismarck e Weimar, Feltrinelli, Milano 1979. In una lettera che data Marburg, 19.II.28 inviata da Haidegger a Hannah Arendt il filosofoa scrive: “Cosa strana! – oppure no – durante le vacanze natalizie ho letto Un vagabondo. Hamsun è un filosofo, ma lo è senza che la sua arte ne risulti appensantita. E questa splendida vicinanza alla terra, al paesaggio, agli istinti, alle cose elementari – questa totalità ininterrotta della vita, che lui riesce sempre a rappresentare con tre frasi soltanto. Lo conosco ancora poco, perché soprattutto sono un lettore molto lento. Ma adesso mi sono ordinato L’estrema gioia e voglio godermelo durante le vacanze”, in H. Arendt, M. Heidegger, Lettere 1925-1975 e altre testimonianze, a cura di M. Bonola, Einaudi, Torino2000, p. 44, n. 39. 10 K. Hamsun, Fame, (Sult, 1890), tr. di C. Giannini, Mondadori, Milano 1988. Su K. Hamsun si veda, C. Magris, Fra le crepe dell’io: Knut Hamsun, in Id., L’anello di Clarisse, Einaudi, Torino 1999, pp.142-164. Secondo W., Benjamin, Avanguardia e rivoluzione, tr. it. di A. Marietti, intr. di C. Cases, Einaudi, Torino 1973, “I personaggi di Hamsun provengono dai fiordi – sono individui mossi dalla nostalgia dei troll”, p. 91 (citato da C. Magris). Si veda F. Rella, Limina, Feltrinelli, Milano 1994, in particolare il cap. 5 La città-museo dell’avanguardia. Aragon. 11 Cfr. Mosse, Le origini culturali del terzo Reich, tr. it. di F. Saba-Sardi, il Saggiatore, Milano 2003. 12 Cfr. F. Ferraris, L’anarca. La libertà del singolo tra anarchia e nichilismo, Mimesis, Milano-Udine 2014; F. Mora, Verso la libertà. Il Ribelle e il “passaggio al bosco”, in L. Iannone (a cura di), Ernst Jünger, Solfanelli, Chieti 2015, pp. 193-215. losophie dal sapore ecologistico – lo spirito (Geist) della civiltà contemporanea contro l’anima (Seele) che rappresenta l’originaria natura ctonia dell’uomo13 –, in Nietzsche il “senso della Terra” si può rinvenire nella figura dell’Übermensch; soltanto il rimanere “fedeli alla terra” da parte degli uomini, senza credere agli “avvelenatori” che predicano “speranze ultra- terrene” può evitare che l’ombra di Zarathustra, il suo fantasma (Klages parla di Phantomisierung, fantasmatizzazione) ricerchi, errabonda, la propria casa e chieda “dov’è la mia casa?”; l’ombra cerca un porto sicuro, stabilità e sicurezza, per evitare la condizione del viandante, straniero in ogni dove e solitario; essa impersona l’uomo della “vecchia Europa” che insterilisce la Terra: “il deserto cresce: guai a colui che cela deserti dentro di sé”14; al contrario l’unica patria (Heimat, ma pure casa, focoloare – heimsch) di Zarathustra è la solitudine, il suo essere viandante solitario: “O solitudine! Tu patria, mia, solitudine. Troppo a lungo ho vissuto selvatico in mezzo a contrade selvatiche e straniere”15, ossia nelle città dei mercanti, nelle società degli “ultimi umini”. Se si prescinde dall’ideale ascetico, l’uomo, l’animale uomo, non ha avuto sino ad oggi alcun senso, la sua esistenza sulla terra nessun fine: “a che scopo dunque l’uomo”? Era circondato da un enorme vuoto e non sapeva giustificare se stesso; soffriva ed era un animale malaticcio (valetudinario) che si chiedeva “a che scopo soffrire?”; l’assurdità della sofferenza, non la sofferenza in sé, è stata la maledizione dell’umanità sino a oggi. L’ideale ascetico conferì un senso all’umanità e così l’uomo fu salvato, ritrovò un senso, la sua volontà era salva; ma questa è una volontà del nulla, un’avversione alla vita; e tuttavia, “l’uomo preferisce ancora volere il nulla piuttosto che non volere”16. Il rovesciamento dell’utopia razionalistico-illuministica e quella delle “magnifiche sorti e progressive”17 porta a evidenza con Trakl la solitudine e l’isolamento (die Abgeschiedenheit), il perigrinare dello Straniero – che non è né quello del Sofista platonico, né quello esistenzialista di Camus – che indicano il suo essere “Der Abgeschiedene”, appartato e solitario, nel suo oscuro dipartire. L’Erörterung, il luogo del poema (Gedicht) di Trakl 13 L. Klages, L’uomo e la terra, a cura di L. Bonesio, intr. di M. Clerici, Mimesis, Milano 1998. 14 F. Nietzsche, Tra figlie del deserto, in Id., Così parlò Zarathustra, versione e appendici di M. Montinari, intr. di G. Colli, Adelphi, Milano 1979. 15 Id., Il ritorno a casa, ivi. 16 Id, Genealogia della morale, a cura di F. Masini, intr. di S. Moravia, Newton Compton, Roma 1977. 17 G. Leopardi, La ginestra, v.51, Id., Tutte le opere, a cura di F. Flora, Mondadori, Milano 1968. consiste, dunque, nella lettura che ne propone Heidegger, nel continuo dipartire, ossia nel non farsi-di-casa in nessun posto da parte dello Straniero, che è tale solo in quanto la sua essenza è l’essere in cammino; e tale continuo dipartire può essere pensato analogicamente vicino al Sein-zum-Tode. Decomposizione, dilacerazione della natura umana, termini che dividono “la stirpe in disfacimento” – gli Altri – dalla stirpe dello Straniero, la cui natura è “l’avanzare peregrinando”, tale irrimediabile separazione ha la sua origine in “das Geschlecht”. Sicuramente è Jaques Derrida l’autore che più si è impegnato nello studio del concetto di “Geschlecht”, in particolare con due saggi che partendo da Sein und Zeit giungono al saggio heideggeriano del 1953 su Trakl. L’intenzione di Derrida, che guida sia il contributo apparso nel 1983 nel “Cahier de l’Herme” come la conferenza tenuta a Chicago nel 198518, è quello di “situare Geschlecht nel cammino di pensiero di Heidegger”; si tratta di quella parola – che Derrida lascerà non tradotta – che ha più significati: sesso, razza, famiglia, generazione, lignaggio, stirpe, specie, genere. In nessun luogo Heidegger parla di sessualità, di “differenza sessuale”, anzi “il silenzio” su questo tema mostra che nella differenza tra uomo e donna “niente sia degno di domanda (fragwürdig)”; la differenza tra sessi non può essere paragonata alla differenza ontologica e il Dasein – nel corso di Marburgo Principi metafisici della logica19– viene caratterizzato come “neutro”, nel senso che la differenza sessuale non appartiene all’analitica del Dasein. E tuttavia, il Dasein, pur nella sua “neutralità”, “non è ‘indifferente’ alla propria essenza”, ma per Derrida questa “neutralità” è “neutralizzazione”: il Dasein non è nessuno dei due sessi, ed è, nel suo significato riservatogli dall’ontologia fondamentale, neutralità sessuale, assessualità, Geschlechtlosigkeit. Heidegger afferma: “per l’ente che costituisce il tema di questa analitica non si è scelto il titolo di ‘uomo’ (Mensch), ma il titolo neutro ‘das Dasein’”; il passaggio da Mensch, “o persino da Mann a Dasein” significa “passare dal maschile al neutro”. Se il Dasein non è l’essere umano – l’io, la coscienza, il soggetto, l’animal rationale – allora viene meno anche il problema della differenza sessuale, la quale diviene oggetto della psicologia, della biologia e della sociologia; il Dasein non appartennedo a nessuno dei due sessi, può tuttavia, secondo Derrida, avere ugualmente una “sessualità pre-differenziale, o piuttosto pre-duale: il che non vuol dire necessariamente unitaria, omogenea, indifferenziata”. Ma più avanti, trattando della Selbstheit, della ipseità del Dasein, del suo “es 18 J. Derrida, La mano di Heidegger, cit. 19 M. Heidegger, Principi metafisici della logica, (ss. !928), a cura di G. Moretto, il melangolo, Genova 1990. ser-sé”, Derrida ipotizza all’interno del pensiero di Heidegger un altro scenario: “se la ‘sessualità’ marcasse già la Selbstheit più originaria? (…) Se il Da del Dasein fosse già ‘sessuale’?”20. Per Heidegger la neutralizzazione non porta all’isolamento dell’individuo singolo, alla sua “insularità” (Isolierung), ma a un “isolamento metafisico dell’uomo”; ed è qui, secondo Derrida, che riemerge la questione della differenza sessuale, della separazione in uomo e donna (Geschlechtlichkeit), di una “disseminazione”21 che diviene “dispersione”; in questo senso, ciò che viene detto “neutralità ‘metafisica’” di un “uomo isolato in quanto Dasein”, è la sua disseminazione e dissociazione che lo rendono diviso e scisso nella dualità sessuale. All’origine, quindi, vi è una “disseminazione originaria” (Ursprüngliche Streuung), “che appartiene all’essere del Dasein ‘secondo il suo concetto metafisicamente neutro’”. La dispersione diviene “la struttura generale del Dasein”22 nella modalità dell’inautenticità che in Trakl diverrà “decomposizione” e “de-essenzializzazione” (Verwesung) dell’uomo diviso nel Geschlecht. Precedentemente Derrida – avendo presente il saggio heideggeriano su Trakl – aveva interpretato la differenza sessuale in quanto divisione che porta alla “negatività” e la “neutralizzazione” altro non sarebbe se non l’effetto di tale negatività; in questo senso, allora, “la binarietà sessuale sarebbe responsabile (…) di questa negativizzazione”23. Il filosofo francese ha presente una pagina in particolare dello scritto heideggeriano nella quale viene nominato “das Geschlecht” con tutti i suoi significati distinti “nella duplicità dei sessi”; l’uomo e la sua stirpe rappresentano per il poeta la decomposizione e il disfacimento poiché vivono “nella dilacerante discordia dei sessi”24. Non tanto la duplicità dei sessi quanto la loro discordia è il male che colpisce (Schlegen) l’umanità e la stirpe umana che divengono, per il poeta, gli Altri; per ritrovare l’autentica “impronta” e superare la frantumazione e la decadenza, l’uomo deve oltrepassare la discordia che vige nella dualità dei sessi per giungere a uno stato di “mitezza” che caratterizza la stirpe “straniera” e che segue, nel suo cammino, lo Straniero. Se gli Altri, che costituiscono la stirpe decaduta, vivono nella discordia della dualità dei sessi, con i loro tabù, le loro proibizioni e i 20 J. Derrida, La mano di Heidegger, cit., pp. 15-16. 21 J. Derrida, La disseminazione, tr. it. di S. Petrosino, M. Odorici, intr. di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1989. 22 J. Derrida, La mano di Heidegger, cit., p. 27. Si veda anche dello stesso autore, Psiché. Invenzioni dell’altro, vol. 2, tr. it. di R. Balzarotti, postfaz. di G. Dalmasso, Jaca Book, Milano 2009. 23 Ivi, p. 13 24 M. Heidegger, Il linguaggio nella poesia. Il luogo del poema di Georg Trakl, cit., p. 55. loro valori, la stirpe che riscopre la mitezza, liberandosi dalle catene imposte dagli Altri, si riconosce straniera e per questo si incammina con il Poeta-Straniero. L’estraneità propria di chi ambisce a una acquietata dualità del Geschlecht, fa degli altri uomini una stirpe malata e decaduta e, rovesciando le parti, è lo Straniero che chiama Altri i “discendenti della stirpe umana in disfacimento”, quelli che compongono la società contemporanea. Il “Menschgeschlecht” – il genere umano, la razza umana, la specie umana- che vive nella discordia della duplicità sessuale si propone come il fondamento dell’essere altro dell’uomo; al contrario e in opposizione, lo Straniero ha abbandonato la morale empirica degli idoli della società borghese, proprio come Trakl che per tutta la sua breve esistenza ha rifiutato le convenzioni con una tale violenza autodistruttiva che prende forma nel rapporto incestuoso con la sorella e nell’uso di droghe che lo porterà al suicidio. Il Gedicht di Trakl si configura, allora, come il non-principio, e an- archia, che si trasforma in una sessualità che è ricongiunzione, in una denegazione del Geschlecht in quanto dualità oppositiva; chi pone l’alterità uomo/donna, fratello/sorella, e ne conferma la differenza, appartiene al mondo decomposto degli Altri, a quella razza umana che vive nella Zivilisation. Non c’è Male o Bene per il poeta-straniero, ma solo la quiete e la liberta dell’an-archia, dell’assenza di fondamento e di logica. L’anarchia e la trasgressione del suo dire poetico che prendono forma nella figura del “non-nato” (Ungeboren) e del folle (der Wahnsinnig) si prendono cura della pace (Ruhe) dell’esser facnciullo del genere umano (ancora Geschlecht) che è da venire; che vive e pensa nell’irregolarità che non è irrazionalismo. Il dipartito (der Abgeschiedene), lo Straniero che muore, è esso stesso il folle e il non-nato, è Elis che nel suo peregrinare nel tramonto guida il genere umano “al mattino primordiale, al mattino più antico”, alla Erörterung quieta del Geschlecht. Se appaiono chiari i possibili colegamenti con lo Zarathustra nietzscheano, ancora più netto è il rimando alle figure-chiave del pensiero heideggeriano: se Trakl scrive: “lo spirito trasporta in terra straniera l’anima”, Heidegger nel corso del 1942 sull’Inno der Ister parlerà della necessità per l’uomo deinotaton di attraversare la terra ostile e a lui straniera per raggiungere “il tratto proprio”, la Mutter Erde che lo avvicina tenendolo distante dall’esser-di-casa. La posizione di aperta critica alla civiltà borghese occidentale da parte di Heidegger lo indirizza non tanto verso la poesia di Rilke25 quanto verso Trakl, perché come Heidegger, anche se con un dire e un agire differenti, 25 M. Heidegger, Perché i poeti, in Id., Sentieri interrotti, acura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968. esprime anch’egli tutta la possibile trasgressione verso questo mondo che sente estraneo e altro. Se lo straniero è colui che muore – e per Heidegger solo l’uomo muore – e morendo passa al mattino originario – l’altro inizio dei Beiträge – egli è l’estrema differenza, l’alterità essenziale rispetto agli Altri Uomini, e per questo egli è il non-nato, colui che non può esistere in questo mondo. L’assenza di qualsiasi fondamento si fa sempre più forte nell’autenticità dell’opposizione trasgressiva che si dà nel continuo peregrinare dell’anima straniera in una solitudine del sé che se per un verso evita il solipsismo dell’Unico, si differenzia pure dal Waldgänger jüngeriano come dal passeggiatore solitario di Walser26; al contrario lo Straniero di Trakl, senza principi e fondamenti – vero e proprio Ungrund – è l’immagine più vivida del mondo distopico che il poeta descrive. Tale situazione (così Derrida traduce Erörterung) distopica se da un lato porta all’estremo gli aforismi di Karl Kraus, al quale Trakl dedica una lirica particolarmente partecipata27, dall’altro l’immagine della barca dello Straniero che procede nel lago oppure quella che culla il fanciullo Elis, navigazioni del folle e del dipartito, e allo stesso tempo tutte maschere del poeta e del suo doppio, la sorella, richiamano senza dubbio il breve racconto di Kafka Il cacciatore Gracco28. Va anche sottolineato che questa distopia, lucidamente accettata, trova la sua espressione nel pensiero heideggeriano dell’Abgrund, del vortice abissale che afferra l’uomo e lo trascina nel vuoto della profondità, nella vertigine senza principio. L’assenza di fondamento del pensiero fa dell’uomo un ente non soltanto privo di ogni utopia e fede ma sprattutto tanto straniero ed estraneo quanto libero; e nel linguaggio poetico di Trakl prende forma, Heidegger dice “cor-risponde”29, in quell’essere in cammino dello Straniero, nel suo “viaggio che porta oltre e attraverso il lago notturno della notte spirituale”, poiché dice il distacco dalla zona della decomposizione e il pervenire nella chiarezza del mattino aurorale che apre a un 26 M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, tr. it. di L. Amoroso, postfaz. di R. Calasso, Adelphi, Milano 1979; E. Jünger, Trattato del ribelle, tr. it. di F. Bovoli, Adelphi, Milano 1990; R. Walser, La passeggiata, tr. it. di E. Castellani, Adelphi, Milano 2011; W.G. Sebald, Il passeggiatore solitario, tr. it. di A. Vigliani, Adelphi, Milano 2006. 27 G. Trakl, Karl Kraus, in Id., Poesie, tr.it., intr. e note a cura di E. Pocar, Rizzoli, Milano 1974; K. Kraus, Gli ultimi giorni dell’umanità, tr. it. a cura di E. Braun e M.Carpitella, postfaz. di R. Calasso, Id., Morale e criminalità, tr. it. a cura di B. Cetti Marinoni, intr. di C. Cases, Rizzoli, Milano 1976. 28 F. Kafka, Il cacciat ore gracco, in Id., Racconti, a cura di E. Pocar, postfaz. di P. Roth, Mondadori, Milano 2009. 29 M. Heidegger, Il linguaggio nella poesia. Il luogo del poema di Georg Trakl, cit., p. 74. quieto Geschlecht, ma che tuttavia non è ancora sorto. Allora, secondo Heidegger, è proprio nel Gedicht di Trakl, in questo linguaggio che “parla l’‘essere in cammino’ (das Unterwegs)”30. Lo Straniero attraversa la “terra” (Land), intesa come ciò che offre la possibilità dell’abitare31 nel farsi del crepuscolo; è la terra della sera, Abendland32, l’Occidente in quanto occasum, caduta (Verfallen)33. Questa terra del declino non è quella platonico- cristiana che s’identifica con l’Europa, bensì un Occidente più originario e antico; la Abgeschiedenheit, l’andarsene – che significa anche morire – è il lasciare l’Occidente europeo per quella terra che si occulta nel tramontare, nella “notte spirituale”: “la terra del tramonto è passaggio all’alba del mattino”, è il passaggio dal tramonto all’aurora e questa terra della sera dice la mitezza di un Geschlecht custodito da un’altra alba. Secondo la “lettura” che Heidegger fornisce dell’Opera di Trakl, sarebbe del tutto furviante pensare il poeta come il rappresentante “del declino e della rovina”; piuttosto, l’andare dello Straniero si fa più silenzioso e si inoltra “nella remota leggenda del bosco”, abbandonando la metropoli di pietra che sorge in pianura e avvicinandosi verso “il verde colle” dove “risuona il temporale di primavera”. Non siamo qui in presenza di una semplicistica posizione critica rispetto alla Kultur e alla Zivilisation contemporanee, legata agli ambienti più retrivi della società agraria borghese; la terra (Land) di cui scrive Trakl non corrisponde all’Heimat nazional-patriottica34, bensì è l’Erörterung, il luogo della collocazione della dipartenza dello Straniero e quindi del suo stesso poetare. Per queste ragioni, il dire poetico di Trakl non è storico (historisch), non appartiene a un determinato periodo della storia della letteratura intesa storiograficamente (Historie), ma è geschichtlich, in quanto mette in versi il destino, che è destinazione (Geschick, Bestimmung), dell’uomo. L’anima è straniera sulla terra poiché essa è unterwegs verso 30 G. Trakl, Strada facendo, in Id., Poesie, cit., p. 61. 31 Si veda M. Heidegger, Poeticamente abita l’uomo; Costruire abitare pensare, in Id., Saggi e discorsi, acura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976. 32 G.Trakl, Occidente. A Elsa Lasker-Schüler con venerazione, in Id. Poesie, cit., p. 103. Al propsito si veda la nota a pag. 161 di E. Pocar; U. Galimberti, Heidegger, Jaspers e il tramonto dell’occidente, Marietti, Torino 1975; R: Brague, Il futuro dell’occidente, tr. it. di A. Soldati, A. M. Lorusso, intr. di A. Gnoli e F. Volpi, Bompiani, Milano 2005; E. Jünger-C. Schmitt, Il nodo di Gordio. Dialogo su Oriente e Occidente nella storia del mondo, tr. it. di G. Panzieri, intr. di C. Galli, il Mulino, Bologna 1987. 33 G. Trakl, Declino, in Id. Poesie, cit., p. 49. “È lecito pensare che Martin Heidegger abbia visto bene quando affermò che l’intero canzoniere di Trakl è un’unica poesia”, E. Pocar, nota, a Declino, p. 152. 34 G.L. Mosse, Le origini culturali del terzo Reich, cit., pp. 25-49. l’antico Occidente dove la stirpe umana vive nell’unità pacificata dei sessi (Geschlecht). La differenza sessuale è come un’aggiunta nell’interpretazione heideggeriana del termine polisemico Geschlecht che si relaziona con il termine “Schlag”: coloro che seguono nel suo peregrinare lo Straniero si sono lasciati alle spalle “la stirpe (Schlag) della forma decomposta degli uomini”35, che sono gli Altri (die Andere). Il capovolgimento è netto: l’alterità è la convenzione e la legge, la società, i suoi ritmi e i suoi valori. Vi è dunque una stretta relazione tra Geschlecht e Schlag, termini entrambi polisemici, assimilabili solo nella lingua tedesca e appartenenti unicamente “a partire da questa ‘Sprache’”36. Allo stesso modo Dichten e Denken, “opere della mano esposte agli stessi pericoli dell’artigianato (Hand-Werk)”, poetare e pensare37 sopravvanzano la riflessione della filosofia, ossia della metafisica e del pensiero calcolante; se il Gedicht è l’Erörterung, la situazione e la condizione delle poesie di Trakl, nella Dichtung noi rinveniamo l’Erläuterung, la elucidazione; tra i due termini Heidegger vede una rapporto di reciprocità (Wechselbezug) e Derrida si chiede “questo Wechselbezug coincide forse con ciò che si chiama circolo ermeneutico?”38. 2. Un passo indietro In questa meditazione heideggeriana sull’opera poetica di Trakl si può rinvenire la possibile indicazione per una differente modalità di pensare che, distaccandosi una volta per tutte dalla matrice del pensiero calcolante, abbandona ogni certezza e ogni sicurezza, fa a meno – cioè diventa povero – di ogni tipologia di fondamento e/o principio. L’essenza (Wesung) di un siffatto pensiero an-archico, ossia senza alcun fondamento né logico né ontologico, risiede in una particolare modalità d’essere: la povertà (die Ar 35 “Der Schlag der verwesten Gestalt des Menschen”; la parola Gestalt, forma, viene inglobata in quella di Schlag. Si veda J. Derrida, La mano di Heidegger, cit., p. 66. 36 Si veda sul problema della lingua centrale in J. Derrida, Il monolinguismo dell’altro, tr. it. di G. Berto, Cortina Editore, Milano 2004; Id., Abramo, l’altro, tr. it. di T. Silla, intr. di G. Leghissa e T. Silla, Cronopio, Napoli 2005. Sull’argomento mi permetto di rinviare a F. Mora, L’Altro e il suo doppio, in “Phasis. European Journal of Philosophy”, Frontières de l’identité. Languages et Altérité, Inschibboleth éditions, 2016, n° 4, pp. 101-119. 37 Cfr., M. Heidegger, Pensiero e poesia, a cura di A. Rigobello, Armando editore, Roma 1977; si veda anche Introduzione alla filosofia. Pensare e poetare (WS 1944/45; corso sospeso per intervento del partito nazista dopo due ore di lezione), a cura di V. Cicero, Bompiani, Milano 2009. 38 J. Derrida, La mano di Heidegger, cit., p. 74. mut), l’essenza (Wesen) medesima dell’Essere (Seyn), la condizione/situazione (Erörterung) in quanto località (Ort-schaft) che è il luogo (Ort) dell’Aperto39, una prima immagine di ciò che poi Heidegger nominerà con il termine Lichtung, la radura che permette il rischiarare della luce40 nel luogo del Semplice (Leicht); dove cade la luce, lì si cela l’Essere, la radura in cui la semplicità – l’assenza di fondamento – si manifesta come povertà, la dimensione originaria, ma non principiale (archetipica), che fa essere gli enti quali essi sono. La Zerströrung – termine lukácsiano ma qui con valenza invertita – del fondamento, la sua Verweigerung, il rifiuto che ricusa, denegazione, vengono messe in atto, nel senso di energheia in quanto essere-all’opera (am- Werke-sein)41, dalla povertà. Almeno due sono ora le questioni che si pongono: giustificare il fatto che pensare senza fondamenti non significa irrazionalismo; comprendere cosa Heidegger intenda per povertà. Se la prima è di più facile soluzione potendo fare riferimento a ciò che Heidegger scrive nella Lettera sull’“umanismo” e nel corso del semestre invernale 1955/56 sul principio di ragione42, la questione della povertà risulta senz’altro più complessa, infatti, essa solca in maniera intermittente e a volte carsica il pensiero heideggeriano, coinvolgendo ambiti problematici solo apparentemente differenti. Fin dal Kriegnotsemester del 1919, Heidegger pone un’interrogazione che ritiene tanto originaria quanto essenziale nella sua “miseria”, espressa nella formula “es gibt…?”, “c’è qualcosa …?”, domanda che richiama la una più rigorosa definizione metafisica dell’incipit dell’Introduzione alla metafisica (1935) “Perché vi è, in generale, l’essente e non il nulla”. Gia con l’interrogazione 39 R.M. Rilke, Elegie duinesi, tr. it. di E. e I. De Portu, intr. di A. Destro, Einaudi, Torino 1978, in particolare l’Ottava elegia; M. Heidegger, Perché i poeti?, in Id., Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, in particolare sulla figura dell’“aperto” (“das Offene”) le pp. 261-266; Id., L’inno Der Ister…, cit., pp. 83-84; G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 60-65. 40 Sulla figura della “Lichtung” si veda M. Heidegger, Tempo ed essere, a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli 1987, p. 178 e p. 181; Id., Lettera sull’“umanismo”, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1995, pp. 46-58. F. Duque, La filosofia non lascia indifferenti. Gli “umori” del pastore nel pensiero di Heidegger, tr. it. di A. Pini, a cura di P. Cipolletta, Mimesis, Milano-Udine 2009, pp. 54-55. 41 M. Heidegger, Aristotele Metafisica Theta 1-3. Sull’essenza e la realtà della forza, tr. it. di U. Ugazio, Mursia, Milano 1992. 42 Si veda anche M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, tr. it. di U. Ugazio e G. Vattimo, prefaz. Di G. Vattimo, Sugarco, Carnago -Varese 1996; Id., Il principio di ragione, cit. p. 94. “es gibt?” dell’inizio filosofico heideggeriano, è chiara la meditazione sulla povertà (Kümmerlichkeit), il luogo in cui l’uomo può soggiornare autenticamente; e già qui povertà significa “fare a meno”, fare a meno dell’apparato metafisico che ha organizzato la vita dell’uomo in quanto animal rationale, fare a meno dell’utilizzabilità (Zuhandenheit) degli enti calcolati in quanto mezzi (Zeugen) per…L’uomo ha dimenticato e rinnegato la propria origine e ha ceduto “a un’inveterata abitudine del pensiero”, non ha avuto la forza di “seguire il semplice senso della domanda: ‘c’è qualcosa?’”. Il rinnegare la propria essenza, ossia la povertà, l’essenziale e autentico “fare a meno”, significa affermare il dominio della ratio sugli essenti, compreso l’uomo vivente dotato di ragione, ossia di calcolo per il proprio utile; significa che questi evita l’imbarazzante domanda e l’Erörterung da cui proviene, il proton othen dei Greci. La domanda originaria che dice la povertà fa giungere il pensiero al “crocevia metodologico che decide in generale sulla vita e sulla morte della filosofia”, ossia sul fondamento (Grund) o il non-fondamento in quanto abisso in-fondato (Ungrund che è Abgrund)43 dell’Essere; l’essenza della povertà, allora, non appartiene all’uomo in quanto scelta ribellistica o pauperistica di vita, di contro al dominio incontrastato del denaro, ma denota la possibilità dell’autentico Dasein dell’uomo. Ciò trova convalida nel corso del semestre invernale del 1929/30, in cui Heidegger mette a fuoco le tre tesi fondamentali della metafisica, circa la questione dell’animalitas; va sottolineato che le tre tesi (la pietra è senza mondo, l’animale è povero di mondo, l’uomo è formatore di mondo) sono tesi proprie della speculazione metafisica e non prodotte dal pensiero heideggeriano il quale, indicando la gradualità degli enti – dal non vivente al vivente – descrive il metodo caratteristico della metafisica; dove c’è gradazione e misurazione lì c’è riflessione metafisica. La povertà di mondo dell’animale non può corrispondere alla povertà dell’ek-sistere umano, ma segnala soltanto una differente accessibilità al mondo; Heidegger intende mostrare come la metafisica, che pone tale precisa gradualità tra gli enti, pensi “l’uomo a partire dall’animalitas e non pensa in direzione della sua humanitas”44, e quando ci si trova in presenza di una sequenza graduata allora siamo all’interno del pensiero metafisico. Povertà non significa un “meno” rispetto a un “più”, non è il contrario di ricchezza e opulenza, coè non indica una differenza di grado rispetto ai “livelli di perfezione nel possesso dell’ente”; povero e povertà non indicano uno stato di indigenza o di minorità, essere povero non è uno stato, ma un com 43 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit.,, p. 15. 44 M. Heidegger, Lettera sull’“umanismo”, cit., p. 46. portamento, una modalità d’essere (Seinsmodus), che corrispone a “fare a meno” (Entbehren); il senso auntentico della povertà è un fare a meno, che non può identificarsi né con una rinuncia al mondo né alla decisione per l’isolamento e il solipsismo, al modo del vecchio santo eremita che Zarathustra incontra scendendo verso la città e che ancora ignora la notizia che Dio è morto. Ma fare a meno significa un sentirsi povero (armutig); l’assenza di fondamento, di qualsivoglia principio, l’an-archia del pensiero e del Dasein dicono l’estrema ed essenziale povertà che fa tutt’uno con l’autentico senso della libertà, e questo abisso senza fondo (Abgrund), che dà la vertigine, si manifesta storicamente (geschichtlich) quando ormai tutto è perduto e la catastrofe – l’Umkehr o Umkehrung come traduce Hölderlin nella sua opera sul tragico45 – si è compiuta: la Germania hitleriana è per sempre finita. L’ultima lezione che Heidegger tiene46 è una meditazione (Besinnung) su una frase di Hölderlin: “Da noi tutto si concentra sullo spirituale, siamo divenuti poveri, per divenire ricchi”, che pensa l’oscurità, l’occulto della storia dell’Occidente e lo spirituale come illuminazione sulla saggezza che nel suo operare possiede una connotazione magica47. La dimensione dello spirito e della povertà si saldano in un unicum che tiene assieme il “noi”, il popolo tedesco nel suo Volksgeist48; qui però povertà non è soltanto un fare a meno o un mancare del necessario (das Nötigen) – inteso come fondamento metafisico – in quanto la sua essenza non è una negazione ma si fonda essa stessa sull’Essere (Seyn) senza fondamento, Abgrund, e senza arche. Se povertà vuol dire fare a meno di ciò che dal pensiero occidentale è detto il Necessario, lo spirituale in quanto essere-povero è non fare a meno di nulla, ossia dell’Essere infondato, “salvo che del non-Necessaio”, ossia il fondamento e la ragione della speculazione metafisica. Il Necessario metafisico, il fondamento, diviene così “il Superfluo” e il fare a meno di esso, il non possedere alcun fondamento, fa dell’uomo storico l’autenticamente povero che, tuttavia, il possesso del non-necessaio, il non sapere del fonda 45 F. Hölderlin, Sul tragico, tr. it. di G. Pasquinelli e R. Bodei, a cura di R. Bodei, Feltrinelli, Milano 1994. 46 M. Heidegger, La povertà (Die Armut, hrsg. von F.W. v. Herrmann), tr. it. di A. Ardovino, intr. di M. Dolcetta, in “MicroMega”, 3/2006, pp. 109-118. Questa è l’ultima lezione tenuta da Heidegger il 27 giugno 1945 nel castello di Wildstein, posto sulle colline del Giura svevo che dominano il Danubio, l’Ister di Hölderlin; dal marzo sotto l’avanzare delle truppe francesi la Facoltà di Filosofia dell’Università di Friburgo si era trasferita nel Burg non lontano dalla natia Meßkirch. 47 G. Galli, Hitler e il nazismo magico, Rizzoli, Milano 2005. 48 J.G. Fichte, Discorsi alla nazione tedesca, a cura di G. Rametta, Laterza, Bari-Roma 2003, in particolare, Ottavo discorso, pp.110-126. mento lo fa ricco. L’an-archia della povertà e dello spirituale consiste nel “non poter essere senza il non-Necessario”, ciò che non è il superfluo, il non poter esistere senza il Seyn in quanto Abgrund in-fondato. La decostruzione della ratio e del logos49 in quanto fondamento (nihil est sine ratione) è portata a compimento dall’inversione di senso che afferma il possesso del non-Necessario, ossia la dimensione an-archica della povertà e dell’essere povero, di contro al possesso del Superfluo, quel Necessario metafisico che prende forma di ratio e fondamento, proprio delle ricchezze e dell’essere ricco. È questa l’essenza del pensiero anarchico heideggeriano: la povertà, che innerva e si coniuga con lo spirituale proprio del popolo non potrebbe essere senza l’Essere del non-Necessario (das Unnottige), senza l’essere privo di fondamento; in questa dimensione di alterità essenziale rispetto alle certezze della filosofia in quanto metafisica, ontologia e logica, nell’anarchia cioè dell’essere povero e dell’essere tout-court risiede l’autentica essenza della libertà. In un’Europa che è un cumulo di macerie fumanti, Heidegger si volge, quasi a non voler prendere atto, allo spirituale che lscia essere l’evento (Ereignis) dell’essere povero, evenienza non dell’Historie ma del destino (Geschick); sull’essenza della povertà viene accordata l’essenza dell’uomo e “la povertà è la tonalità fondamentale dell’essenza ancora nascosta dei popoli occidentali e del loro destino”. Soltanto in una Rückkehr verso l’originaria e infondata spiritualità occidentale che si dà come povertà – fare a meno del superfluo ed entrare in possesso del non necessario – il popolo tedesco, nell’ora della tragedia e della disperazione, può avviarsi nel sentiero che conduce alla terra natia (Heimat) e ritrovare la direzione che indica il farsi-di-casa; appello, a dire il vero, che lascia ancora più perplesso l’interprete, ma che tuttavia rispecchia “l’ora senza voce” che la Germania sta vivendo. Senza comando, senza potere, senza autorità, senza dominio, nessun fondamento può esprimere la sua forza, nessun principio può rifondare l’Europa ormai preda dell’americanismo e del socialismo reale sovietico. Soltanto una meditazione intorno all’originario infondato, all’Essere in quanto abisso senza fondo, all’an-archia, che non è né erramento né nichilismo50, ma unicamente ritrazione e assenza, può salvare l’uomo dal Necessario in quanto Superfluo. 49 Si veda M. Heidegger, Logos (Eraclito, frammento50), in Id., Saggi e discorsi, cit., pp. 141-157. 50 Sulla figura dell’“erramento” si veda M. Heidegger, Il detto di Anassimandro, in Id., Sentieri interrotti, pp. 314-15, come “occultamento” M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., pp.110-11, V. Vitiello, Heidegger il nulla e la fondazione della stori 3. L’uomo è l’ente più inquietante Lo straniero di Trakl è l’uomo greco del primo Coro dell’Antigone, quel to deinoteron, che Heidegger traduce, fin dall’Introduzione alla metafisica, con “ciò che vi è di più inquietante (das Unheimlichste)51. Das Unheimliche dice la parola essenziale per l’uomo: essere l’inquietante; Hölderlin, che pubblica la sua traduzione dell’Antigone nel 1804, traduce deinon con “immane” e precedentemente, nel 1801, l’aveva tradotto con “violento”; deinon, ci dice Heidegger, dapprima seguendo il lessico comune, significa “terribile”, “spaventoso”, ma ne specifica subito il senso: l’imporsi in modo predominante (überwältigendes Walten) con la violenza, senza la quale non vi è alcuna possibile modalità di imposizione; ma deinon significa anche essere violento (gewalt-tätig) nel senso di “esercitare la violenza” e tale esercizio, ossia “l’uso della violenza è il carattere fondamentale non solo del suo agire, ma del suo stesso essere”52. In questo senso allora,violenza (Gewalt-tätigkeit) non ha il significato comune di “brutalità e arbitrio”, in virtù dei quali viene considerata dalle convenzioni e dalle leggi della societas civilis unicamente come “perturbamento e violazione”; scrivendo Gevalt-tätigkeit, Heidegger mette in chiaro che la violenza (Gewalttätigkeit) va intesa anche come potere e dominio (Gewalt), e l’uomo “è to deinotaton, il più violento”, poiché il suo agire violento e il suo essere violento avvengono all’interno del deinon inteso come il predominante (das Überwältigende), ossia la totalità degli enti, “l’essente nella sua totalità”. È ovvio che tutto cio provoca l’autentica angoscia e il timore panico oltre quello reverenziale; quindi, l’uomo esercita la violenza sul predominante, ossia sulla totalità degli enti e per tale ragione viene considerato come to deinoteron, il più “violento” in quanto il più “inquietante”. Heidegger pensa l’in-quietante (das Un-heimliche) come colui che toglie tranquillità, che estromette l’uomo dal suo pacifico essere di casa dappertutto, lo “estromette dalla ‘tranquillità’, ovverosia dal nostro elemento abituale, cità, Argalia, Urbino 1976, pp. 119-132-145; E. Jünger-M. Heidegger, Oltre la linea, tr. it. di A. La Rocca e F. Volpi, intr. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1989. Diversamente intende P. Trawny, Fuga dall’erramento.l’an-archia di Heidegger, in Id. Saggi su Heidegger, a cura di G.J. Giubilato, ETS, Pisa 2017, con il quale non condividiamo le tesi enunciate né riguardo l’erramento né tantomeno riguardo l’an-archia, termine che usiamo anche noi ma in un senso totalmente altro, ossia come la possibilità di un pensiero senza fondamento e di un essere fondante ma non fondato, che ponga fine alla volontà di potenza e al nichilismo della ratio. 51 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 157. 52 Ivi, p. 158. dal familiare, dalla sicurezza inconcussa”53. In questo modo, l’Unheimliche diviene das Unheimische, ciò che non è familiare, ciò che non è di casa, colui che sradica l’uomo dalla sua certezza e sicurezza, strappandolo con violenza dal suo “elemento naturale” che si è costruito all’interno delle mura della Città. L’uomo diviene ciò che vi è di più inquietante se riesce a liberarsi dai vincoli e dai limiti imposti dalla sicurezza familiare, che potremmo chiamare anche comunitaria, quando usando violenza trasgredisce le leggi e i valori della comunità, ponendo nell’agire violento (Gewalt- tätigkeit) la sua esenza, ossia il suo essere inquientante in quanto predominante. L’essere to deinotaton dell’uomo non è una qualità che si aggiunge ad altre, bensì Heidegger ci dice che “essere ciò che vi è di più inquietante costituisce il carattere fondamentale dell’essenza umana”, ma questa, non manca di sottolineare, è “la definizione propriamente greca dell’uomo”. Prima di continuare l’analisi del deinon contenuta nell’Introduzione alla metafisica, è utile ricercare alcuni addentellati che possono far luce sull’essenza in-quieta e violenta dell’uomo che si coniuga con la trasgressione e l’estraneità di chi non è di casa. Interessante è dare uno sguardo al commento heideggeriano alla prima e alla seconda lettera ai Tessalonicesi di Paolo contenuto nella seconda parte del corso del semestre invernale 1920/21 che titola Introduzione alla fenomenologia della religione54. I Tessalonicesi “sono divenuti” (das Gewordensein, genesthai), hanno mutato la loro essenza, volgendosi – nell’accogliere (dechestai) la parola dell’apostolo – a una nuova nascita e a una nuova forma di vita che corrisponde alla fatticità, il cui sapere si è distaccato dal sapere teoretico della filosofia, ma sorge altresì “dal contesto della situazione dell’esperienza cristiana della vita”. L’avere il sapere di “essere divenuti” affida ai Tessalonicesi un compito particolare: quello di esperire originariamente la vita fattiva del cristianesimo separandola definitivamente dal sapere umano. La nuova nascita, l’“essere divenuti” in quanto l’ “essere attuale” dei Tessalonicesi, non avviene per l’acquisizione di un sapere che dà certezze e stabili fondamenti ma soltanto in virtù del parola di Paolo; i Tessalonicesi hanno accolto il come della vita fattiva del protocristianesimo, il “come del com-portarsi” che si evidenzia in un volgersi- verso (Hinwendung) Dio e contemporaneamente un volgersi-via (Wegwendung) dagli dèi. Questa “inversione assoluta”, come la definisce Heidegger, indica “un nuovo divenire” dei Tessalonicesi, caratterizzato 53 Ivi, p.159. 54 M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, tr. it. di G. Gurisatti, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2003, pp. 126-167. dall’angustia che guida anche Paolo, perché è l’angustia del cristiano, la cura che l’apostolo sente per la sua vocazione “nel tempo della fine”, la parousia, che non può essere pre-vista né collocata in un tempo “obiettivo” e neppure nel tempo della “‘vita effettiva’ nel senso decadente, monotono, non cristiano”; solo il sapere acquisito con l’“essere divenuti”, altro per essenza, da “pace e sicurezza”55 e da “coloro che in questo mondo trovano pace e sicurezza”, cioè da coloro che “si attaccano al mondo” in virtù di un sapere fondato e fondante può far autenticamente attendere la seconda venuta di Cristo nel giorno del Giudizio, poiché si è volto verso abbandonando contemporaneamente gli idoli. Vicevera, coloro – gli Altri – che si chiedono “quando”, “un’improvvisa rovina li sorprende (…). Essi sono colti di sorpresa” dalla rovina poiché la loro vita si consuma nell’attesa, “non possono salvare se stessi perché non hanno se stessi, perché hanno dimenticato il proprio sé”56. E si sono decisi per l’Anticristo57. Qui, per Paolo, i non cristiani, coloro i quali consumano nell’attesa la propria vita, non sanno che il Signore verrà come un ladro di notte; appartengono a quella stirpe che offre lo spettacolo del disfacimento e della decomposizione, del sapere della decadenza (Verfallen), sono cioè gli Altri. All’opposto in Nietzsche, gli Altri sono proprio coloro che si sono imposti con gli ideali ascetici, sui forti e i sani, loro deboli e malati. E per Trakl, il trasgressore anarchico, gli Altri sono i borghesi con i loro valori e con il loro denaro. Tutti, da una parte o dall’altra individuano l’Altro, il differente, l’alienato, l’uomo che si è perduto all’interno della società, che ha ceduto tutti i suoi poteri per vivere in sicurezza e pace58. Da una parte, dunque, l’uomo come l’essere più inquietante, dall’altra l’uomo zoon politikon e zoon logon echon, l’uomo massificato e a una dimensione della contemporaneità, che con il sé ha perso la dimensione dei bisogni e la cognizione del dolore e del piacere. Questo tipo di uomo che ha la sua essenza sul fondamento razionale è considerato dall’uomo deinon colui che gli si oppone come l’Altro; l’in-quietante (das Un-heimliche) è colui che sradica l’uomo dalla “tranquillità” quotidiana, dalla sicurezza dell’essere nel familiare, colui che è “insolito, non familiare (das Unheimische)” non permette all’uomo di permanere nel suo elemento che è “pace e sicurezza”, e in ciò consi 55 Ivi, p. 144. 56 Ibidem. 57 F. Dostoevskij, Il grande inquisitore, in Id., I fratelli Karamazov, tr. it. A. Villa, Einaudi, Torino 2005; V. Soleviev, I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo, tr. it. di G. Faccioli, intr. di G. Riconda, Marietti, Genova-Milano 1996. 58 Th. Hobbes, Leviatano, tr. it. e note a cura di G. Micheli, La nuova Italia, Firenze 1976. ste il suo essere pre-dominante ossia violento; ma tuttavia, gli Altri, la Menschenheit59, la comunità degli uomini, la polis inquanto koinonia politike, sviluppa un organo di difesa – come afferma Simmel nel suo esemplare saggio sulle metropoli – che è l’intelletto, lo zoon politikon diviene zoon logon echon; la ratio, l’intelletto – che ha nella economia monetaria la sua forma di tranquillizzazione e livellamento essenziali – costituisco un involucro protettivo per l’uomo comunitario. Il deinotaton, “fuoriesce, sfugge da quei limiti”, esercitando la violenza e “trasgredisce i limiti del familiare”, della legge. Così egli diviene il predominante, ma proprio per questo è cacciato da ogni contrada, “vien gettato fuori da ogni strada”60; il suo essere il più inquietante non è dato solo perché esperisce la totalità degli essenti attraverso l’inquietudine; né soltanto per il fatto che “in quanto violenta”, si pone fuori dalla comunità, ma per Heidegger dell’Einleitung, egli diviene to deinotaton, “in quanto viene estromesso da ogni rapporto con la quiete del consueto, e l’athe, la rovina, la sciagura, incombono su di lui”. L’uomo inquietante è dunque colui che esercita la violenza in quanto tale (als Gewalt-tätige)61, senza legge e senza casa, privo di qualsiasi istituzione e limiti, senza alcun fondamento, an-archico; e tuttavia, proprio per questa sua condizione egli è il predominante, colui che è nella sua lontananza ed estraneità il più vicino alla terra natia e all’esser-di-casa. Soltanto chi non è in patria (Heimat) può farvi ritorno (Heimkunft), soltanto chi è straniero ed estraneo può farsi-di-casa nel “tratto” proprio; l’essere-inquietante – das Unheimliche – è l’essere spaesato – das Unheimische – il deinoteron dell’Antigone, lo Straniero del Gedicht di Trakl, la poesia di Hölderlin e Celan, che vanno nella direzione opposta a quella dell’animale razionale e alla sua logica, proprio come i fiumi che affrettandosi verso il mare non seguono il cammino dell’uomo, ma uno proprio62. Si sta trattando qui non di un carattere emotivo o psicologico dell’uomo, come può es 59 J. Derrida, La mano di Heidegger, cit., pp. 35-37. 60 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 159. 61 W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Id., Angelus Novus, tr. it. e intr. a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1976. 62 “Anche senza preoccuparsi della nostra saggezza, / i fiumi scrosciano, e chi tuttavia / non li ama? E mi toccano sempre / il cuore quando li sento di lontano, i dileguanti, / i colmi di presagio, affrettarsi verso il mare, / seguendo non il mio cammino, ma uno più sicuro”; si veda F. Hölderlin, Voce di popolo, (Stimme des Volks), in Id., Le liriche, tr. it. a cura di E. Mandruzzato, Adelphi, Milano 1993. La traduzione riportata si trova in M. Heidegger, L’inno Der Ister di Hölderlin, cit., p. 15. sere il “perturbante” (unheimlich) in Freud63 ma dell’essenza stessa dell’uomo, il suo “farsi-di-casa” e il suo essere- spaesato; l’uomo storico dell’Occidente ha la sua storicità nel “farsi-di”, ossia nel Werden, che appartiene essenzialmente al suo “essere”. Infatti il Coro dell’Antigone, per Heidegger, “dice esclusivamente dell’uomo”64, la cui essenza consiste nell’essere il più inquietante e ciò significa che solo l’uomo può essere detto l’“inquietante”; questo non è un stato, ma una condizione, vi è cioè una “connessione”, un “intimo rapporto” tra l’uomo di Sofocle in quanto deinoteron e il “farsi-di-casa” dello spaesato, l’Unheimisches, di Hölderlin, vi è cioè una relazione d’essenza, che riguarda soltanto l’uomo, tra unheimisch e unheimlich, tra spaesato e inquietante. E tuttavia65, colui che viene chiamato l’inquietante dev’essere inteso come colui che “non è a casa”, che non appartiene alla casa; estraneo e straniero incute angoscia e paura; così Heidegger può dire “la parola di Sofocle, dicendo che l’uomo è l’essenza più inquietante, dice allora che l’uomo in un unico senso non è di casa e che il farsi-di-casa è la sua cura”66. Esperire la lontananza dalla terra natia, inquietante e spaesato, non definisce il tratto negativo dell’uomo, poiché il suo non è “un mero errare”67 senza pa 63 S. Freud, Il perturbante, (1919), tr. it. di S. Daniele, in Id., Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino 1969, vol. 1, pp. 269-307. S. Borutti, Ontologia dell’incompiutezza. L’antropologia incontra la filosofia, in F. Mora (a cura di), Metamorfosi dell’umano, Mimesis, Milano-Udine 2015, pp. 105-120. 64 Riguardo al Geschlecht e al saggio di Heidegger su Trakl, ma potremmo dire in un ambito più vasto di riflessione, Derrida afferma: “perché qui si tratta nientemeno, per così dire, che del problema dell’uomo, dell’umanità dell’uomo e dell’umanismo, ma in un luogo in cui la lingua non si lascia più cancellare”, La mano di Heidegger, cit., p. 35 e citando Fichte, sottolinea la differenza tra Menschlichkeit e Humanität, cioè tra lemmi di origine tedesca, la lingua dell’origine, e altri di origine latina 65 “Und dennoch!” Derrida scrive non senza un pizzico di ironia divertita: “Heidegger usa più spesso di quanto non si creda questo giro retorico: e tuttavia! Punto esclamativo, a capo”, “Geschlecht”…, cit., pp. 6-7. 66 M. Heidegger, L’inno Der Ister…, cit., p. 66. 67 Contrariamente a quanto sostiene P. Trawny, Fuga dell’erramento, in Id. Saggi su Heidegger, cit. Si veda M. Heidegger, Dell’essenza della verità, (1930), in Id., Segnavia, a cura di F. Volpi, in particolare il paragro 7. La non-verità come erranza; “L’irrequietezza dell’uomo, che lo spinge ad allontanarsi dal mistero per volgersi alla realtà praticabile, e che lo fa passare via via da un oggetto all’altro della realtà corrente, senza accorgersi del mistero, è l’errare (Irren)”, p. 151. L’errore (Irrtum) di Trawny consiste nell’indistinzione dell’errare (Irren) inteso come un perdersi dell’uomo, come una sua condizione psicologica e morale. La sua risulta, contro Heidegger, una lettura esistenzialistica. tria e senza casa, non è Heimatlos; l’uomo di Heidegger, che è quello di Sofocle e di Hölderlin, non è l’ “avventuriero” che si sposta per terra e per mare per realizzare i propri scopi; egli è in possesso di una sede propria, ma “non ha casa perché non ha suolo”68; al contrario, il deinon, il das Unheimliche (l’inquietante) che è essenzialmente das Unheimische (lo spaesato), nel suo essere in cammino cerca l’essere-di-casa in modo violento e inconsueto: “se l’uomo spaesato fosse soltanto un avventuriero [colui che esercita un mero errare, ndr], allora egli non potrebbe neanche essere deinos” Ciò che distingue l’avventuriero – l’uomo contemporaneo – dal deinoteros consiste nel fatto che se il primo ha una sede ma non è di casa, ossia vive nella più assoluta Heimatlosigkeit, la mancanza di patria, il secondo è il più inquietante poiché essendo la sua essenza l’esser-di-casa, non è ancora riuscito a trovare il sentiero che lo conduca a questa essezialità: “chi è davvero spaesato si riferisce a ciò-che-è-di-casa e ad esso soltanto, nel modo però del non raggiungimento”69. È questo l’autentico erramento che non fa cadere nell’errore, in quanto la non finalizzazione, il non pervenire alla meta per poi porne un’altra più avanzata, supera (Verwindung) la teleologia della filosofia metafisica, come l’idea di progresso dell’epoca della tecnica e della mobilitazione totale. L’uomo spesato è colui che ha rinunciato a pace e sicurezza, a ciò che è di casa e questo rinunciare è un “fare a meno”, un divenire poveri per divenire ricchi; questo “rinunciare è il modo in cui chi è spaesato possiede ciò-che-è-di-casa” o, se sivuole, ciò-che-è-di-casa si prende cura di chi è spaesato. E tuttavia, l’uomo che abita l’Occidente è l’uomo del cosmopolitismo, che si sente a casa dappertutto – “su tutte le strade dell’ente l’uomo è ‘a casa’” – sembra non avere limiti, anzi quelli che si pone è per superarli (Aufhebung), e divenire ricco (poros), giungere all’obiettivo, (oggi target), per accumulare patrimonio. Così ricchezza diviene il contrario di povertà (penia). Ma questo agire dell’uomo moderno e occidentale lo fa pervenire al deserto del nulla – il nichilismo – che gli nega la possibilità di cogliere la sua essenza e lo stesso Essere; quando l’uomo si sente di casa in mezzo all’ente, in realtà è giunto al nulla. Vi è un’osservazione in limine ma non priva di una sua importanza; l’uomo descritto nel Coro dell’Antigone viene definito da Sofocle con un superlativo relativo – deinoteron – in quanto l’uomo è “il più inquietante” tra, all’interno cioè di una partizione, tutti gli altri enti, che hanno anch’es 68 Un analogo giro di pensieri, collocato però in ambito politico, è quello che si può trovare in C. Schmitt, Terra e mare, tr. it. di G. Gurisatti, intr. di F. Volpi, Adelphi, Milano 2002. 69 M. Heidegger, L’inno Der Ister…, cit. p. 69. si la possibilità (dynamis) di essere “terrificanti” e incutere angoscia e paura, come il mare in tempesta e il naufragio osservato da chi sta a terra70. Heidegger, dopo aver sottolineato il fatto che l’uomo è il più inquietante, traduzione che in greco non trova un esatto correlativo, ma che dà il senso del termine deinoteros, usa per l’uomo il superlativo assoluto – deinotaton – allo scopo di affermare che unicamente l’uomo è l’ente “il più inquientate” di tutti; ogni partizione viene eliminata (e con essa ogni gradualità metafisica) e l’essere deinon diviene l’essenza propria soltanto del Dasein umano e di nessun altro ente. Certo, non è l’uomo a fare di sé l’ente il più inquietante, non è l’animale più astuto e violento, “la bestia bionda” o “l’animale da preda” nietzscheani, e nemmeno quello kantiano che sa dire io, distinguendosi così dagli altri viventi71; l’essere inquietante non è una qualità che si aggiunge o meno all’uomo, bensì è la sua stessa essenza che lo distingue dagli altri enti: “solo perché l’uomo sa dire ‘qualcosa è’ [ l’es gibt della domanda giovanile, ndr], l’uomo sa poi anche dire ‘io sono’, non il contrario”72. In questo senso allora, soltanto perché l’uomo, e soltanto lui, è in grado di (dynamis) dire “è”, cioè di intrattenere un rapporto con l’essere, allora ha la parola e può essere considerato come zoon logon echon. Heidegger non nega l’evidenza del fatto del dire umano, il suo essere dotato di parola, ma lo sottomette all’egida dell’essere e, come è noto, non è l’uomo ma il linguaggio che parla73. Ma se da un lato Heidegger non nega la definizione aristotelica, cambiandola però di segno, dall’altro è evidente la critica alla filosofia moderna e alla metafisica che ne consegue a partire da Descartes e la sua affermazione soggettivistica, passando per Kant e finendo a Nietzsche. 4. La polis impolitica Il mondo del disincanto weberiano può essere accostato alla polis greca, intesa come il paradigma della Città in cui il negotium economico e politico dominano in una dialettica perfettamente oliata dalla razionalità. Mentre nell’Introduzione alla metafisica Heidegger dedica alla polis una rifles 70 H. Blumenberg, Naufragio con spettatore, tr. it. di F. Rigotti, B. Argenton, intr. di R. Bodei, il Mulino, Bologna 1985; Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, tr. it. a cura di A. Fellin, UTET, Torino 1997. 71 F. Nietzsche, Genealogia dela morale, cit., p. 61. 72 M. Heidegger, L’inno Der Ister…, cit., p. 83. 73 M. Heidegger, Il linguaggio, (1950), in Id., In cammino verso il linguaggio, cit., pp. 27-44. sione concisa, all’altezza del corso del 1942 la meditazione è molto più ampia; in più va sottolineato che nei due testi si trovano differenti approcci alla questione. Infatti, nel 1935 la polis è vista come “il crocevia di tutte (…) le strade”, come il luogo che corrisponde al Da (il “ci”) del sein (dell’essere)74, “il luogo della storia (Geschichtstätte)”, quel “ci” in cui la storia accade; dunque, la polis è il luogo del politico poiché al suo interno convivono le dimensioni umane e divine, le attività pratiche e quelle teoretiche, i giochi e le feste, i riti sacri e i templi, “non perché abbia a che fare con qualche uomo di stato. Al contrario, tutto ciò è politico, vale a dire situato nella storia, (…) in quanto [poeti, pensatori, preti, re] usano la violenza (…), e divergono eminentemente nell’essere storico come creatori, come uomini d’azione”75. Così collocati “in sede storica”, gli uomini abitanti della Città possono seguire la Legge dello stato ed essere Ypsipoleis – coloro che fanno grande la Patria, gli Eroi – ma possono divenire apoleis, i senza stato, estranei al focolare, unheimisch. Ma l’uomo diviene apolis, senza luogo e senza casa, anche perché abbandona la terra madre, Herta, per l’elemento ostile del mare76 che si apre nell’abisso senza fondo (Abgrund) nelle fredde acque della tempesta d’inverno; così l’uomo “si dis-loca”: dislocarsi significa non aver luogo (Ort), oltre che mutare di luogo; con termine coniato da Deleuze e Guattari si potrebbe dire – anche se con un uso improprio del concetto – che l’uomo si de-territorializza e, in questo caso, de-territorializzazione viene a significare che l’uomo – dis-locandosi – violenta terra e mare, pianta steccati e traccia confini, creando fittizie proprietà, costituzioni e Stati mutevoli nel tempo. È questo lo spazio conquistato in cui abita l’uomo della Modernità, una Terra divenuta suo dominio e divelta con ogni tecnologia. Ma l’autentica essenza dell’uomo consiste nell’essere to deinotaton; la duplicità che lo contraddistingue consiste nella contrapposizione tra il suo essere Ypsipolis seguire cioè la legge e Apolis, trasgredire la legge. Si nota poi che anche all’interno dell’apolis vi è una duplicità, ossia da un lato l’uomo è apolis in quanto con la violenza sottomette terra e mare, dis-locandosi, e dall’altro perché, essendo estraneo alla normalizzazione metafisica del “politico”, che trova la sua ragion d’essere nella polis da cui dipende ed è formato, egli è privo di qualsiasi fondamento, diritto, unheimlich e unheimisch, ma non heimatlos. 74 Cfr., Ph. Lacoue- Labarthe, La finzione del politico. Heidegger, l’arte e la politica, tr. it. di G. Scibilia, il melangolo, Genova 2011, pp. 51-56. 75 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p.160. 76 Si veda J. Michelet, Il mare, tr. it. di A. Valeri, a cura di J. Borie, nota di A. Tabucchi, il melangolo, Genova 2012. L’uomo diviene zoon politikon non per sua scelta, bensì è la polis a determinarlo in quel senso, è cioè la polis a determinare e fondare il “politico”. Seguendo quanto afferma Aristotele nel primo libro della Politica, Heidegger sottolinea che “se il ‘politico’ è ciò che appartiene alla polis” allora il “logico” dovrebbe derivare dal logos e l’“etico” dall’ethos; la conclusione che ne trae è che la polis non può darci alcuna rappresentazione del politico in quanto ne sarebbe l’essenza. La polis, allora, “non può essere determinata ‘politicamente’, poiché non è una nozione propria del politico e la sua essenza non è ‘politica’”77. Ripensare l’essenza della polis significa pensarla come il luogo, l’Ort che è Ortschaft e Erörterung del più inquietante, il luogo in cui soggiorna e da cui diparte lo Straniero, come Edipo o Iperione di Hölderlin78; la polis è polos, “il polo, il vortice in cui e intorno a cui tutto ruota”79; è la “sede” (Statt, il luogo, il posto) e non solo lo Stato (Staat) e ancora meno la città-stato (Stadt)80, “la sede del soggiornare umanamente storico dell’uomo nel mezzo dell’ente”. In questo modo la polis sfugge a ogni determinazione politica e statuale, a ogni forma-stato81, e “polo” significa attrazione verso il non fondamento, quel vortice che è il pensiero stesso, il polo che diviene l’autentico e originario “essere-di- casa” dell’inquietante, il quale non è ancora pervenuto né perverrà restando viandante in cammino, vincolato com’è nel mezzo della totalità dell’ente. L’essenza della polis in quanto polos che attrae – è questo il destino che determina l’uomo come deinotaton, destino (Geschick) che guida la storia (Geschichte) – nel vortice dell’Abgrund, è “pre-politica”, in quanto sfugge alle categorie metafisiche, è cioè pre-teoretica e pre-logica82, è il luogo del 77 Si veda M. Heidegger, L’inno Der Ister…, cit., pp. 74-76. 78 Cfr. F. Hölderlin, Iperione, tr. it. a cura di G.V. Amoretti, Feltrinelli, Milano 1991. 79 M. Heidegger, L’inno Der Ister…, cit., p. 75. 80 Cfr. nota del traduttore italiano n. 37. 81 Si veda F. Fistetti, Heidegger e l’utopia della polis, Marietti 1820, Genova 1999. 82 “Il ‘politico’, palesemente, è ciò che appartiene alla polis ed è quindi determinato solo a partire dalla polis. Non però il contrario. (…) Se evitiamo questa quasi inestirpabile confusione che si estende a qualunque sforzo di spiegare il ‘logico’, ‘l’estetico’, ‘il tecnico’, ‘il metafisico’, ‘il biologico’, ‘il politico’, allora emerge per il ‘caso’ attuale una considerzione importante che esprimiamo brevemente nella seguente proposizione: la polis non può essere determinata ‘politicamente’. La polis, e proprio essa, non è un concetto politico”, M. Heidegger, L’inno Der Ister…, cit., p. 74. Diversamente H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, tr. it. di S. Finzi, intr. di A. Dal Lago, Bompiani, Milano1989, pp. 21-27; J. Ritter, Metafisica e politica, tr. it. di R. Garaventa e G. Cunico, intr. di G. Cunico, Marietti, Casale Monferrato (AL) 1983; M. Riedel, Metafisica e metapolitica, tr. it. di F. Longato, intr. di F. Volpi, il Mulino, Bologna 1990. non-fondamento (l’Un-grund che è Ab-Grund) senza fondo, il richiamo all’esser-di-casa del più inquietante degli enti. Nell’essenza della polis viene alla luce l’essenza dell’uomo e questa relazione era già stata pensata da Aristotele e Heidegger lo sottolinea con particolare enfasi: l’uomo è zoon politikon in quanto è zoon logon echon, “un essere vivente (Lebewesen) che ha la parola, vale a dire l’ente che può dire l’ente in quanto tale”. Per questo motivo, secondo Heidegger, Aristotele, affermando che l’uomo è zoon politikon, dice che esso “ha la capacità” – il che vuol dire: nella sua essenza è compresa tale dynamis – “di appartenere alla polis”, e perciò l’uomo “non è senz’altro ‘politico’”. Sorgono qui due questioni non di poco conto: l’uomo è un vivente dotato di logos, soltanto in quanto vive all’interno della polis ed è zoon politikon; il rapporto va quindi considerato in maniera inversa: proprio perché l’uomo è un vivente all’interno della koinonia politike, che egli diviene uno zoon logon echon, è la polis cioè che fa l’uomo animal rationale, infatti solo un dio o una bestia può vivere al di fuori della Città. La seconda questione riguarda il rapporto fondamentale di Phylia per l’esistenza stessa della polis, descritto da Aristotele nei Libri 8° e 9° dell’Etica nicomachea83. Certo, è questa una lettura ‘tradizionale’, in cui centrali appaiono le figure della reciprocità e dell’utilità, della ragione e della dialettica, ben lontane dal Bezug heideggeriano e dal suo cammino di pensiero che ha inizio proprio con la presa di distanza dalla posizione usiologica dell’interpretazione di Brentano84. L’essenza della polis, dunque, non può essere politica, poiché tale “scienza” se da un lato sorge in epoca moderna, dall’altro è espressione della forma-stato, di ciò che più di ogni altra istituzione dà il senso del fondamento. L’uomo che vi abita vive l’estraneazione del sé, del radicamento alle certezze del Satz vom Grund, del principio di ragione che lo sostiene e lo fa sentire a casa ovunque. Ma l’essenza dell’uomo inquietante è quella di essere spaesato (Unheimsch), senza casa; il suo essere pauroso, violento, inconsueto, in una parola “perturbante” appartiene anche all’uomo del 83 Aristotele, Etica nicomachea, a cura di C. Mazzarelli, Rusconi, Milano 1993. 84 F. Brentano, Sui molteplici significati dell’essere in Aristotele, tr. it. di S. Tognoli, prefaz. Intr. a cura di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1995; F. Volpi, Heidegger e Brentano, CEDAM, Padova 1976; Id., Heidegger e Aristotele Daphne Editrice, Padova 1978, ora Laterza, Bari-Roma 2010; E. Berti, Aristotele e il Novecento, Laterza, Roma-Bari 1992; F. Mora, L’ente in movimento. Heidegger interprete di Aristotele, Il Poligrafo, Padova 2000. la polis che esercita il potere85e che, seguendo le leggi della Città, diviene ypsipolis, il suo difensore, oppure colui che trsgredendole si macchia della colpa e fa il male della Città e da questa viene cacciato, divenendo apolis. La dialettica Bene-Male, Colpa-Innocenza non tocca l’uomo deinotaton, lo spaesato che non ha ancora trovato casa; egli è apolis perché è divenuto – come i Tessalonicesi86 – Straniero, in quanto senza legge, senza potere, senza governo87 e senza fondamento; il deinotaton e l’uomo nudo 88, che non ha bisogno dell’uniforme dello Stato. L’uomo della Città “tutto raggiunge e tuttavia in questo modo dappertutto perviene al nulla” dichiara Heidegger, avendo presente l’affannarsi aggirandosi in ogni luogo terracqueo dell’uomo contemporaneo metropolitano, che abita lo spazio concessogli dall’economico: dai lussuosi palazzi al centro della Città, alle periferie dormitori, descritte esemplarmente in tutta la loro crudezza da Celine nel suo Voyage 89; quest’uomo non è Unheimlich e nemmeno Unheimisch, egli è Heimatlos, un uomo sostituibile, omologato nell’informatizzazione, vinto dal morbo della tecnologia come da quello non meno mortifero del ritorno alla natura, un uomo senza patria, perché cittadino del mondo. Nel Brief del 1946 Heidegger sottolinea e chiarisce il termine Heimatlosigkeit, attraverso il vagare dell’essenza dell’uomo: “questa Heimatlosigkeit (…) riposa nell’abbandono dell’ente da parte dell’essere. Essa è il segno dell’oblio dell’essere, in conseguenza del quale la verità dell’essere rimane impensata”90. Fu Nietzsche “l’ultimo a esperire questa Heimatlosigkeit”, poiché fu l’ultimo grande pensatore metafisico, secondo l’interpretazione che ne dà Heidegger; va sottolineato però che tale assenza di patria non ha valore “politico” ma possiede uno spessore ontologico, esprime cioè l’essenze dell’uomo contemporaneo, il suo essere abitatore delle metropoli, il suo Wille zur Macht. L’e-sistere del “più inquietante”, il suo essere straniero e distaccato del “vivere civile”, il suo essere spaesa 85 P. Clastres, L’anarchia selvaggia, tr. it. di G. Lagomarsino, pref. di R. Machionatti, eléuthera, Milano 2017. 86 M. Heidegger Fenomenologia della vita religiosa, cit., p. 133-146. 87 A. Biral, Platone e la conoscenza di sé, Laterza, Roma-Bari 1997. 88 C. Levy-Strauss, L’uomo nudo, tr. it. a cura di E. Lucarelli, Il Saggiatore, Milano 2008. 89 L.F. Celine, Viaggio al termine della notte, tr. it. di E. Ferrero, Corbaccio, Milano 2011; Id., Morte a credito, versione di G. Caproni, saggio critico di C. Bo, Garzanti, Milano 2007. 90 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., p. 69. Volpi traduce “Heimatlosigkeit” con “spaesatezza”; ho lasciato non tradotto il termine per non creare confusione con il termine “spaesato” (Unheimisch). Heimatlosigkeit, può essere tradotta con mancanza, assenza di patria. to91- ed è noto che solo il Dasein dell’uomo si configura come ek-sistentia – si svolge nell’“aperto”, nel luogo (Ort) in cui il soggiornare dell’uomo corrisponde all’accoglienza da parte dell’essere e questo luogo diviene la sua “sede”; das Offene è l’aletheia dell’ente in quanto non-nascondimento, ossia: l’uomo deinotaton in quanto non-nascosto – l’essenza veritativa dell’ente – soggiorna nell’Aperto, nel Ci (Da) dell’essere (sein), nella semplicità originaria della Lichtung. L’Aperto, a differenza di tutti gli altri luoghi, diviene “il carattere eminente” dell’uomo, si potrebbe dire la sua Erörterung, in quanto solo esso lo può scorgere; vedere l’Aperto, das Offene, la Lichtung, implica per l’uomo la possibilità di dire “è” e dunque di dire “l’essere”, cosa che l’animale non può fare. È solo perché l’uomo possiede la dynamis essenziale di dire “è” che può dire “io”. Com’è noto, nella conferenza del 1946 Wozu Dichter Heidegger si confronta con la poesia di Rilke e in particolare prende in esame l’ottava delle Elegie duinesi, proprio in quanto parla dell’Aperto; tuttavia, poche pagine prima aveva preso in considerazione quelli che lo stesso Rilke aveva definito “versi improvvisati”, vergati sull’edizione del Malte donata al Barone Lucius; in questa poesia, che fa da dedica, si dice dell’uomo: “ciò che, infine, ci custodisce/ è il nostro essere-senza-protezione, e che noi/ ci siamo rivolti nell’Aperto, avendo visto la minaccia” (vv. 12-15); Heidegger commenta: “la poesia assume a proprio tema l’essere dell’uomo”, ma va detto che i versi di Rilke non si esauriscono nel confronto con gli altri esseri viventi, piante e animali, bensì risulta centrale l’essere-senza-protezione come fondamento proprio dell’essere dell’uomo. Se in questi versi appare una differenza tra uomo e “semplici viventi” nell’Elegia ottava si nomina il medesimo confronto, soltanto che in questo secondo luogo Rilke parla di “die Kreatur”, la creatura. Secondo Heidegger, lasciando da parte tutta la problematica sull’animalitas e concentrandosi sulla questione dell’Aperto, afferma che questo termine “significa, nel linguaggio di Rilke, qualcosa che non sbarra chiudendo; qualcosa che non sbarra perché non limita; non limita perché è privo di limiti”92; l’Aperto, dunque, è l’illimitato in cui gli enti vivono nella modalità del rischio, attratti in un rapporto reciproco (Bezug)93 che fa sì che vengano evitati gli ostacoli. In tal modo, le creature 91 Il termine così inteso si incontra già nella prolusione che Heidegger tiene nel 1929 quando subentra a Husserl nella cattedra di filosofia a Freiburg i.B., che titola Che cos’è metafisica?, tr. it. e intr. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2001. 92 M. Heidegger, Perché i poeti, cit., p. 261 93 Nel suo Glossario a Sentieri interrotti, Chiodi alla voce Bezug scrive: “In questo termine si raccolgono secondo Heidegger due significati che è impossibile unificare in una parola italiana. Comunemente il termine significa ‘rapporto’, ma Hei – i viventi, compreso l’uomo – vivono senza limiti nel “non-finito”: “essi non si dissolvono nel nulla del nulla, ma si risolvono nel tutto dell’Aperto”. Se così è, allora, ciò che Rilke intende per Aperto non ha nulla a che vedere con l’Aperto heideggeriano, che coincide con il non-essere-nascosto dell’ente, cioè con quel luogo che “lascia esser-presente (Anwesen) l’ente come tale”. L’immagine che Rilke fornisce dell’Aperto non può dunque identificarsi “con l’originaria ed essenziale illuminazione dell’essere”, che avviene in virtù e nell’ambito della Lichtung (Leicht, il Semplice) dove cade la luce; il giudizio finale di Heidegger è tagliente: “la poesia di Rilke è all’ombra di una metafisica nietzscheana addolcita”94. 5. L’uomo spaesato e straniero La medesima interpretazione Heidegger la fornisce sia nel corso del semestre estivo 1942 che in quello invernale 1942/43 su Parmenide; nel corso sull’inno Der Ister, viene sottolineato il tema del rapporto che intercorre tra “coscienza” e “inconscio” in quanto calcolo che prende il sopravvento grazie alla ratio dell’età moderna: “a questo fatale concetto metafisico-moderno di “incoscio” rimanda a ciò che Rilke chiama l’Aperto”95; l’irrazionale fa parte ugualmente, come il sentimento e l’istinto, della razionalità metafisica e nel corso su Parmenide, subito successivo, l’accento cade invece sull’incapacità di cogliere la differenza tra ente e essere, omologando e livellando nel concetto di creatura ciò che per essenza è altro. Se da un lato l’Aperto è il libero della Lichtung, dall’altro l’Aperto rilkiano, caratterizzato dalla presenza della Kreatur, oscura “la differenza di tutte le differenze e l’inizio di ogni differenziazione, cioè la differenza tra essere ed ente”. La colpevole dimenticanza dell’uomo di ciò che dev’essere pensato, il completo appiattimento di ogni differenza, porta a configurare l’Aperto come il luogo del progredire illimitato dell’ente: “l’Aperto è per Rilke il costante processo di ente in ente entro l’ente, attuato dall’ente stesso e solo da esso”96, ed è perciò espressione della dimenticanza essenziale propria della metafisica. degger sente risuonare in Bezug il significato originario di es beziehen, percepire, cosicché il ‘centro dei rapporti’ è ‘centro di percezione’”, p. 352. 94 M. Heidegger, Perché i poeti, cit., p. 264. Diversamente interpreta M. Vozza, Esistenza e interpretazione: Nietzsche e Heidegger, Donzelli, Roma 2001, p. 156 sgg. 95 M. Heidegger, L’inno Der Ister…, cit., p. 84. 96 M. Heidegger, Parmenide, tr. it. di G. Gurisatti, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1999, p. 270 e sgg. Il deinotaton, colui che nella sua essenza è spaesato, è tale in quanto, attraversando il “tratto” estraneo si incammina – si intenziona verso – “ciò- che-è-di-casa” “e ad esso soltanto, nel modo però del non raggiungimento”; sia Sofocle che Hölderlin dicono poeticamente la storicità di due to ton anthropon ghenos e Menschlichkeit, dei Greci e dei Tedeschi che tuttavia tra esse divergono proprio nel “farsi-di-casa”; entrambi parlano di quel tratto che è proprio ed è estraneo per i due popoli, ma, Hölderlin, attraverso un chiasmo, sostiene che “il tratto che è per i Greci quello proprio, per i Tedeschi è quello estraneo; e il tratto proprio dei Tedeschi è quello estraneo per i Greci”97. Solo se avviene l’attraversamento, il fare proprio il tratto estraneo, che può essere identificato con la forma di vita im-posta (Ge- stellt) dalla metafisica98, la vita della metropoli con il suo Nervenleben e con la dittaura dell’economia monetaria99, allora è possibile appropriarsi del tratto proprio, ossia dell’autentico farsi di casa. In questo essere-di-casa, “e l’esser-di-casa è il farsi-di-casa nell’essere spaesato”, consiste la storicità di un’umanità, sia essa greca o tedesca; ma questo esser-di-casa può esser detto solo attraverso il dire poetico e, per Heidegger, Hölderlin è il primo poeta che esperisce poeticamente la “necessità tedesca dell’esser- spaesato, è cioè il primo a dire l’esser-spaesato poetando”100. La parola poetica, e non un codice, proclama la legge dell’essere spaesato e del farsi di casa; la legge afferma che l’uomo storico all’inizio della sua storia non ha alcun rapporto con “ciò-che-è-di-casa”, “deve farsi spaesato per imparare nel viaggio verso il tratto estraneo l’appropriazione del tratto proprio a partire da quello estraneo e diventare di-casa solo nel viaggio di ritorno”. 97 M. Heidegger, L’inno Der Ister, cit., p. 114. Si veda in proposito F.Hölderlin, Iperione a cura di G.V. Amoretti, Feltrinelli, Milano 1991, il cui titolo tedesco è indicativo: Hyperion oder der Eremit in Griecheland, “nel romanzo, la Grecia non è quella del classicismo del tempo – Winckelmann, Goethe, Schiller – ma è o dovrebbe diventare una vivente continuazione o una rinascita della Grecia che fu. Assente o quasi il popolo greco che si rivela immaturo – come la borghesia tedesca del tempo – di fronte agli ideali rivoluzionari”, G.V. Amoretti, Introduzione, p.21. Si veda pure, F. Zugno, Hölderlin oltre Kant. Verso Hyperion (1794-1797), Il Poligrafo, Padova 2011. 98 M. Heidegger, Perché preferiamo vivere in provincia, in Id., Scritti politici (1933- 1966), tr. it. e pres. di G. Zaccaria, pref. (Venire a maggiore decenza) e postfaz. (Per aprire un dibattito intonato a giustizia) di F. Fedier, Piemme, Casale Monferrato 1998; Id., L’impianto, in Id., Conferenze di Brema e Friburgo, tr. it. di G. Gurisatti, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2002; Id., La questione della tecnica, in Id., Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976. 99 Cfr.,G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, cit., pp. 65-79 100 M. Heidegger, L’inno Der Ister…, cit., p. 114. Ciò- che-è-di-casa è il “focolare”101 e l’uomo, l’ente più inquietante, senza stato e senza fondamenti è tuttavia in un rapporto essenziale con il “focolare”, con la “sede di ciò che è di casa”, poiché il focolare è la parola che nomina l’essere e la storia non è altro che questo ritorno al focolare”102. Essere spaesato dell’uomo, allora, significa che la sua essenza ha “il tratto- non-di-casa”, caratteristica questa che non viene ad aggiungersi quantitativamente a altre dall’esterno, bensì “l’esser-spaesato si mostra come la capacita di essere-di-casa e il farsi-di-casa non ancora risvegliati, non ancora decisi e non ancora intrapresi”; ma il “dramma” del farsi-di-casa, che mostra l’essenza della spaesatezza del deinotaton manifesta anche la sua stessa ambiguità. L’essere spaesato, l’uomo che si erge e si rivolge con violenza all’ente per trovare una sede stabile, cerca una via d’uscita nella polis, in quelle attività (praxeis) che hanno il loro fine nell’ente, manipolato e rappresentato indifferentemente come prodotto e come l’essere oggettivato. È questo l’aspetto di un uomo heimatlos che si esprime nell’arroganza dell’oblio del focolare, cioè dell’essere. Eppure nella sua essenza vi è custodita anche la capacità (dynamis) di strappare il velo dell’oblio, “‘ripensando’ all’essere (Andenken) e muovendo dall’appartenenza al focolare”103; nel focolare, in ciò-che-è-di-casa, viene detto l’essere-spaesato e questo “dice l’appartenenza a cò-che-è-di-casa e il non-essere-di-casa di chi è spaesato”104. L’oblio se da un lato si oppone al pensiero rammemorante, l’Andenken, in quanto corrisponde a quel comportamento umano che dice “non-pensarci- più”, “un respingere, una fuga”, dall’altro è una perdita, un’assenza, un vuoto della mente; l’oblio in quanto fuga si attua in maniera quotidiana dall’uomo metafisico perché facilmente egli ottiene un posto nella polis, la certezza del principio di ragione, l’uguaglianza come omologazione, l’essere catturato dalla dimensione dell’onticità, tanto da “aver dimenticato noi stessi”105. Ma oltre a questo oblio che è tipico dell’uomo animal rationale, privo di memoria storica e destinale, ve ne è un altro: è l’oblio in cui l’uomo non dimentica qualcosa ma dimentica se stesso “e noi stessi siamo i di 101 In greco Estia ha il significato del cerchio della luna; in latino Vesta. Vi si può trovare un parallelo con i miti germanici lunari. Heidegger cita anche Platone e gli dedica un sottoparagrafo b) Estia ed essere in Platone, I., L’inno Der Ister…, cit., pp. 102-104. 102 Ivi, p. 97 e p. 115. 103 Ivi, p.105. 104 Ivi, p. 110. 105 Ivi, p. 121. menticati”. Tuttavia, questo oblio è, come dice Hölderlin, “rapido”106, poiché al suo interno resta l’appartenenza alla terra natia, ossia la capacità di sapere che soltanto a partrire dal tratto estraneo e attraversandolo in una migrazione che è viaggio e peregrinazione (Die Wandung), può essere difesa e preservata la Mutter Erde, la Suevia beata madre107. Questa figura estremamente complessa di “oblio” richiama alla mente l’esperienza interiore di Conrand e della Linea d’ombra: “Uno va avanti. E il tempo pure va avanti, finché ci si scorge di fronte una linea d’ombra che ci avverte di dover lasciare alle spalle anche la ragione della prima gioventù”; e Cesare Pavese nella sua Introduzione scrive: “Qui lo sfondo ha l’ossessività di un’atmosfera quotidiana, e così intensa e inevitabile è la presenza di questo “altrove”, di questa memoria, che ci pare in sostanza di muoverci nella cerchia incantata di un simbolo, di un mito”108. L’oblio è considerato da autori come Leopardi, Nietzsche, Celan, Cioran, Klossowski 109 l’unico rimedio alla tragica situazione dell’esistenza umana; l’equazione oblio/felicità, offre l’immagine tradizionale di questa assenza di memoria110. Ma di altra essenza si costituisce l’oblio heideggeriano; è il viaggio di ritorno che permette al pensatore e al poeta di rammemorare (Andenken) la terra natia. E nello stesso arco di tempo – precisamente il 6 giugno 1943 quando ormai la Germania aveva imboccato la via della disfatta e soltanto i senza memoria potevano ancora credere in una salvezza – Heidegger tiene un discorso per il centenario della morte di Hölderlin nell’Aula Magna dell’Università di Friburgo; il tema riguarda la poesia Arrivo a casa. Ai miei familiari. Per Heidegger, questa poesia non dice la personale esperienza del ritorno a casa del poeta, ma possiede uno spettro molto più ampio: qui si 106 M. Heidegger, L’inno Andenken di Hölderlin, tr. it. C. Sandrin, U. Ugazio, Mursia, Milano 1997. In particolare il par. 64. Il cammino verso la terra straniera, il “rapido oblio” del tratto proprio e il ritorno a casa, pp. 159-163. 107 F. Hölderlin, L’emigrazione (Die Wanderung), in Id., Le liriche, cit., pp. 610-617. 108 J. Conrand, La linea d’ombra, tr. it. di M. Jesi, intr. di. C. Pavese, Einaudi, Torino 1988, p. V e p. 5. 109 “Osserva il gregge (…) attaccato al piuolo dell’istante, e perciò né triste né tediato. (…) L’uomo chiese una volta all’animale: perché non mi parli della tua felicità e soltanto mi guardi? L’animale dal canto suo voleva rispondere e dire: ciò deriva dal fatto che dimentico subito quel che volevo dire ma subito dimentico anche questa risposta e tacque”, F. Nietzsche, Considerazioni inattuali II, a cura di S. Giametta e M. Montinari, intr. di G. Baioni, Einaudi, Torino 1981, p. 83. 110 F. Rella (a cura di), La memoria e l’oblio, Pedragon, Bologna 2002; R. M. Rilke, I quaderni di Malte Brigge, a cura di F. Jesi, Garzanti, Milano 1971. parla dell’arrivo (Heimkunft) “sul suolo della patria”; questa poesia, cioè, non si riduce a un intimistico arrivo nella terra natia, nei luoghi familiari e nel calore del focolare, sede degli affetti e delle gioie trascorse, ma vale per tutti gli uomini e le cose della patria tedesca, e ciò che Heidegger ancora una volta sottolinea è che “arrivando, colui che ritorna a casa non ha ancora raggiunto la patria”, poiché questa è “difficile da guadagnare, la chiusa”111. Chi ritorna è ancora alla ricerca del luogo proprio,e questo gli viene incontro, gli si fa vicino; e tuttavia, “il cercato non è ancora trovato, se ‘trovare’ (finden) significa potersi appropriare del ritrovato (Fund) per abitarvi nella propria proprietà”112. La citazione ha un particolare rilievo in quanto la possibilità dell’abitare autenticamente – eigentlich, il proprio – nella madre patria, ciò che è cercato, non è ancora venuto a emersione, non si è dato come ap-propiazione. Se il tratto proprio in cui essere di casa e abitare poeticamente dell’uomo è la terra natia, la madre Suevia, ciò che viene custodito per essere trovato è la lingua materna, il tedesco; il destino (Geschick) che è destinazione (Schickung), cioè storia (Geschichte) della patria, il suo proprio (das Eigene), il suo “tesoro”, non ancora fatto proprio dal popolo, consiste nella lingua; la lingua madre è ritenuta nel senso di protetta dalla terra natia, l’Heimat trattiene cioè nascosto das Deutsche, che perciò è ciò di cui si cerca e che dev’essere trovato; è questo il compito del poeta (“il poetare è un trovare”, afferma Heidegger più avanti) e del pensatore, poiché gli abitanti della patria “non sono ancora pronti ad avere quanto è più proprio della patria, ‘il tedesco’, come loro proprietà”113. Ciò che è in serbo, la lingua materna è l’elemento che dona la possibilità ai Tedeschi di esser-di-casa (Heimisch), in quella terra sveva che è, nella sua essenza, la terra natia, “il luogo della vicinanza all’origine”. Nell’inno Il viaggio (Die Wanderung) pubblicato nello stesso anno dell’elegia Arrivo a casa (1802), il primo verso dice: “Suevia beata, madre mia”; Heidegger chiosa: “la Suevia, la madre, abita vicino ‘al focolare della casa’” e il focolare e il luogo del fuoco, dell’officina che forgia “quanto è stato deciso in segreto”; la Suevia abita quindi vicino all’origine e indica la terra madre in quanto patria. Arrivare a casa, dunque, significa ritornare “nelle vicinanze dell’origine”, “divenire di casa nella vicinanza 111 F. Hölderlin, Il viaggio (Die wanderung), cit.; M. Heidegger, “Arrivo a casa”, in Id., La poesia di Hölderlin, a cura di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988, pp. 16-17. 112 Ivi, p. 17. 113 Ivi, p. 18. dell’origine”114. L’elegia di Hölderlin dice l’essere vero dell’arrivare a casa, un evento che continua ad avvenire fintanto che il dire poetico risuonerà “come la campana nella lingua dei Tedeschi”115; ma si chiede Heidegger “per quanto tempo ancora i Tedeschi vogliono restar sordi alla parola che Hölderlin ha cantato nella prima strofa dell’inno Patmos?”116. Essere impermeabili alla parola del poeta significa vivere nell’inautentica scoloritura del mondo contemporaneo, che ha fede unicamente nell’esattezza calcolante del principio di ragione, nell’omologazione comportamentale dell’uomo dell’occidente, nella ricchezza infinita del possesso della tecnica; significa però anche essere sordi al richiamo di un pensiero rammemorante, che non si fonda su alcun principio, poiché il suo esser vicino all’esser di casa consiste nella sua lontananza, in quanto in cammino verso; arrivare non vuol dire accasarsi, vuol dire nostos. 114 Ivi, p. 27-28. 115 Ivi, p. 30. 116 Ivi, p. 126. “Vicino/ e difficile da cogliere è il dio/ Ma dove è il pericolo, cresce/ anche ciò che salva” (vv. 1-4) CAPITOLO TERZO 1. Una politica del silenzio Il silenzio di Heidegger sulla Shoah e sui campi di sterminio – quell’omissione colpevole che Derrida chiama “la ferita del pensiero”, espressione che Trawny riprenderà enfaticamente usandola per sostenere in modo troppo artificioso le proprie tesi1 – è forse la via più accidentata, ma più fruttuosa, per affrontare e sviluppare una riflessione per valutare il peso che il nazionalsocialismo e l’antisemitismo abbiano avuto sul pensiero heideggeriano, a prescindere da polemiche mediatiche che poco hanno a che fare con l’autentica questione del rapporto della filosofia di fronte al totalitarismo e al genocidio. “Liquidare Heidegger”, chiudere una volta per tutte con il “problema Heidegger”; equiparare la sua ricerca filosofica e quella ghigantomachia peri tes ousias che è la Seinsfrage in tutte le sue differenti declinazioni a espressione della più efferata delle dittaure, mettendo una pietra tombale sul progetto filosofico heideggeriano, che ha determinato, volenti o nolenti, lo sviluppo della filosofia europea continentale ma anche anglo-americana, è una posizione che banalizza non solo la riflessione filosofica heideggeriana ma, cosa ben più grave, vede nel nazismo e nei lager soltanto il male assoluto, senza indicare alcuna responsabilità di chi storicamente e ideologicamente ha permesso la loro attuazione2. Il già citato “Good-bye Heidegger” proposto da Volpi ha un ben altro spessore storico-filosofico, pur essendo, alla fine di una ricerca durata una vita, la constatazione che la filosofia di Heidegger è implosa, che il suo messaggio si è esaurito e che “l’esperienza di Nietzsche vuota le metafore di Hei 1 J. Derrida, Il silenzio di Heidegger, in G. Neske, E. Ketterin g (a cura di), Risposta. A colloquio con Martin Heidegger, tr. it. di C. Tatasciore, intr. di E. Mazzarella (Volontà di fondazione e filosofia della storia. Heidegger e la politica), Guida Napoli 1992. 2 E. Faye, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia a cura di L. Profeti, L’asino d’oro, Roma 2012. degger”; il “quasi due millenni e non un solo nuovo dio!” dell’Anticristo, che Hediger pone come epigrafe ai due volumi dedicati a Nietzsche (1961), è il de profundis dal quale forse “Heidegger non è più riuscito a risollevarsi”. Eppure, la maggior parte degli attuali interpreti di Heidegger propongono la messa in liquidazione, in virtù dei cosiddetti Schwarze Hefte, di tutta la sua filosofia3, degradata a cassa di risonanza del nazismo e dell’antisemitismo; differente e senz’altro più corretta e meno pretestuosa è la posizione assunta da Gianni Vattimo (che continua a dirsi heideggeriano) che mette in luce tutti gli errori e le contraddizioni del pensiero heideggeriano ma che sottolinea anche una “componente di ideologia democratico progressista, una sorta di sfondo ‘atlantico’ (…), centrate sulla stigmatizzazione del suo antisemitismo”, un antisemitismo che Donatella Di Cesare classifica come “metafisico”4; se è fuori di ogni dubbio che Heidegger non si sia mai “pentito” pubblicamente della sua scelta politica, è anche innegabile che la filosofia di Heidegger offre ancora la “possibilità di salvezza”, una possibile via di “fuga”, da un Occidente del liberismo economico, della globalizzazione e dell’impero della tecnica, un mondo del dominio totale, virtuale e mediatico che Heidegger, come Platone, Nietzsche, Wittgenstein o Adorno, condannava. Una dichiarazione di correità, una ammissione di colpa, un pentimento o un’autocritica da parte di Heidegger avrebbero sortito l’effetto di sopire gli animi e di allontanare una riflessione sul più efferato crimine di cui un popolo tutto possa essersi macchiato. La questine della colpa5, esemplarmente esposta da Jaspers, allontana, tuttavia, il popolo tedesco, e con esso Heidegger, dal fare un “viaggio al termine della notte” della propria autocoscienza. Allontanare il mostro con l’ammissione di colpa non serve a comprendere perché esso abbia preso le nostre anime; assicurarlo al male 3 Oltre al già citato libro di E.Faye, si ricordano i due volumi di D. Di Cesare, Heidegger e gli ebrei, Bollati Boringhieri, Torino 2014 e Id., Heidegger & sons, Bollati Boringhieri, Torino 2015; P. Trawny, Heidegger e il mito della cospirazione ebraica, tr. it. di C. Caradonna, Bompiani, Milano 2015. Si veda pure il volume collettaneo a cura di D. Di Cesare, I quaderni neri di Heidegger, Mimesis, Milano- Udine 2016. Senz’altro più equilibrato e interessante il testo di R.M. Marafioti, Gli Schwarze Hefte di Heidegger. Un “passaggio” del pensiero dell’essere, intr. di I.M. Fehér, il melangolo, Genova 2016. 4 G. Vattimo, Non basta un quaderno nero per liquidare Heidegger, “Il Fatto quotidiano”, 12 dicembre 2015. 5 K. Jaspers, La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania, tr. it. di A. Pinotti, pref. di U. Galimberti (La copla metafisica), Cortina Editore, Milano 1996. assoluto è operazione – come ci insegna Hannah Arendt6 – che serve soltanto a esorcizzarlo; si potrebbe dire che la demonizzazione serve al demonio. Ecco, allora, perché il silenzio di Heidegger – colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio – ci lascia, tuttavia, come afferma Derrida, un’eredità, ossia il compito di pensare sempre, e radicalmente, ciò che ha segnato e continua a segnare la nostra epoca. L’essere continuamente all’erta rispetto a un terribile nemico, che da un momento all’altro può ripresentarsi in tutta la sua violenza e crudeltà, rivela, quasi kafkianamente7, una profonda stanchezza della democrazia. Dare risposte significa “rispondere a se stessi”, rispondere a… e rispondere di…, “in breve prendere delle responsabilità”8, e ciò che vale per l’essere ebreo sembra ora valere per Heidegger; “il grande enigma” per il quale l’ebreo – termine in sé già performativo – è originariamente colpevole, macchiato da un debito e da un torto a priori, si coniuga perfettamente all’appartenenza all’ebraicità9, proprio in quanto il termine “ebreo” precede qualsiasi nome, comune o proprio, in quanto è l’assegnazione (a una accusa, a una colpa originaria) alla propria identità. L’uomo può cambiare nome, luogo, nazione, divenire apolide, compiere infinite metamorfosi, ma non potrà mai mutare la propria origine. La tematica dell’incriminazione e della colpevolizzazione, di una Sculdingsein10, ossia di una responsabilità che significa colpevolezza, se vale per l’essere ebreo, paradossalmente rispecchia la situazione filosofica heideggeriana, divenuta l’esempio originario – Derrida parla di “esemplarismo” riguardo all’Ebreo – di un’autoelezione a guardiano della verità dell’essere, rappresentazione universale dell’altro Uomo. Da ciò la decisione per il nazionale, ossia per una “esemplarità universale”, una “responsabilità senza limiti” di fronte ai vivi e ai morti, che si trasforma in assenza di responsabilità. Ed è proprio Heidegger a convalidare la propria volontà di distinguere tra il nazionale e il nazionalismo: “ero intervenuto nel 1933 sì al nazionale e al sociale (e non al nazionalismo) e non ai fondamenti intellettuali e metafisici su cui poggiava il biologismo della dottrina del Partito, perché il sociale e il nazionale come li vedevo io, non erano essenzialmente legati a un’ideologia biologista e 6 H. Arendt, La banalità del male, tr. it. di P. Bernardini, Feltrinelli, Milano 2007. G. Anders, Noi figli di Eichmann, tr. it. di A.G. Saluzzi, Giuntina, Firenze 1995. 7 M. Cacciari, Icone della legge, Adelphi, Milano, p. 77. 8 J. Derrida, Abramo, l’altro, tr. it., intr. di Cronopio, Napoli, pp. 35-36. H. Jonas, Il principio responsabilità, a cura di P.P. Portinaro, Einaudi, Torino 1993. 9 Ivi, pp. 43-44. 10 Ivi, p. 50. razzista”11. Heiddeger, più che lo sciamano12 sembra essere il “marrano” della filosofia, espressione che marchia un particolare tipo di ebreo, colui che occulta il suo essere ebreo, e così facendo preserva la sua ebraicità: “più radicalmente romperai con un certo dogmatismo del luogo e del legame [la Destruktion heideggeriana e la decostruzione di Derrida, ndr] (…) più sarai fedele all’esigenza iperbolica, smisurata, alla hybris forse di una responsabilità universale davanti la singolarità dell’altro”13. Come in un mosaico tutte le tessere si connettono in un’unica grande immagine quella dell’uomo deinotaton – l’inquietante spaesato, in cammino verso il suo farsi- di-casa, un cammino che non perviene; che abbandona la tranquillità dell’essere zu-Haus; straniero, apolide, altro, alla ricerca dell’origine e per questo destinato a trascorrere la propria esistenza nel tratto estraneo per giungere al tratto proprio, il sentiero che conduce al suo farsi di casa; questo è il senso del soggiornare dell’uomo nel mondo, e forse anche il significato del suo essere-per-la-morte (Sein-zum-Tode). L’autentica essenza dell’uomo – il suo essere inquietante e spaesato – è la medesima di chi vive la diaspora; e tuttavia questi si sono assimilati all’Occidente capitalistico e borghese trasformandosi in un popolo metafisico: da unheimisch sono diventati heimatlos. Il destino dell’Occidente, la storia della metafisica, ha travolto e ha trovato terreno fertile nel popolo ebraico. Questa interpretazione heideggeriana si presta all’accusa di antisemitismo, in quanto “gli Ebrei”14 rappresentano agli occhi del filosofo gli esponenti di spicco del progresso tecnico-scientifico che domina il mondo contemporaneo. La fine della filosofia che indossa l’abito dell’altro pensiero assume la categoria, ancora una volta specifica della Judéité, che s’identifica con una “responsabilità illimitata”, “iperetica”, “iperpolitica” e “iperfilosofica”, tutti attributi espunti dal vocabolario heideggeriano, cosicché il suo pensiero distruttivo diviene pensiero di sofferenza15, come quello ebraico, in quanto 11 M. Heidegger, Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita 1910-1976, a cura di N. Curcio, il melangolo, Genova 2005, § 182. Richiesta di reintegrazione nell’insegnamento (Reintegro), Friburgo in Br., 4.11.1945 al Rettore accademico della Albert Ludwigs-Universität, p. 357 sgg. 12 A. Gnoli-F.Volpi, L’ultimo sciamano. Conversazioni su Heidegger, Bompiani, Milano 2006. 13 J. Derrida, Abramo, l’altro, cit., p. 53. 14 Lyotard, Heidegger e gli “ebrei”¸ tr. it. di G. Scibilia, Feltrinelli Milano 1989 15 “Il dolore che anzitutto bisogna provare e sostenere fino alla fine è il comprendere e sapere che l’assenza di bisogno (Notlosigkeit) è la massima e più nascosta indigenza (Not), che solo dalla distanza più remota si fa sentire su di noi. L’assenza di bisogno consiste nel credere di tenere in mano e di conoscere il reale e la realtà, che cosa sia vero, senza aver bisogno di sapere dove dispieghi il proprio esse è pensiero straniero ed estraniante, come quello di YHWH, combinazione dei tempi del verbo essere, il Dio che non può esserre nominato, indicibile come il Seyn barrato che indica gli elementi originari nella quadratura16. E ancora come l’ebreo, l’esperienza di pensiero heideggeriana non si emargina in una comunità chiusa, in un “trinceramento”, metafora dello Stato totalitario di ascendenza schmittiana, ma si mostra come “dissociazione”, abbattimento di ogni frontiera teoretica e metafisica, etica e assiologica, come differenza e alterità. A differenza che in Derrida, e ancora di più in Levinas17, in Heidegger il suo dissociarsi non permette “un’etica della decisione o della responsabilità. Da qui il silenzio di Heidegger che corrisponde al custodire il segreto da parte del marrano, silenzio attraverso il quale ponendo in primo piano la dimenticanza della Seinsfrage e l’esistenza del pensiero dell’essere, li salva e li perpetua in un’altra modalità, con la Destruktion, con la scaltrezza di Odisseo e il silenzio delle Sirene18. Heidegger ha destabilizzato la legge del fondamento mostrandone l’intriseca invalidità e allo stesso tempo la sua origine onto-teo-logica, violenta e impositiva19; il compito del pensiero, la missione che segna l’esistenza umana alla quale è desti (west) la verità”, M. Heidegger, Oltrepassamento della metafisica, in Id., Sagre gi e discorsi, cit., p. 59. 16 “C’è una unità originaria entro la quale i Quattro: terra e cielo, i divini e i mortali, sono una cosa sola (…). Questa loro semplicità noi la chiamiamo il Geviert, la Quadratura”, M. Heidegger, Costriure abitare pensare, in Id., Saggi e discorsi, cit., p. 99. Si veda sul termine Geviert la nota del curatore (G. Vattimo). Sul Sein barrato si veda, La questione dell’essere, in E. Jünger-M.Heidegger, Oltre la linea, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1989, pp. 146-147. Si veda anche l’incipit de L’origine dell’opera d’arte, in M. Heidegger, Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, dove si dice “Origine significa, qui, ciò di cui e per cui una cosa è ciò che è ed è come è. Ciò che qualcosa è essendo così com’è, lo chiamiamo essenza. L’origine di qualcosa è la provenienza della sua essenza”, p. 3. 17 J. Derrida, Abramo, l’altro, cit., pp. 59-60; E., Levinas, A. Peperzak, Etica come filosofia prima, a cura di F. Ciaramelli, Guerini e Associati, Milano 1989. 18 F. Kafka, Il silenzio delle sirene. Scritti e frammenti postumi (1917-1924), tr. it. e a cura di A, Lavagetto, intr. di G. Herling (L’altro mondo di Kafka), Feltrinelli, Milano 1994. 19 W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Id., Angelus Novus, tr. it. e intr. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1976; J. Derrida, La bestia e il sovrano, vol I (2001- 2002), tr. it. di G. Carbonelli, Jaca Book, Milano 2009; Id., Forza di legge, tr. it. di A. Di Natale, intr. di F. Garritano (“In nome della legge”), Bollati Boringhieri, Torino 2003; H. Arendt, Sulla violenza, tr. it. di S. D’Amico, Guanda, Parma 1996. nata, non assume la forma di dovere o responsabilità, forma di legge, “di un’ingiunzione alla quale (…) [si] deve rispondere”20. Ci si deve, allora, chiedere se il “nazionale” sociale non sia anch’esso legato alla tradizione nostalgica, se si possa cioè parlare per la filosofia heideggeriana di “germanesimo”, inteso alla maniera völkisch, in cui la civiltà contadina e la purezza di un ambiente rurale incontaminato, modello di struttura sociale, si contrappone alla sterile Kultur metropolitana21. Va ricordato che Heidegger per due volte rifiutò la cattedra a Berlino, giustificando la decisione in uno scritto che emblematicamente titolava Perché rimaniamo in provincia?; ma com’è noto lemmi fondamentali del lessico filosofico heideggeriano traggono origine o hanno una matrice nel mondo dello Schwarzwald, così come il pensiero viene paragonato a sentieri di boscaioli che non hanno meta (Holzwege) o a un sentiero di campagna (Der Feldweg)22; tuttavia, sarebbe banale ridurre questa Erfharung des Denkes a simili analogie, come accostarla alla mitologia naziol-popolare del radicamento alla madre terra (Mutter Erde), o all’Heimat, intesa come focolare e comunità chiusa23. Al contrario, è necessario evitare di fare riferimenti a mitologemi che assumerebbero la funzione di struttura portante di un supposto edificio di pensiero heideggeriano, derubricato in tal modo a espressione di un’ideologia totalitaria, a una spiegazione del mondo e della storia totalizzante, ideologia che si farebbe logica del terrore, fondata sulla razza e sull’Uomo Totale. Una “politica”, isomma, che si sviluppa dal razionalismo della Mobilmachung, caratteristica delle metafisiche tecnologiche occidentali e delle democrazie anglo-americane da un lato, e che si ammanta di mythos per il Volk radicato e invitto nel segreto della Germania24, in modo del tutto irrazionale dall’altro. Ma l’indubbia appar 20 J. Derrida, Des Tours de Babel, in Id., Psyché. Invenzioni dell’altro, vol. I, tr. it. di R. Balzarotti, Jaca Book, Milano 2008, p. 235. 21 G. L. Mosse, Le origini culturali del terzo Reich, tr. it. di F. Saba-Sardi, il Saggiatore, Milano 2003, p. 32 sgg.; Id., Il dialogo ebraico-tedesco. Da Goethe a Hitler, tr. it. di D. Vogelmann, Giuntina, Firenze 1995. 22 M. Heidegger, Scritti politici, cit. (Fedier, da buon allievo di Beaufret, è uno strenuo difesore di Heidegger e un duro avversario contro la tendenza colpevolista da Farias a Trawny e Figal). M. Heidegger, Dall’esperienza del pensiero 1910-1976, tr. it. di N. Curcio, il melangolo, Genova 2011, pp. 67-83. 23 All’opposto E. Jabes, l libro della condivisione, tr it. di S. Mecatti e A. Panicali, Cortina Editore, 1992; M. Blanchot, La comunità inconfessabile, tr. it. e postfaz. di D. Gorret (La comunita, l’opera, la morte), pres. di J. L. Nancy (La comunità affrontata), SE, Milano 23002. 24 F. Fistetti (a cura di), La Germania segreta di Heidegger, Dedalo, Bari 2001; E. Kantorowicz, Germania segreta, a cura di G. Solla, Marietti 1820, Genova-Mila tenenza al nazionalsocialismo da parte di Heidegger non s’identifica con il nazismo in quanto Partito-Stato, la cui ideologia si fonda sul razzismo biologico ed eugenetico, pervicacemente sostenuto e teorizzato da Rosenberg, Krieck, Baeumler, nemici accaniti di Heidegger; se di ideologia razziale si può parlare, dato che il razzismo nulla possiede della nobiltà del concetto di ideologia, così come è estraneo a qualsiasi teoria scientifica, va detto anche che la contrarietà heideggeriana del razzismo consiste nell’accusa che egli rivolge al biologismo razziale e alla politica eugenetica di essere la prassi avanzata del pensiero metafisico, di essere la messa in atto della tecnica dell’eccidio. Una questione che va prioritariamente affrontata è allora l’interpretazione che può essere proposta del famoso passo dell’Introduzione alla metafisica: “ciò che oggi si gabella come filosofia del nazionalsocialismo – e che non ha unicamente che fare con l’intima verità e grandezza di questo movimento [c.m., ndr] (cioè l’incontro tra la tecnica planetaria e l’uomo moderno) – non fa che pescare nel torbido di questi ‘valori’ e di queste ‘totalità’” 25. Il periodo è stato interpretato come la convinta adesione di Heidegger al nazismo anche dopo le sue dimissioni da rettore; ma in realtà è un atto di accusa verso il regime e verso il NSDAP che ha tradito l’aspetto movimentista per farsi potere politico. Alla base di questa metamorfosi vi è la sempre più potente metafisica che viene contrabbandata come la vera filosofia del nazionalsocialismo, ma che altro non è se non il connubio tra la tecnica planetaria e la concezione dell’uomo moderno soggetto, forma-stato che trova il proprio fondamento teorico nel culto della razza, della volontà di potenza e della mitologia del Volk, nulla a che fare con “l’intima verità e grandezza di questo movimento”, ormai messo a tacere. La filosofia della dittatura, l’hitlerismo, trae i propri “concetti” e le proprie “categorie” dal territorio “torbido” della tecnologia biologistica e razziale e dalla metafisica soggettivistica moderna, valori diffusi a un popolo non più Volk, attraverso la propaganda e gli slogan di partito. In modo indiscutibilmente esatto, secondo Lacoue-Labarthe e Nancy, la cosiddetta “questione tedesca” riguardante il nazismo consiste nel fatto che “il razzismo è l’ideologia propria unicamente del totalitarismo tedesco in quanto tale questione è “fondamentalmente un problema di identità”26. Alla base di questa necessità iden no 2012; M. Bloch, La natura inperiale della Germania, a cura di G.G. Merlo e F. Mores, Castelvecchi, Roma 2015. 25 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit. 26 Ph. Lacoue-Labarthe, J.L. Nancy, Il mito nazi, tr. it. di C. Angelino, intr. di M. Gennari, il melangolo, Genova 2013. “La figura tedesca del totalitarismo è il raz titaria vi è il mito e la sua valenza “mimetica”; i miti, infatti, riproducono realtà archetipe che impongono modelli validi per l’individuo quanto per il popolo o uno Stato, modelli che vengono imitati per costruire un’identità. Ora, “la Germania (…) non è soltanto priva di identità, ciò che le manca è lo stesso possesso dei mezzi di identificazione”; se le cose stanno così, allora il ricorso ai miti greci e all’arte greca – basti pensare a Albert Speer27 – non è alla Grecia classica, ma a quella “arcaica e selvaggia”, a quella dorica – i Dori, come i Germani di Arminio, seppero resistere gli uni al misticismo orientale e gli altri ai barbari invasori romani28 –. Da ciò, Lacoue-Labarthe e Nancy affermano che il problema dell’identità tedesca passa non tanto attraverso il ritorno ai miti greci antichi ma in virtù della costruzione di un mito nuovo, di uno Stato totale inteso wagnerianamente come Gesamtkunstwerk29; “la produzione del politico come opera d’arte”. Come ha già ampiamente descritto G.L. Mosse, le origini culturali del nazismo vanno ricercate a pertire dalla metà del XIX secolo e non solo in Germania, dato che Paesi come la Francia, l’Inghilterra e l’America, non sono certo immuni dal razzismo30; sarà tuttavia Rosenberg nel suo Il mito del XX secolo ad esporre la teoria del mito della razza ariana, poiché “la razza è l’identità di una potenza che forma”, è l’anima è l’anima del popolo che si manifesta, non nella lingua materna31, ma nel sangue e nella terra (Blut und identizismo in quanto il problema tedesco è fondamentalmente un problema di tà”, p. 48; si veda pure la Nota 5, pp. 42-43, H. Arendt, Le origini del totalitarismo, tr. it. di A. Guadagnin, intr. di A. Martinelli, prefaz. di S. Forti (Le figure del male), Einaudi Torino 2004; S. Weil, Sulla Germania totalitaria, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1999. 27 A. Sperr, Memorie del Terzo Reich, tr. it. di E. Maffi e Q. Maffi, Mondadori, Milano 1997. 28 Publio CornelioTacito, Germania, a cura di E. Risari, Mondadori, Milano 2014. 29 R. Wagner, L’arte e la rivoluzione, a cura di N. Pennacchietti, Fahrenheit451, Roma 2003. Si trova anche on line. Si veda anche Ph. Lacoue-Labarthe, J.L. Nancy, Il mito nazi, cit, pp. 60-61. 30 A. De Gobineau, Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane, Edizioni di AR, Padova 1964; H.S. Chamberlain, Die Grundlagen des neunzehnten Jahrhunderts, (1899) Bruckmannn Verag, München 1909; A. Rosemberg, Il mito del XX secolo¸tr. it. di M. Mainardi, Thule Italia Editrice, s.l.; F. Céline, Bgatelle per un massacro, (1937), tr. it. di G. Pontiggia, intr. di U. Leonzio, Guanda, Milano 1981, ora in Internet AAARGH 2009; É. Zola, L’affaire Dreyfus, a cura di M. Sestili (L’élite e la politica. Émile Zola e l’affaire Dreyfus), prefaz. di R. Saviano, Giuntina, Firenze 2011. In America il segregazionismo è durato fino al 1964 con il Civil Rights Act. 31 Cfr. M. Heidegger, Linguaggio e terra natia, tr. it. di R. Cristin, in “aut aut”, n. 235, gennaio-febbraio 1990, pp. 3-24. Boden). L’ebreo, allora, è colui che non ha Seelengestalt, la forma della razza, non ha anima, è un essere in-forme, che con il suo agire produce i processi di imbarbarimento del mondo. Decisivo, a questo punto, per quanto riguarda Heidegger, è che l’identità, il proprio autoriconoscimento di un uomo come di un popolo, non consiste nel sangue o in un mito costruito artificiosamente – in virtù della tecnica della propaganda e di una Kultur nazional- popolare – su una “mistica” dell’arianesimo, del sole e della luce, del luminoso che si oppone “ai miti della notte, alle divinità ctonie”32, ma, al contrario, proprio nella lingua. In questa differenza, non solo teorica, filosofica ed esistenziale, ma anche interpretativa, ossia in grado di decidere l’accessibilità a un mondo, prende corpo il conflitto inconciliabile tra il pensiero heideggeriano e il razzismo hitleriano. In Heidegger, cioè, non vi è alcuana “reductio ad hitlerum” (ossia, “una teoria non è confutata dal fatto che è capitato di essere condivisa da Hitler”33) e tanto meno viceversa che Heidegger abbia condiviso la teoria della razza hitleriana34. Egli ha condiviso, e questo è innegabile, anche dopo il rettorato, e forse per tutta la vita, le idee movimentiste, non certo rivoluzionarie, del primo nazionalsocialismo, rivolte non tanto a un socialismo prussiano, teorizzato da Spengler né a un capitalismo finanziario borghese democratico specifico di un primo Sombart35, quanto a una ideologia nazional-comunitaria e sociale, antipolitica e antisistema, distruttiva di qualsiasi convenzione. 32 Ph. Lacoue- Labarthe, J.L. Nancy, Il mito nazi, cit., p. 70; L. Benoist, Segni simboli miti, tr. it. di A. Beltramelli, Garzanti, Milano 1976,; F. Jesi, Germania segreta. Miti nella cultura tedesca del ‘900, tr. it. e intr. a cura di A. Cavalletti (Mitologia e giustizia). Rosenberg e Krieck, a differenza di Heidegger, non considervano la lingua materna l’elemento originario e identitario di un popolo, ma lo ricercavano nel biologismo e nel mito della purezza del sangue. Hitler, in Mein Kampf, affermava che si può insegnare il tedesco a un ‘negro’, ma questi non diventerà mai un tedesco. 33 L. Strauss, Diritto naturale e storia, tr. it. di N. Pierri, prefaz. di G. Alpa; il melangolo, Genova 1990, p. 50 34 La tesi è sostenuta anche se con sfumature differenti da Trawny e da Di Cesare. Contro una tale interpretazione si veda uno per tutti F.W.von Herrmann, F. Alfieri, Martin Heidegger. La verità sui Quaderni neri, premessa di A. Heidegger, Morcelliana Brescia 2016. Nell’Appendice di C. Gualdana viene messo in evidenza il carattere mediatico che ha assunto in Italia, come in tutta Europa, il dibattito sui Quaderni neri di Heidegger e sul suo presunto antisemitismo. 35 W. Sombart, Il socialismo tedesco, Editrice il Corallo, Padova1981; Id., Perché negli StatiUniti non c’è non c’è il socialismo? (1906), tr. it. di G. Geri, prefaz. di G. Martinotti (E pluribus unum: America singolare), Bruno Mondadori, Milano 2006; O. Spengler, Prussianesimo e Socialismo (1933), a cura di C. Sandrelli, Ar, Padova 1994. L’adesione di Heidegger al nazionalsocialismo è tutta “politica” se con questo aggettivo, che funge anche da sostantivo, si intenda che nel movimento egli trovi la polis originaria a-politica, la polis in quanto polos lo zenith – l’iperboreicità nietzscheana – dell’esistenza destinale dell’Uomo Nuovo (Da-sein), e, assieme, l’opposizione ai sistemi determinatisi nel corso della storia (Historie): mercantilismo anglo-americano e repubbliche slave dei Soviet36, i primi detentori della ricchezza imperialistico-finanziaria, i secondi portatori dell’ideologia comunista che ha seppellito, secondo Heidegger, la grande tradizione culturale russa; entrambi i sistemi hanno in comune l’omologazione e il livellamento dell’uomo e la trasformazione delle cose in merci e oggetti. Non si potrebbe comprendere l’an-archia che solca il pensiero heideggeriano, il suo tentativo di affermare una modalità di pensiero che sfugga a ogni fondamento e descriva quell’Abgrund, abisso identitario del Seyn, se si affermasse che la filosofia di Heidegger coincide con la filosofia dell’hitlerismo. Anche perché l’hitlerismo non è il risultato e non si sviluppa in virtù di una filosofia – si potrebbe dire della filosofia tout-court – in quanto è vuoto agire, prassi e produzione infinite di un cupio dissolvi, la manifestazione apicale del nichilismo, la tecnica più spetata dell’annientamento. Il saggio di Levinas (1934) – questo sì esempio di alta filosofia – mostra la faccia violenta della concezione che il nazismo ha dell’uomo, il suo être rivé, l’essere inchiodato, come il Cristo, a una situazione storico-epocale “opposta alla nozione europea di uomo”, in quanto basata sul biologismo del sangue, sul fatto che il corpo non è altro dallo spirito ma anzi “ne diviene il cuore”, in quanto produce “il sentimento dell’identità”. L’uomo, così, vive una sorta di “incatenamento” che sente come propria condizione ontologica, e da questa corporizzazione dello spirito, da questo suo essere inchiodato all’organicità biologica, “deriva immediatamente una società a base consanguinea. E allora, se la razza non esiste, bisogna inventarla!”37. Dice bene Agamben nella sua introduzione al testo di Levinas, che questo non è “un atto di accusa”, ma una “rilevazione topografica”, che sempre e comunque ci riguarda. Troppo comodo il sottrarsi della “grande filosofia del Novecento” alla vicinanza, seppur di confine, con il nazismo, così 36 C. Schmitt, Terra e mare, a cura di F. Volpi (Il potere degli elementi), Adelphi, Milano 2002; W. Sombart, Merccanti ed eroi, a cura di F. Ingravalle, Aracne, Roma 2012. 37 E. Levinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, tr. it. di A. Cavalletti, intr. di G. Agamben, postfaz. di M. Abensour (“Il male elementale”), Quodlibet, Macerata 1996, p. 32. come non salva la propria coscienza “condannado un filosofo e assolvendone un altro” 38. Alla fine, Levinas afferma che il razzismo non si oppone soltanto alla cultura ebraica e cristiana, o alla democrazia parlamentare, ma ciò che “il regime dittatoriale” mette in causa “è l’umanità stessa dell’uomo”; Jaques Derrida in un suo saggio, decisivo per la comprensione della figura-chiave del Dasein e quindi della filosofia heideggeriana, scrive: “il pensiero dell’essere, il pensiero della verità dell’essere in nome del quale Heidegger de-limita l’umanesimo e la metafisica, resta un pensiero dell’uomo”39; ciò che nell’analitica del Dasein si prefigge Heidegger è la neutralizzazione della metafisica, dell’etica e in maniera particolare dell’antropologia, ossia di quell’idea di uomo che lo pone come ente dominante all’interno dell’“umanismo”. Ma, come si chiede nel Brief del ’46, pensare diversamente l’uomo – non più come animal rationale – bensì come e-sistenza, l’autentica modalità d’essere del Dasein dell’uomo, significa pensarlo come inumano? Heidegger sulla questione dell’uomo ha posto sempre un vallo intransitabile tra sé e la concezione razziale del regime nazista, così come la sua distanza dalla sfera della razionalità calcolante non può essere etichettata come irrazionalismo e la decostruzione della logica come contraddizione40. “Hier kehrt sich das um”, “qui tutto si rovescia”. Le categorie ontognoseologiche della filosofia platonico-aristotelica, tramandateci dal neokantismo e dal neotomismo41, che hanno una loro determinata gerarchia – The 38 “Come è stato opportunamente notato, l’être rivé (che compare significativamente la prima volta nel saggio del 1932 su Heidegger et l’ontologie) non è, in questo senso, altro che una ripresa e una radicalizzazione della Geworfenheit. L’uomo del nazismo condivide, cioè, con l’Esserci l’assunzione incondizionata della fatticità, l’esperienza di un essere senza essenza che ha da essere soltanto i suoi modi di essere”, G. Agamben, Introduzione a E. Levinas, Alcune riflessioni…, pp. 12-13. Cfr. anche G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1998. 39 J. Derrida, Fini dell’uomo, in Id., Margini della filosofia, a cura di M. Iofrida, Einaudi, Torino 1997, p. 176. 40 M. Heidegger, Lettera sull’“umanismo”, tr. it. di P. Dal Santo, intr. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano, pp. 46-47. Sulla inconciliabilità della filosofia heideggeriana con la visione del mondo nazionalsocialista, si veda M. Heidegger, Il rettorato 1933/34. Fatti e pensieri, in Id, L’autoaffermazione dell’università tedesca a cura di C. Angelino, il melangolo, Genova 1988. 41 P. Natorp, Dottrina platonica delle Idee, a cura di G. Reale (Paul Natorp e l’interpretazione neokantiana del pensiero di Platone), Vita e Pensiero, Milano 1999; Id., Tema e disposizione della “Metafisica” di Aristotele, tr. it. di V. Cicero, pref. e intr. di G. Reale (L’interpretazione della “Metafisica” di Aristotele proposta da Natorp e la sua importanza storica), Vita e Pensiero, Milano 1995; F. Brentano, Sui molteplici significati dell’essere secondo Aristotele, tr. it. di S. Tognoli, pref. e intr. di G. oria (sophia), Praxis (phronesis), Poiesis (techne) – vengono da Heidegger fenomenologicamente distrutte: la techne risulta l’anima della metafisica contemporanea, mentre la praxis, e la sua più alta applicazione che è la politica, in quanto agire, va ripensato essenzialmente, come indica l’incipit della Lettera sull’“umanismo”; infine il theorein, che presso i Greci verrebbe inteso come “immagine archetipa di un puro sapere fondato unicamente su setesso”, che tradizionalmente è chiamato “atteggiamento teoretico”42 o contemplativo; ma per Heidegger, la theoria non appartiene ai Greci, ma s’identifica con la suprema forma di una “prassi genuina”. Appiattimento della theoria sulla prassi e di entrambe sul fare (tun)43, sull’essere- all’opera (energheia) e dunque sulla tecnica: ecco l’autentica essenza della metafisica. La “dissoluzione dei referenti”44 significa che con la tenica “si è esaurito il ciclo degli enti supremamente veri e supremamente reali: Mondo, Dio, Uomo”; la “distretta essenziale, il domandare sulla verità e sull’essere, che ha come effetto la distruzione della ragione, provoca una serie di “dislocazioni” – la Vervindung della metafisica – che hanno abbandonato l’arché – il fondamento che regge l’impianto (Gestell) tecnico-metafisico – e dunque sono divenute anarchiche. L’anarchia heideggeriana travolge tutti quei “valori” – responsabilità, rispetto, dialogicità, solidarietà – e quelle “nozioni chiave” o “nozioni fondamentali” – finalità, volontà, libertà, decisione, scelta – che sono i significanti razionali della metafisica della tecnica. Il Denkversuch, il tentativo del pensiero heideggeriano, attraverso la Kehre che trasforma l’etica in ricerca sull’essere e “i concetti morali in concetti topologici”, mostra come la “chiusura metafisica”, propria dell’epoca della tecnica45 conduca al tramonto dei “principi epocali”, a una illusoria stabilizzazione del “reale” – Anwesenheit – in virtù dell’agire tecnico. L’exitus della “teleocrazia”, ossia la destituzione di ogni finalità,“ovvero la direzione allo scopo Reale, Vita e Pensiero, Milano 1995; F. Volpi, Heidegger e Brentano, CEDAM, Padova 1976; E. Berti, Aristotele nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 1992. 42 M. Heidegger, L’autoaffermazione dell’università tedesca, cit., p. 20. 43 R. Schurmann, Dai principî all’anarchia. Essere e agire in Heidegger, a cura di G. Carchia, il Mulino, Bologna 1995; ” la nozione del pensare della Arendt, opposta com’è a quella di vita activa, non è comunque heideggeriana, dal momento che per Heidegger il pensiero comprende l’agire. Per mostrare la vera portata dell’essenza di scopo secondo Holzwege, la Arendt è perciò costretta ad aggiungere il riferimento alla ‘vita stessa’”, nota 11, p. 497. 44 Ivi, p. 493 45 Heidegger, Lettera sull’“umanismo”, cit., pp. 46, 102-104; F. Volpi, È ancora possibile un’etica? Heidegger e la “filosofia pratica”, in “Acta Philosophica”, vol. 11 (2002), fasc. 2, pp. 291-313. dell’azione”46, l’entelechia aristotelica, progetto teorico di ogni fabbricazione e produzione, esperienza che sta alla base della metafisica, ha come conseguenza decisiva la dissoluzione della politica e di ogni agire politico, se non slegato da un fondamento teleologico all’interno di una strategia “antiteocratica”, la cui dislocazione decisiva è quella che Heidegger “traccia in rapporto ai fini della filosofia: una dislocazione a-teleocratica, anarchica”47. Più che di una “strategia anarchica”, che riporta sulle tracce di una segreta e implicita teleologia, è forse meglio parlare di comportamento (Ausgabe) e di compito del pensiero an-archico heideggeriano, di una politica senza principi (arche), ossia senza comando, an-archica e dinamica se dynamis è, aristotelicamente, “atto di una potenza in quanto tale”, il rimanere an-archico del potere. 2. Pensare Heidegger e il nazionalsocialismo Contro ogni forma di teoria della razza che si fonda su un’idea biologica di uomo – “la metafisica pensa l’uomo a partire dall’animalitas, e non pensa in direzione della sua humanitas”48 – inteso come animal rationale, contro ogni similitudine tra corpo umano e corpo dello Stato e ogni organicismo, Heidegger non ha mai smesso di condannare il biologismo e il razzismo fin dal corso del semestre invernale 1929/30 e, a suo dire, fu solo dopo il cosiddetto primo discorso della pace di Hitler49, che prese la decisione di impegnarsi in qualità di rettore e di filosofo al fine di avere “un’influenza immediata sul mutamento delle basi spirituali, ovvero non spiri 46 “Comunemente si ammette che ogni arte esercitata con metodo, e, parimenti, ogni azione compiuta in base a una scelta, mirino ad un bene”, Aristotele, Etica nicomachea, Libro I, 1094 a 1- 4; N. M. De Feo, Max Weber, La Nuova Italia, Firenze 1975, p. 7. “La dislocazione che accompagnano la dissoluzione dei referenti colpiscono le nozionui chiave attraverso cui i filosofi hanno tentato di comprendere l’azione”, R. Schurmann, Dai principi all’anarcia, cit., p. 493. 47 R. Schurmann, Dai principi all’anarchia, cit., p. 502. 48 M. Heidegger, Lettera sull’“umanismo”, cit., p. 46. Va sottolineato che Heidegger in questo luogo usa termini di origine latina forse anche per distinguersi da Fichte; chiarisce Derrida al proposito: “Se per un Tedesco la Menschheit o la Menschlichkeit resta sempre un concetto sensibile, per il Romano l’huminitas era diventata il simbolo di un’idea sovrasensibile”, J. Derrida, La mano di Heidegger, cit., p. 36 49 “Ero convinto, soprattutto dopo il discorso di pace pronunciato da Hitler il primo maggio del 1933, che la mia posizione spirituale e la mia concezione di fondo sui compiti dell’Università fossero conciliabili con la volontà politica del governo”, M. Heidegger, lettera del 4.11.1945, in Documenti, cit., p. 359. tuali, del movimento nazionalsocialista”, cioè sull’ideologia razziale di Rosenberg e Krieck. L’errore fatale di pensare l’essenza dell’uomo come zoe, come vita biologica sta a fondamento non solo della concezione metafisica che pensa l’uomo come sinolo di anima e corpo, di spiritualità e fisiologia, ma ugualmente dell’idea pseudoscientifica che pone differenze fisiognomiche e razziali all’interno del genere umano (Geschlecht). Soltanto l’uomo che ha nell’animalitas la sua essenza può essere pensato come un animale (vivente) inferiore o superire, solo l’homo metaphysicus può percorrere la strada dell’inumanità, in quanto pensare l’uomo come mero organismo al quale si aggiunge il logos – facendolo diventare persona, io, coscienza – lo pone all’interno della gradualità della vita, ossia della dottrina del valore o disvalore della vita stessa50. Fin dal Capodanno del 1934 Heidegger aveva compreso che il suo tentativo di incidere in modo fondamentale sull’ideologia del partito nazista per mutarne il corso epocale51 era fallito; il suo discorso di rettorato non era stato capito, e quei pochi gerrchi che lo avevano inteso lo avevo letto come pericoloso per la vita del partito. Nel memoriale del 1945, Heidegger afferma che si decise per accettare ad assumersi l’onere del rettorato per tre motivi: perché “il movimento giunto al potere” poteva essere “la possibilità di una più intima unità e di un più profondo rinnovamento del popolo, una via per trovare la propria destinazione nella storia come popolo dell’occidente”; il rettorato diveniva così la “possibilità di guiduidare tutte le forze potenziali”; e la speranza era quella di poter, assumendo quel ruolo, “contrastare l’avanzata di personalità inadatte e la minacciosa supremazia dell’apparato e della dottrina del partito”, ossia le teorie razziali di Rosenberg e il pedagogismo nazista di Krieck. Ciò che Heidegger ripudia, e non solo filosoficamente, è la biopolitica del partito nazista, in quanto la politica della razza, la politica dei moderni Stati totalitari, pone al centro della propria teoria la vita dell’uomo come essere vivente; Foucalt ha spiegato come funzionano le istituzioni degli ospedali e delle prigioni, ma non ha concluso il suo discorso sulla biopolitica con i campi di concentramento52. Secondo Agamben è soltanto perché 50 Si veda al proposito G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la vita nuda, Einaudi, Torino 1995, in partcolare la Parte terza, Ilcampo come paradigma biopolitico del moderno, pp. 129-211. Si veda pure R. Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004. 51 Cfr., P. Bourdieu, Führer della filosofia?. L’ontologia politica di Martin Heidegger, tr. it. di G. De Michele, il Mulino, Bologna 1989. 52 M. Foucalt, La nascita della clinica, a cura di A. Fontana, Einaudi, Torino 1969; Id., Storia della follia, a cura di M. Galzigna Rizzoli, Milano 2011; Id., Sorveglia la politica si è trasformata in biopolitica che “essa ha potuto costituirsi in misura prima sconosciuta come politica totalitaria”; la vita biologica – la zoe e non il bios – diviene nei totalitarismi “il fatto politicamente decisivo”, e il nuovo soggetto della politica nazista è la vita naturale, la “nuda vita”, sulla quale viene esercitata la potenza della decisione sovrana: “la visione del mondo nazionalsocialista muove dalla convinzione che suolo e sangue (Blut und Boden) costituiscono l’essenziale della Germanità, e che è, pertanto, in riferimento a queste due datità che una politica culturale e statuale deve essere orientata”53. È proprio questa “politica culturale” che Heidegger vuole combattere per far tornare il movimento alla sua originaria forza rivoluzionaria. Il “Blut und Boden” s’identifica infatti con la richiesta che sta alla base del partito nazista fattosi biopotere, ossia “chi sia o non sia Tedesco” e in tale interrogativo viene a concretizzarsi “il compito politico supremo” del regime; furono le leggi di Norimberga del 1935 – l’anno dell’Introduzione alla metafisica – a dividere i cittadini della Germania in Tedeschi e non Tedeschi. Ciò potè avvenire in virtù della legge sulla “protezione del sangue e dell’onore tedeschi” che proibiva matrimoni tra ebrei e non ebrei e vietava agli ebrei di avere rapporti sessuali con non ebrei, per mantenere la purezza del sangue tedesco; ogni trasgressione era considerata “reato di oltraggio razziale”. Anche la legge sulla “cittadinanza del Reich” era mirata alla divisione tra tedeschi di sangue (Reichsbürger) di contro a “membri di razze estranee” – gli ebrei – ai quali era interdetta la possibilità effettiva di svolgere una qualsiaisi attività lavorativa e sanciva l’obbligo di iscrizione alla Reichsvereinigung der Juden in Deutschland, ufficio che cadeva sotto il controllo della Gestapo, e il contemporaneo scioglimento di ogni associazione e organizzazione ebraica. Va aggiunto che fin dal 1920 – anche se a un nobile dibattito sull’eutanasia – viene introdotto il concetto di “vita indegna di essere vissuta” (lebensunverten Leben) che sarà poi alla base dell’hitleriano Euthanasie Program (Aktion T4) questo si fondava a sua volta sui “principi eugenetici che guidavano la biopolitica nazionalisocialista”, ed era rivolto a tutti quegli esseri umani la cui vita era giudicata indegna di essere vissuta e senza va re e punire, tr. it. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1993 volontà di sapere 53 A. Rosenberg, Blut und Ehre. Ein Kampf für deutsches Wiedergebut. Reden und Aufsätze 1919-33, München 1936, p. 242, citato da G. Agamben, Homo sacer, cit., p. 142, che offre un importante spunto di riflessione affermando che l’espressione “Blut und Boden”, se ha un valore politico così forte, ha altresì un’origine giuridica “innocua”, in quanto si riferisce allo ius soli (l’esser nato in un dato territorio) e allo ius sanguinis (l’esser nato da genitori cittadini) cioè ai due criteri che determinano la cittadinanza secondo il diritto romano, ivi, pp. 142-143. lore a causa di malattie fisiche e mentali ritenute incurabili, quindi la Gnadentod, la “morte per grazia”, data con solerzia dai medici-funzionari del nazismo, era l’exitus a cui furono sottoposti si stima 60.000 individui da un’età variabile da pochi mesi a 95 anni. Il programma fu sospeso per le proteste della Chiesa, ma più probabilmente per i costi economici che si dovevano sostenere per sopprimere queste persone. Nell’introduzione a Etat et Santé, volume pubblicato a Parigi nel 1942 dall’Institut Allemand si afferma: “i problemi trattati in questo libro non riguardano un solo popolo; esso solleva problemi di importanza vitale per tutta la vivibilità europea”; e rigorosamente chiosa Agamben: “solo in questa prospettiva acquista tutto il suo senso lo sterminio degli ebrei, in cui polizia e politica, motivi eugenetici e motivi ideologici, cura della salute e lotta contro il nemico diventano assolutamente indiscernibili”54 In questo modo, il regime nazista spezzava “la continuità tra uomo e cittadino, fra natività e nazionalità”, attraverso un processo di “denaturalizzazione e denazionalizzazione” che aveva avuto la sua genesi in Francia nel 1915 e che trovò nell’Italia fascista del 1926 una legge analoga di revoca della nazionalità per coloro che si fossero mostrati “indegni della cittadinanza italiana”55. Questa politica della separazione tra uomo e cittadino, tra amico e nemico56, produce “l’isolamento della vita sacra su cui si fonda la sovranità e il campo, cioè lo spazio puro dell’eccezione, [che] è il paradigma biopolitico”57; il legame tra vita umana e politica, in cui il fattore biologico è centrale, evidenzia come lo stesso totalitarismo si fondi su di esso: politica biologia, biologismo politico, in una parola bio-politica. La conseguente discriminazione e la succesiva Endlösung der Judenfrage possono essere comprese, a parere di Agamben, solo se vengono inserite all’interno della biopolitica e dell’eugenetica del regime nazista: “il totalitarismo del 54 Ivi, p. 164. La citazione di Etat e santé tratta dal medesimo testo a p. 163. Si veda anche O. Verschuer, Rassenhygienie als Wissenschaft und Staatsaufgabe, Frankfurt 1936 “che, scrive Agamben, per quanto possa sembrare sorprendente, continuò a insegnare genetica e antropologia all’università di Francoforte anche dopo la caduta del terzo Reich), p. 162. Va anche detto che Verschuer condusse proprii esperimenti a Auschwitz con la collaborazione del suo allievo Mengele. Nessuna Commissione giudicatrice fu mai istituita, forse perché anche nazioni come Francia, Gran Bretagna e America erano coinvolte nella ricerca genetica E, com’è noto, la sienza è sempre e soltanto neutrale. 55 Ivi, p. 146. 56 C. Schmitt, Le categorie del’ politico’, a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino 1972, pp. 195-196 57 G. Agamben, Homo sacer, cit. p. 148; si veda Id., Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003 nostro secolo ha il suo fondamento in questa identità dinamica di vita e politica e, senza di questa, rimane incomprensibile”. Se il nazismo resta un ancora un enigma, una domanda alla quale non sappiamo rispondere, anche se così non pensa Hannah Arendt, è perché non lo si è collocato all’interno del contesto di una politica fondata sul biologismo della vita nuda58. La tesi che Agamben sostiene in Homo sacer – “la relazione fra Heidegger e il nazismo (…) solo se la si situa nella prospettiva della bio-politica moderna (cosa che tanto gli accusatori che gli apologeti hanno omesso di fare [pura falsità, ma poco importa, annota Derrida]) assume il significato suo proprio”59 – viene criticata con particolare vis polemica da Derrida in La bestia e il sovrano60, secondo il quale in Heidegger la differenza tra zoé e bios – proprio in virtù della sua critica al Biologismus (è interessante notare l’uso del termine di derivazione latina) – investe l’uomo in quanto animal rationale e il suo agire ‘politico’ e non fissa, come vuole Agamben, un confine invalicabile tra i due termini, “lungo il quale Agamben costruisce tutto il proprio discorso”. I brani citati da Derrida della Lettera sull’“ umanismo” e dell’Introduzione alla metafisica intendono mostrare come la tesi del filosofo italiano sulla “vicinanza originaria” di Heidegger con il nazionalsocialismo sia scorretta, proprio in quanto Agamben non prende in considerazione i testi heideggeriani sull’“interpretazione zoologica dell’uomo” fornita dalla metafisica; quando Heidegger condanna il biologismo moderno e “denuncia come metafisico e insufficientemente analitico lo zoologismo” della definizione dell’uomo come zoon logon echon e zoon politikon, si muove proprio in quella direzione “falsamente inedita” in cui si muove Agamben e che accredita a Foucault di avere inaugurato; ma Foucault non cita Heidegger, quando tratta di bio-politica in la Volonta di sapere, così come la traduzione audace di zoé con “nuda vita”, vita senza qualità, il mero vivere nel senso di non essere morto, “‘la vita come sola vita’ come diceva il testardo schernito da Heidegger, ‘Den Eigensinnigen ist Leben nur Leben’”61. Secondo Derrida non è la distinzione tra zoé e bios a fondare “l’evento fondativo” della modernità, che la politica avrebbe omesso. Se si va a leggere la Politica di Aristotele si comprende che la zoé dello zoon politikon è “una zoé qualificata e non nuda” così 58 “Quando vita e politica, divisi in origine e articolati fra loro attraverso la terra di nessuno dello stato di eccezione, in cui abità la nuda vita, tendono a identificarsi, allora tutta la vita diventa sacra e tutta la politica diventa eccezione”, ivi, p. 165. 59 Ivi, p. 167. 60 J. Derrida, La bestia e il sovrano, vol. I (2001-2002), cit., pp. 397-410. 61 Ivi, p. 403. come la “zoè aristé kai aidios”, “la vita nobile ed eterna di Dio”; Derrida non nega che ci sia ora o che i totalitarismi siano stati una nuova forma di bio-potere, ma suggerisce che “il ‘bio-potere’ stesso non sia nuovo. Ci sono novità straordinarie nel bio-potere, ma il bio-potere, o lo zoo-potere, non è nuovo”. In questo senso, allora, la bio-politica ha origini e radici antiche e lontane nel tempo ed è legta all’idea di sovranità. Ciò che Derrida sottolinea, e che riveste per la tesi che si va sostenendo un momento cruciale, è che la rinuncia a pensare un “evento fondativo” non significa “sottovalutare l’evenemenzialità che segna e sigla, secondo me, ciò che accade, senza appunto che qualche fondazione o qualche decisione lo assicuri mai”62 Simon Weil nel suo saggio sulle origini dell’hitlerismo del 1939 parla di “eterna Germania” e del razzismo nazista, sostenendo la tesi – per molti versi messa in discussione – che la Germania hitleriana abbia le medesime caratteristiche della Roma di Cesare: “tra le popolazioni descritte da Cesare e Tacito e gli attuali Tedeschi non c’è alcuna somiglianza. Se ne vuole trovare una nel fatto che queste popolazioni amavano guerreggiare (…) Hitler e i suoi non amano la guerra, amano il dominio e sognano solo la pace, una pace (…) sottomessa alle loro volontà; è proprio il caso dell’antica Roma”63; e secondo Tacito i Germani avevano un’inclinazione alla guerra poiché disprezzavano il lavoro, tratto, afferma la Weil, che li accomuna più agli Spagnoli ma non ai Tedeschi contemporanei versati all’industria e al lavoro ostinato; i Germani invece, ancora per Tacito, “hanno tanto amore per l’inazione e tanto odio per la tranquillità”64. I Germani, insomma, non sono gli antenati di Hitler, ma strano a dirsi, i nazisti sono simili ai Romani, proprio loro che predicano l’odio per la Romanitas; il carattere che impedisce la discendenza dai Germani, descritti da Cesare e da Tacito, consiste nel fatto che questi erano liberi, semplici d’animo e privi di scaltrezza politica, l’opposto del popolo tedesco del 1939. L’analogia e il parallelismo tra il sistema di potere hitleriano e l’impero romano viene analizzato tanto per quanto riguarda la politica estera quanto per quella interna; la prima si basa sulla convinzione di “essere una razza superiore nata per comandare” che si esprime nella più spietata crudeltà e violenza, nella 62 Ivi, p. 411. “L’abisso non è il fondo, il fondamento originario (Urgrund), ovviamente, né la profondità senza fondo (Ungrund) di qualche fondo nascosto. L’abisso, se esiste, sta nel fatto che vi sia più di un suolo, più di un solido, e più di una sola soglia”, ibidem. 63 S. Weil, Sulla Germania totalitaria, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1999, p. 210. 64 Tacito, Germanaia, IV, 3,; XIV, 4 –XV, 1. Cfr., G. Anders, Heidegger esteta dell’inazione, in F. Volpi (a cura di), Su Heidegger. Cinque voci ebraiche, Donzelli, Roma 1998. costante e assillante propaganda, basata su perfidia e falsità – quelle che oggi si chiamano fakes news –; ogni romano come ogni nazista è “un divulgatore” al servizio del potere e Roma come la Germania – “salvo rare eccezioni, come Lucrezio, unico autentico discepolo dei Greci” – sono, per Romani e Tedeschi, al di sopra di ogni cosa65. Allo stesso modo, in politica interna, hitlerismo e romanitas hanno le medeime “virtù”: ordine, metodo, disciplina, obbedienza, ostinazione, coscienziosità nello svolgere i propri compiti anche quelli più feroci e abbietti; centralizzazione dello Stato, annientamento delle opposizioni, anche interne – si pensi alla notte dei lunghi coltelli del 1934 –, il culto della personalità e le simbologie del potere66. E in più l’inumanità, la cifra della civiltà tanto romana quanto nazista: “se la Germania, grazie a Hitler e ai suoi successori, asservisse le nazioni europee e vi distruggesse la maggior parte dei tesori del passato, la storia direbbe certamente che essa ha civilizzato l’Europa”67. Hitler invade i Sudeti e schiaccia la Boemia così come Roma s’impadroniva di territori facendoli diventare province dell’Impero; “il potere di un uomo non è esercitato in modo più assoluto e più brutale a Berlino di quanto non lo fu a Roma” e prima Weil afferma: “i campi di concentramento non sono un mezzo più efficace per distruggere la virtù dell’umanità di quanto non lo furono i giochi dei gladiatori e le sofferenze degli schiavi”68. Sono queste ultime affermazioni non condivisibili, paragoni che non tengono; la lettura metastorica di Simon Weil, non regge non tanto perché gli eventi storici sono tra loro temporalmente distanti, ma perché la forma di vita, l’etica, e l’uomo stesso sono mutati nella loro essenza; il senso del vivere e morire – si pensi a Seneca – sono incomparabilmente differenti e non si può essere d’accordo con la conclusione: “ugualmente lo spirito dei due sistemi, all’interno come all’esterno, appare come pressoché identico e merita espressioni identiche, sia di lode sia di esecrazione”69. E invece è proprio lo spirito a essere il discrimine. Il nazionalsocialismo non ha spirito e non è un movimento spirituale, non è nemmeno un’ideologia, poiché alla sua base sta l’odio e il rancore per ogni forma di alterità, per quanti si avvicinano al recinto germanico, che immediatamente sono considerati come nemici, circondadosi di deserto e solitudine; nessuna civiltà, nessuna Kultur, se non quella delirante della razza e della superiorita tedesca über Alles. Non si 65 S. Weil, Sulla Germania totalitaria, cit., p. 241. 66 G. Galli, Hitler e il nazismo magico, Rizzoli, Milano 1994. 67 S. Weil, Sulla Germania totalitaria, cit., p. 254. 68 Ivi, p. 263. 69 Ivi, p. 264. comprendono le affermazioni e le tesi di Simon Weil che sposa, con palese contraddizione, una anti-Romanitas, tipica della Völkischbewegung, e ancor prima di Hegel e dell’idealismo tedesco fino a Heidegger, con l’eccezione, quasi scontata, di Nietzsche. Ma forse un testo che meglio di altri e con impareggiabile amara ironia quanto profondità di analisi culturale prende di mira il nazionalsocialismo è La terza notte di Valpurga di Karl Kraus70, che apre con un’affermazione che disorienta: “su Hitler non mi viene in mente niete”, perché di fronte a una malattia mortale e mortifera, la nostra mente smette, quasi per difesa, di pensare. Kraus non sottovaluta affatto il potere nefasto di Hitler, anzi più di altri studiosi della dittatura nazista, egli coglie anche i minimi dettagli della crudeltà mentale e della violenza sadica che connota la dittatura; “siamo di fronte allla banalità del male, a una visione del nazismo che molto si avvicina a quella, tanto criticata e dibattuta, della Arendt”71. Il testo però racconta senza perifrasi la brutalità e le violenze che subiscono gli Ebrei, le torture ai quali vengono sottoposti gli oppositori, gli orrori dei campi di concentramento e l’antisemitismo dilagante, il rogo dei libri, il sangue e la terra, la sfilata dei Goebbels, Göring e la presenza costante e inquietante del Führer, il “Nazireno”, “il Salvatore che ha fatto diramare la notizia dell’incendio del Reichstag a opera dei comunisti, un’ora prima che accadesse”72. Ma non vengono risparmiati nemmeno Heidegger e Gottfried Benn. L’ironia che colpisce Heidegger è tagliente e puntuale: ecco, ad esempio, il pensatore Heidegger che ora vende fumo tinto di bruno e inizia a riconoscere che il mondo spirituale di un popolo è “Il potere della conservazione profonda delle forze della propria terra e del proprio sangue, quale potere della più intima eccitazione e del più vasto scoinvolgimento del suo essere”. Ho sempre saputo che è più vicino al vero senso della vita un calzolaio della Boemia piuttosto che un pensatore neotedesco”73. Il “romanticismo burocratico” che caratterizza l’epoca della dittatura “ha come fine la schiavitù, un pullulare di gente da utilizza 70 K. Kraus, La terza notte di Valpurga a cura di P. Sorge, Editori Internazionali Riuniti, Roma 2012. 71 P. Sorge, Introduzione a K. Kraus, La terza notte di Valpurga, cit., p. 15. 72 K. Kraus, La terza notte di Valpurga, cit., p. 346. 73 Ivi, pp. 86- 87. “Heidegger, che a tempo debito tratta del ‘servizio militare dello spirito’, non tralascia di dire come si deve agire: ‘bisogna agire nel senso della resistenza scoperta e della domanda, in mezzo all’incertezza dell’essere del tutto’. Per fortuna il giornale che riporta la citazione ci dà un punto fermo: ‘Assaggia e conserva il meglio: i formaggi Berna’. Tuttavia si continua ad andare a tentoni”, ivi, p. 87. re: narratori, guaritori e ora anche quei galoppini del trascendente che fanno mostra di sé nelle facoltà e sulle riviste, che allestiscono la filosofia tedesca come preparazione al pensiero di Hitler. Se per un verso mette in chiaro il suo rapporto privilegiato con Nietzsche – critico feroce del nazionalismo, lontano da ogni forma di brutalità e di disgustosa crudeltà nazista, in virtù della sua “inclinazione per le forme di vita romaniche e semitiche”74; sicuramente più aspra è la critica rivolta a Benn, vero voltaggabana, prima appartenente al fronte di sinistra e poi aderente in toto alle teorie nazionalsocialiste, propagandate da Goebbels75. E tuttavia c’è in Kraus un’attenzione particolare – che sarà poi condivisa anche da Heidegger – alla lingua e al linguaggio: infatti se la propaganda di regime predica “il risveglio della nazione”, Kraus sottolinea come questa dittatura “oggi possiede tutto tranne la lingua”; e il contadino che “considera il certificato di cittadinanza un diploma e non ha più un passaporto ma un unico segno particolare: quello di essere tedesco”, è il simbolo di ciò che è accaduto: “ciò che è successo la lingua lo può esprimere solo con un balbettio”76; Heidegger sceglierà il silenzio. Ci si deve chiedere, giunti a questo punto, non tanto se Heidegger sia stato o meno coinvolto con il nazionalsocialismo, bensì comprendere come poterlo collocare durante gli anni della dittatura, e in che modo poi il nazionalsocialismo abbia inciso nel suo pensiero e se questo non abbia avuto una deriva antisemita. Va quindi specificato quanto e come – a differenza di quanto sostiene Emanuel Faye –77 la filosofia di Heidegger differisca dalla posizione del regime hitleriano, in particolar modo dopo la presa di potere e la strutturazione in partito del nazionalsocialismo. È probabile che sucessivamente ad avvenimenti particolarmente gravi come la “notte dei lunghi coltelli” e il “rogo dei libri” del 1934 e le leggi di Norimberga del 1935, Heidegger decidesse di dimettersi da rettore78, allontanandosi sempre più 74 In Ecce homo Nietzsche afferma: “tutti i delitti contro la cultura commessi negli ultimi quattrocento anni pesano sulla coscienza dei tedeschi” e da lui proviene la frase: “‘i tedeschi sono canaglie – un uomo si degrada se li frequenta’. A queste affermazioni sarebbe assicurato un millennio di campo di concentramento in loro compagnia. ‘Che benedizione un ebreo fra i tedeschi’”, ivi, pp. 93-94. 75 Si veda il paragrafo che titola La pazzia ir-razionale, ivi, pp. 96-113. 76 Ivi, pp. 23 e 25. 77 E. Faye, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, cit.; F. Fédier, Heidegger e la politica. Anatomia di uno scandalo, tr. it. di M. Borghi, a cura di G. Zaccaria, EGEA, Milano 1993. 78 Lo stesso Heidegger afferma che le sue dimissioni furono sollecitate e da quel momento fu sottoposto a un controllo che portò poi le sfere politiche del partito nazista ad accusare la sua filosofia di “nichilismo” marcatamente dall’impostazione ‘culturale’, caratterizzata dal filosofo come la totale mancanza di spirito79, prima con l’Introduzione alla metafisica e poi con i saggi e le conferenze romane del 193680. Pur non volendo entrare nella polemica tutta mediatica tra colpevolisti e innocentisti, già ampiamente ricca di una dotta pubblicistica, credo di poter affermare che il “caso Heidegger” sia un unicum, tanto per la grandezza del filosofo quanto per la sua ondivaga ambiguità81. È probabile che l’errore che Heidegger compie non sia – come egli stesso ammette – unico, ma duplice. Nel paragrafo 219 dei cosiddetti Schwarze Hefte (1931/38)82 egli afferma: “L’autoaffermazione dell’università tedesca ovvero – il piccolo intermezzo di un grande errore”; Heidegger subito dopo le dimissioni da rettore (ma forse anche durante il suo breve mandato) è pienamente cosciente di aver compiuto un errore – fatale per il suo futuro – che rappresenta il suo engangement ‘politico’; secondo Heidegger l’errore consisterebbe nell’aver accettato l’ottica politica trascurando la sua originaria attività, ossia la ricerca del compito del pensiero. Una parentesi di questo “grande errore” consiste nella Rektoratsrede, cioè nel progetto di rifondazione dell’università tedesca, tramite e in virtù di una rivoluzionaria interpretazione della scienza greca che doveva essere il nuovo inizio, le fondamenta del nuovo sapere dell’università e quindi del popolo tedesco in tutte le sue componenti. Forse l’aspetto più forte è la critica alla theoria concepita come “atteggiamento contemplativo”, ossia come metafisica, lettura invalsa dall’illuminismo humboldtiano sino all’aristotelismo neotomista di Brentano e al platonismo neokantiano di Natorp. Ma più grave appare il secondo errore di cui Heidegger sembra non esserne cosciente, e che per un certo senso è legato al primo: il non aver compreso nella sua essenza il nazionalsocialismo; la gia citata celebre afferma 79 Si veda su questa figura così difficile da sviscerare, almeno in Heidegger, che compare nel suo pensiero solo a partire da un determinato periodo il testo di J. Derrida, Dello spirito. Heidegger e la questione, tr. it. di G. Zaccaria, Feltrinelli, Milano 1989. 80 M. Heidegger, H.G. Gadamer, LEuropa e la filosofia, tr. it. e intr. di J. Bednarich, postfaz. di M. Riedel, (Heidegger e l’Europa); in particolare M. Heidegger, L’Europa e la filosofia tedesca, pp. 19-36. Si veda pure Id., L’origine dell’opera d’arte, in Id., Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze1968. 81 Si veda A. Fabris, Heidegger: l’ambiguità della decisione tra filosofia e politica, in Id. (a cura di), Metafisica e antisemitismo, ETS, Pisa 2014, pp. 109-128. J. Derrida, H.G. Gadamer, Ph. Lacoue-Labarthe, Il caso Heidegger. Una filosofia nazista?, a cura di S. Facioni, Mimesis, Milano-Udine 2015. 82 M. Heidegger, Quaderni neri, 1931-/38, [Riflessioni II-VI], tr. it. di A. Iadicicco, a cura di P. Trawny, Bompiani Milano 2015, p. 263 [144], qui Riflessione III. zione che si trova nell’Introduzione alla metafisica83, e di cui si è proposta una differente interpretazione, dimostra la totale incomprensione del fenomeno nazionalsocialista, e quindi dell’evento che ha contrassegnato il mondo contemporaneo, che non si può e non si deve risolvere in una Machinisierung, in un dominio della razionalità tecnica che lo renderebbe una prigione dorata, senza carcerieri ma con un’umanità di prigionieri84. Ciò che Heidegger non comprende – a differenza di H. Arendt o di Th. Mann 85– è che il fondamento della modernità non consiste nel tramontare, certamente non il tramonto di Spengler86 quanto piuttosto quello nietzscheano, e nemmeno si fonda sulla scientificità “illuministico-massonica”, e sulla Götterdammerung, l’assenza di dio e la scomparsa degli dèi. Così, per Heidegger, il nazionalsocialismo, divenuto partito hitleriano, riveste il ruolo fondamentale della Modernità, in quanto assume a suo carattere il vitalismo biologistico-razziale e con ciò la potenza razionale della tecnica. La macchinazione, che politicamente si traduce in organizzazione, organizzazione che ha come fine la morte, l’estinzione, il nichilismo che, paradossalmente, esalta la “vita vera” di nietzscheana derivazione, in quanto vita razzialmente pura, diviene il potere stesso, e ciò vale, tanto per la Germania hitleriana, quanto per l’America democratica. Entrambe le due potenze che si combattono – e in ciò consiste a nostro avviso la critica di maggior peso che Heidegger muove al nazismo in quanto organizzazione statale (l’Unione sovietica non è considerata tale) – fondano la loro potenza, costruiscono 83 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 203. 84 L’esempio portato da M. Foucault in Sorvegliare e punire, tr. it. di a. Tarchetti, Einaudi, Torino 1976, del Panapticon di J. Bentham, rispecchiala critica distruttiva all’utilitarismo che Heidegger muove durante tutto il suo Denkweg. La critica all’utilitarismo di Bentham si trova, ma in termini economici, anche i K. Marx, Il capitale, Libro I, a cura di D. Cantimori, intr. di M. Dobb, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 103-115. 85 Si veda Th. Mann, Fratello Hitler e altri scritti sulla questione ebraica, tr. it., C. Lombardo, C. Origlio, Mondadori, Milano 2005. Il testo mette in rilievo la fascinazione di cui è vittima il popolo tedesco e tra gli altri anche Heidegger, basti ricordare il dialogo avvenuto in occasione dell’ultima visita di Heidegger a Jaspers nel giugno del 1933. Jaspers chiedeva a Heidegger ‘com’è possibile che un ignorante come Hitler possa governare in Germania?’ e la risposta di Heidegger fu lapidaria: ‘la cultura è del tutto indifferente […] basta guardare alle sue meravigliose mani’”, cfr. V. Farias, Heidegger e il nazismo, tr. it. M. Marchetti 1988, Bollati Boringhieri, Torino 1988, p 144, citato da R. Safranski, Heidegger e il suo tempo, tr. it. di N. Curcio, Longanesi, Milano 1996, p. 283. 86 M. Heidegger, Quaderni neri, 1931/1938, Riflessione VI, § 105, Tramonto dell’Occidente?, p. 632 [99]. il loro Wille zur Macht, sulla tecnica e sulla tecnologia, applicazione utilitaristica di questa, ormai dimentiche della loro origine greca. Il pensiero politico di Heidegger si caratterizza come un atteggiamento antiborghese, che non ha a che fare con il “neoromanticismo” di Diederichs, movimento che aveva assorbito completamente le idee razziste e le aveva ordinate in una pseudoscienza secondo l’ideologia del Volk, e le aveva poi sviluppate in un estremismo nazional-patriottico87. Il suo pensiero si rivolge piuttosto a una forma di distruzione rivoluzionaria, a una continua lotta per il socialismo non sovietico ma nazionale; e una tale impostazione ideologica – che si può trovare fin dall’inizio dei primi corsi di Friburgo – lo porta su posizioni di an-archia, di deprivazione di qualsiasi fondamento per l’uomo. È infatti nella forma rivoluzionaria e movimentista dell’anarchia antiborghese che per Heidegger si può superare – nel senso di Verwindung – quella che considera la politica del quotidiano, caratterizzata dalla macchinazione, politica divenuta essa stessa tecnica, “vuoto affaccendarsi” intorno a beghe di partito, il tutto all’interno di una sterile dialettica parlamentare- democratica. L’autentica politica non si basa sulla polis, intesa come sede del discutere politico e del fare politica, bensì in una più originaria forma di polis che viene a significare polos, ossia centro che attira l’uomo nella sua dimensione storica autentica. La politica, in tal modo, intesa in senso classico, aristotelicamente, come la forma più alta di phronesis, non ha, per Heidegger, alcuna valenza, ma è solo la prassi dell’uomo zoon politikon, di quell’ente che vive, e soltanto in tal modo può vivere, all’interno della koinonia politike, della moderna societas civilis sive Status; al di fuori della polis è solo la bestia o dio, come indica Aristotele. Il rifiuto heideggeriano della “politica”, dopo l’engangement del ’33, dimostra che essendo figlia della filosofia metafisica, essa va oltrepassata in senso storico-destinale (Geschichte) e non deve costituire un nuovo Stato – il dritte Reich di George e di Moeller van den Bruck, esponenti della “rivoluzione conservatrice” –, ma anzi demolire qualsiasi idea di organizzazione statale e amministrativa. Se si vuole ricercare un altro uomo, che trovi nel Dasein la sua e-sistenza, che si prenda cura dell’Essere (Seyn) con la povertà del pastore, allora diviene necessario abbandonare ogni fondamento, sia esso etico, metafisico o scientifico, in una parola razionale. 87 “Il ‘neoromanticismo’ (…) diede un volto accettabile e insieme impartì nuovo impulso all’ideologia, procedendendo di conserva con la tipologia razziale e le fantasticherie antico-germaniche”, G.L. Mosse, Le origini culturali del terzo Reich, cit., pp. 79-100. Se nel 1931-32 – il semestre invernale dedicato a Platone – Heidegger afferma ad alcuni studenti di essere un seguace del nazionalsocialismo, egli vede nel NSDP “una forza ordinatrice nella miseria della crisi economica e nel caos del crollo della Repubblica di Weimar, ma soprattutto un baluardo contro il pericolo di una rivoluzione comunista”; tuttavia, non siamo ancora al pensare il nazionalsocialismo come la svolta storica, “la rivoluzione di tutto l’essere umano”. È dunque la paura della rivoluzione comunista e della dittatura del proletariato a far scegliere la dittatura che avrebbe dovuto salvare l’uomo e la cultura europei. Va detto – a dimostrazione del disinteresse per la politica e di un atteggiamento deliggitimante – che nel 1932, secondo la testimonianza del figlio Hermann, Heidegger votò, in una tornata del Reichstag, a favore del partito dei viticoltori del Würtenberg. In una lettera a Elisabeth Blochmann del 22 giugno del 1932, citata da Nolte88, Heidegger si dimostra critico dello Zentrum e della sua “politica degli ultimi due anni”, e non di quello della sua giovinezza,“accanto alla chiesa cattolica e ai suoi valori” che ha provato sulla sua pelle; se “il comunismo e affini sono orribili, tuttavia sono qualcosa di nitido – il gesuitismo invece è – mi perdoni – diabolico”; il Centro, infatti, ha favorito il liberalismo con il suo “livellamento generale”, che si gioca in un abbassamento (Herbsetzen) dei modelli e,“in ciò che è molto più pericoloso (…), [nel] loro innalzamento fino a una mediocrità ben definita, che si governa saldamente”89. Disprezzo per la nuova politica dello Zentrum (gesuitismo), terrore del comunismo e del socialismo rivoluzionario, ma allo stesso tempo l’opposizione totale al liberalismo e ai suoi metodi politici che si nutrono di livellamento e di mediocrità della Kultur, che in tal modo è più facilmente governabile, questa posizione heideggeriana di rifiuto della politica attiva durante la Repubblica di Weimar – è da sottolineare che non fa parola del nazionalsocialismo – manifesta come il filosofo rifletta sulla situazione del paese da un punto di vista movimentista che tende ad abbattere ogni struttura democratica e annienti il nemico comunista. L’errore irreparabile che segnerà tutta la vita di Heidegger sta per essere compiuto e la ragione consiste nel fatto che Heidegger crede che il nazionalsocialismo sia l’unica vera rivoluzione90. 88 E. Nolte, Martin Heidegger tra politica e storia, tr. it. di N. Curcio, Laterza, Roma- Bari 1994, p. 131. 89 M. Heidegger, E. Blochmann, Carteggio 1918-1969, a cura di R. Brusotti, il melangolo 1991, pp. 89-90. 90 La tesi di Nolte consiste proprio nel cercare di dimostrare come il nazionalsocialismo sia stato a tutti gli effetti una rivoluzione; tesi ovviamente insostenibile. Non voglio qui sostenere, tuttavia, che la filosofia di Heidegger sia la filosofia dell’hitlerismo, e che con i suoi corsi abbia giustificato la dittatura e lo sterminio; anzi credo che proprio attraverso le sue lezioni abbia cercato – a partire almeno dal semestre estivo 193491 – di criticare via via in maniera sempre più convinta il regime nazista trasformatosi in qualcosa che non poteva più condividere. Ciò che continuò a condividere fu il tentativo abortito di un movimento – violento e reazionario – di mutare le sorti dell’Europa e della sua civiltà, fondata su valori che Heidegger riteneva ormai – dopo lo studio di Nietzsche, che deve essere fatto risalire alle prime esperienze filosofiche friburghesi – superati e decadenti. La critica della modernità fa tutt’uno con la critica alla democrazia. In particolare si riscontra, dopo la Rektoratsrede, un carattere particolare che potremmo definire “antiamericanismo”. L’ostilità verso il Nuovo Mondo, che Heidegger manifesta in maniera evidente nel corso già preso in esame del semestre estivo del 1942 – ossia dopo l’entrata in guerra dell’America contro la Germania e l’Italia – si differenzia da altre posizioni di intellettuali legati al nazionalsocialismo – come quelle ad esempio di Jünger e di Schmitt – come anche di quelle marxiste, in particolare di Gramsci92, in quanto vede nel “mondo anglosassone dell’americanismo”, la volontà e la decisione di “annientare l’Europa, ossia la terra natale, ossia l’inizio di tutto ciò che è occidentale”93. Tali affermazioni si trovano all’interno di una riflessione sulla metafisica che si trova all’inizio della Parte seconda – l’interpretazione greca dell’uomo, tratta dall’Antigone di Sofocle, uno sviluppo organico di quanto aveva già approntato nella Introduzione alla metafisica del 1935 – del corso in questione. Heidegger ci viene a dire che anche il pensiero qui espresso è ancora “metafisico”, non per un residuo di cristianesimo, espresso pure nella forma della “svalutazione” (il rimando a Nietzsche è fin troppo banale) ma perché soltanto nel XX secolo si dà il trionfo della tecnica e della macchina, espressioni apicali della metafisica contemporanea. È quindi all’interno della riflessione sulla tecnica come espressione massima della metafisica e sull’uomo tecnologico che Heidegger inserisce la riflessione sull’americanismo e sui guasti che esso genera nella civiltà (Kultur) europea. Se il “tratto estraneo”, in virtù del 91 M. Heidegger, Logica e linguaggio, a cura di U. Ugazio, Marinotti, Milano 2008. In realtà Heidegger avrebbe dovuto tenere un corso sullo Stato e la filosofia, ma vista la presenza di SS in aula cambio l’argomento rendendendo ai delatori impossibile seguire quanto diceva. 92 A. Gramsci, Americanismo e fordismo, Quaderno 22, Einaudi, Torino 1978. 93 M. Heidegger, L’inno Der Ister di Hölderlin, cit., p. 53. quale l’uomo occidentale ed europeo fa esperienza della propria spaesatezza compiendo il viaggio di ritorno, nostos, verso la casa, per quella che Heidegger definisce “umanità storica dei Tedeschi” si ritrova, seguendo Hölderlin, nella grecità; la grecità, e tutto ciò che è greco, non può essere “tedesco”. Hölderlin intende la grecità non al modo dei romantici in quanto ritorno all’origine né tantomeno all’interpretazione che Nietzsche ne dà nella Nascita della tragedia, poiché, secondo Heidegger “troppo facilmente dimentichiamo che Nietzsche dall’alto del suo pensiero metafisico ha rinnegato la grecità a favore della romanità”94. L’Europa americanizzata, l’ampliamento dei confini dell’Occidente95 alle terre transoceaniche, la conversione dell’uomo e della società europea al totem tecnologico, innesca un processo irreversibile di desertificazione, di abbandono del tratto estraneo, perdendo in tal modo ogni possibilità di attraversamento di tale tratto e dunque di poter pervenire a casa, ossia giungere in quel tratto che è il tratto proprio dell’uomo deinotaton. Afferma Heidegger: “l’entrata dell’America nella presente guerra planetaria non è un’entrata nella storia, ma è già l’ultimo atto americano dell’assenza americana di storia e della desertificazione”; e tuttavia la reazione è ferma e violenta: “lo spirito nascosto del tratto iniziale dell’Occidente non riserverà a questo processo di desertificazione attuato come assenza d’inizio nemmeno uno sguardo di disprezzo”. La mancanza di storia è assenza di esistenza autentica, omologazione della vita umana, che ha subito una metamorfosi tecnica; ora la forma di vita che si impone è quella meccanizzata e artificiale, tecnica e metafisica, senza memoria e senza destino. Come, dunque, opporsi a tale deserto, dove tutto è progresso e tutto ciò che viene creato dall’uomo artifex viene subito superato e dimenticato? “Saper-attendere”, che non vuol dire lasciare che i fatti accadano, o “chiudere gli occhi all’avanzare delle tenebre”; saper-attendere “significa essere già saltati anticipatamente in ciò che è indistruttibile”, ossia “al punto d’avvio della storicità autentica”, a quell’inizio che fa dell’uomo un uomo storico, attraverso il dolore e il sacrificio; attendere, vivere l’attesa è prendersi cura; e tutte queste figure, pur avvicinandosi per analogia alla 94 Ibidem. Heidegger, come Hegel, anche se per motivi assolutamente differenti, vede nella Romanitas l’inizio del dominio dell’umanismo e dell’uomo metafisico. Cfr. M.Heidegger, Lettera sull’“umanismo”, cit. 95 E. Jünger-C. Schmitt, Il nodo di Gordio. Dialogo su Oriente e Occidente nella storia del mondo, tr. it. di G. Panzieri, intr. di C. Galli, il Mulino, Bologna 1987; C. Schmitt, Il nomos della terra, tr. it. e postfaz. di E. Castrucci (La ricerca del nomos), Adelphi, Milano 2003. lettura paolina, vanno comprese all’interno di un orizzonte “ateo” e storicamente an-archico. L’americanismo, divenuto origine della metafisica contemporanea, sede eletta della tecnica e del suo sviluppo, ha come principio fondamentale l’utilitarismo, principio dell’economia capitalistica che ormai ha fatto aggio sulla politica; il sistema democratico vive soltanto in un ambiente creato dall’econonomia di mercato votata all’utile e alla speculazione finanziaria del gioco borsistico, totalmente improduttiva ma creatrice di denaro per mezzo di denaro. Il principio dell’utilitarismo è il principio della quantità che prevale sulla qualità, è la contraddizione sulla quale si basa la razionalità anglo-americana tecnologica e tecnocratica: da una parte il continuo risparmio di energia e dall’altro il dispendio di beni e materie prime. Ovviamente, tale dispendio non ha nulla a che fare con il concetto di dépense, formulato da Bataille, che sottende una logica della reciprocità del donare96. Contro il mondo della quantatità, che è l’universo del calcolare, Heidegger propone un mondo liberato dall’economia, se non intesa in senso originario come oikos nomos, governo della casa, ossia come l’abitare dell’uomo in quella dimensione spirituale che solo il distacco dalla Metropoli e dal suo stile di vita gli può dare. Nessun contatto con la Thule-Gesellschaft e con un ruralismo di stampo nazista; nessuna adesione a sette segrete, la decisione di vivere per lo più nella Foresta nera, significa il rifiuto del modello cosmopolita della socità contemporanea, e allo stesso tempo l’affermazione della povertà come essenza dell’uomo e dell’esistenza, povertà che non è pauperismo ma rifiuto di qualsiasi ricchezza dei principî della ragione, un “fare a meno” dei fondamenti e della sicurezza della notorietà e del lusso. E questa scelta heideggeriana, in tutto e per tutto an- archica, non può essere paragonata alla posizione della Rivoluzione conservatrice e alla sua estetica (si pensi a Hofmannsthal e a George) né al Waldgänger jüngeriano97; se proprio bisogna trovare delle analogie allora una tale modalità di vita assomiglia agli eroi negativi di Knut Hamsun, per il quale Heidegger aveva dimostrato la sua vicinanza spirituale. In realtà Heidegger sottolinea il fatto che la quantità è divenuta, per mezzo della ratio, ossia della capacità di calcolare, essa stessa una qualità, la più alta e la prima di tutte le qualità in quanto è la categoria par excellen 96 G. Bataille, La nozione di dépense, in Id., La parte maledetta, tr. it. di F. Serna, intr. di F. Rella, Bertani, Verona 1972; M. Mauss, Saggio sul dono, tr. it. di F. Zannino, intr. di M. Aime (Da Maus al MAUSS), Einaudi, Torino 2002. 97 E. Jünger, Trattato del ribelle, tr. it. di F. Bovoli, Adelphi, Milano 1990; Id., Visita a Godenholm, tr. it. di A. Vigliani, Adelphi, Milano 2008. ce della metafisica; la misurazione anche di ciò che l’uomo considera “gigantesco” è possibile in virtù della categoria ontologica della quantità e “il gigantesco” appare come le infinite possibilità che il progresso umano possiede in base alla tecnica: “il primato della quantità – afferma Heidegger – è esso stesso una qualità, ossia un modo di essere, il modo di essere di ciò che non ha misura” il gigantesco, appunto. Non aver misura come modalità di essere è la stessa essenza di ciò che Heidegger denomina come americanismo; e “il bolscevismo è solo una degenerazione dell’americanismo”98. In una lunga annotazione dei Quaderni neri, Heidegger afferma che il bolscevismo – considerato come “potere dispotico-proletario dei soviet” non è né “asiatico” né “russo”, “bensì appartiene al compimento della modernità determinata nel suo principio in modo occidentale”; detto in altri termini per Heidegger – che non fa differenze tra rivoluzione leninista e dittatura staliniana – ciò che in modo dispregiativo viene chiamato “bolscevismo” rappresenterebbe la forma ultima della modernità e quindi sarebbe una variante del pensiero metafisico moderno. Ciò che fa riflettere, tuttavia, è ciò che segue, ossia che ciò che Heidegger definisce “‘socialismo’ autoritario (nelle variazioni del fascismo e del nazionalsocialismo) è una forma corrispondente (non uguale) del compimento della modernità”99; e stupisce in primo luogo la differenza tra dispotismo-proletario e socialismo autoritario, cioè tra la forma stato del dispotismo e quella dell’autoritarismo e in secondo luogo che – e questo è una notevole presa di distacco dal nazismo – fascismo e nazionalsocialismo, anche se con modalità differenti anch’essi sono espressioni del “compimento della modernità”, dell’epoca della fine della metafisica che cede il passo alla tecnologia e all’organizzazione totale come sue forme contemporanee: “il bolscevismo e il socialismo autoritario sono metafisicamente la stessa cosa”100.”Il nome socialismo”, afferma Heidegger, apparentemente è un complesso di strutture assistenziali per il “popolo”, in realtà è “l’organizzazione politico-militare- 98 M. Heidegger, L’inno Der Ister di Hölderlin, cit., p. 65. 99 M. Heidegger, Quaderni neri, Riflessioni XII-XV,1939-1941, cit., Riflessione XIII, paragrafo 73, p. 139 (42). 100 Ibidem. “La rivoluzione metafisica è quell’avvolgere e riavvolgere in se stessa – che inizia in quanto compimento della metafisica – la vita trsformatasi in soggetto – vita per la vita – pura potenza indominabile degli “interessi” della “vita”, la quale non esprime essa stessa queste pretese, bensì affatto va a finire in mezzo a esse e prepara il sempre più cieco avvolgimento della vita (…) e trasforma tutto con la tecnica suprema in un colossale storicismo e dunque esce addirittura dall’orizzonte della vicinanza e lontananza dall’Essere”, Riflessione XIII, cit., paragrafo 5, p. 100 (2). economica delle masse” cosicché è la “classe” a divenire l’elemento dominante. Entrambe le forme di socialismo (bolscevismo e nazionalsocialismo), del compimento della storia della metafisica e assieme a essa della modernità, fondano la propria esistenza nell’ “abbandono dell’essere dell’ente”. La liberazione del Russentum consiste nel suo procedere verso la sua propria storia (“non razza” sottolinea Heidegger), così come deve fare il Deutschtum avviandosi verso la sua autentica storia (Geschichte). Allora il pericolo assoluto non consiste in una “bolscevizzazione dell’Europa”, ma nel non riconoscere il compimento della metafisica, che “non si lascia arrestare” e si afferma come il fondamento inconcusso e unico dell’uomo e della sua storia. Nell’ “esclusività” e nel conseguente successo di questo non riconoscimento consiste la forza e il dominio “della macchinazione in senso metafisico”. Il pericolo è là dove l’uomo ha dimenticato la possibilità di un nuovo inizio storico che afferma la Verwindung della metafisica e della tecnica; porre “obiettivi” in virtù di concetti e principi metafisici che diano benessere e assicurino una vita comoda e serena pretendono “il consenso, e tale consenso al tempo stesso assicura loro la “verità”. In poche parole il pericolo in cui vive costantemente l’uomo consiste nell’oblio e nell’abbandono dell’essere. Si può evitare tale situazione, si può sfuggire al compimento della modernità? L’uomo è convinto di creare la macchinazione, e tuttavia è proprio l’uomo preso nel vortice del fare, in quella che Heidegger chiama, Machsamkeit, “la conformità al fare della macchinazione”101. Comunismo dispotico e socialismo autoritario hanno nella metafisica e nel compimento della modernità il loro terreno comune e Heidegger pone l’accento sul fatto che ciò, storicamente, significa che “le decisioni essenziali sull’essere e sulla verità restano sconosciute”. La nuova visione del mondo corrisponde a nuova dimensione della “politica” e del “politico” (das Politische) e questo totale mutamento che consegna ai “provvedimenti” l’innalzamento a potenza priva di limiti la metafisica della modernità compiuta, produce nell’ “essere borghesi (Bürglihkeit)” e nella “cristianità, che pensano in maniera troppo breve e che restano aggrappati a vuoti ideali” un sentimento di stupore e di indignazione, ma non di rivolta. I provvedimenti della politica sono frutto del calcolo della ratio che libera dai vincoli, che rinuncia alla relazione con l’essere per costriurne una sulla macchinazione e sulla sua considerazione dell’enticità. E tuttavia, l’uomo moderno non ha ancora trovato il modo di essere pienamente soggetto, così come lo richiede la macchinazione, ambito entro il quale si producono i 101 Ivi, p. 142. provvedimenti che coinvolgono anche la sfera spirituale e assiologica, proprio in quanto spirito e valori potenziano la macchinazione e sono agli ordini e al servizio di questa. Ormai, la macchinazione si è appropriata non solo del corpo ma anche dell’interiorità dell’uomo. L’inclinazione all’utile e al calcolo, soprattutto in ambito economico-finanziario, deriva dal mondo anglo-americano, in virtù dello sviluppo incondizionato della tecnica e della macchinazione, inclinazione che viene opporunamente mascherata per mezzo di un’etica tipica di quel mondo; non si tratta qui di un riferimento alla weberiana etica del protestantesimo come spirito del capitalismo, piuttosto in questo luogo Heidegger intende evidenziare l’incapacità di un tale sistema sociale e politico di qualsiasi “essenziale decisione spirituale”, e di aver quindi delegato “alla ‘psicologia’ e al calcolo logicistico” la cura presunta “per la tradizione dell’antichità classica”, “elemento ‘spirituale’” letto in senso “antiquario” e “immorale”; in questo modello di vita consiste il pericolo più alto. Viceversa il bolscevismo – che deriva dal sistema tecnico anglo-americano, poiché esso stesso si fonda sulla macchinazione – è, afferma Heidegger, un “fenomeno innocuo” per la sua specifica “grossolanità” e il suo “carattere di massa”. Che Heidegger nutra un sentimento di totale avversione per il socialismo sovietico, per quello che lui chiama bolscevismo o socialismo dispotico è cosa assodata e le dichiarazioni si moltiplicano: “il socialismo è dispoticamente potere proletario in cui la tecnica non è una mera aggiunta né uno strumento – bensì forma fondamentale di attribuzione del potere. Questo socialismo è l’essenza del bolscevismo”102. Tale definizione Heidegger la deriva da una famosa frase tratta da un discorso del 1920 di Lenin: “socialismo è potere sovietico più elettrificazione”; il commento di Heidegger sottolinea come il socialismo sia un “potere”, ossia “la liberazione di un dispotismo che costringe una proletarizzazione dell’intero popolo e lo tiene negli artigli (…). Socialismo è dispotismo” più la forma più evoluta della tecnica ossia l’elettrificazione. Ma questo socialismo dispotico, che rende impossibile “ogni domanda ‘spirituale’ e ‘storica’”, considerate inutili se non deleterie esigenze individuali, abbassa la vita degli uomini ai meri bisogni materiali e agli “interessi” che si possano e si devono raggiungere, a “standard” sempre più elevati, nel solco del più “liberalistico” dei sistemi. Più indietro Heidegger distingue in maniera netta il bolscevismo tanto dall’elemento asiatico quanto dallo “slavismo dei russi” come, e in maniera radicale, dallo stesso carattere russo (Russentum) “vale a dire con la fondamentale essenza ariana”; e tuttavia, poco dopo, Heidegger sottolinea come 102 M. Heidegger, Riflessioni XIII, cit., paragrafo 96, p. 166 (71). “ogni pensiero razziale è moderno, si muove nella traiettoria della concezione dell’uomo in quanto soggetto. Nel pensiero razziale il soggettivismo della modernità viene compiuto tramite la corporeità nel soggetto e la completa interpretazione del soggetto in quanto umanità della massa degli uomini”103, in tal modo si pongono le basi, i fondamenti logico-razionali, per l’accrescimento della potenza e del dominio della macchinazione. Viceversa il bolscevismo è figlio della metafisica occidentale “razionale e moderna”, poiché esso si distingue essenzialmente dal “popolo russo-slavo” (Volkstum) in quanto trova la propria origine storica nella modernità sviluppata dalla macchinazione, ed è questa la differenza tra Russentum e Bolscevismus. Quella che Heidegger chiama “l’articolazione del potere della realtà storiografica”, ossia della storia intesa dal punto di vista metafisico, ha portato a una degenerazione dei singoli nazionalismi che ora si mostrano come imperialismo: “il ruolo del socialismo è l’ampliamento dell’imperialismo. Lo stimolo va a incitare ciò che è dispotico”104. L’imperialismo, frutto del “proletariato dispotico”, viene potenziato dalla “macchinazione incondizionata”; di più, l’imperialismo sovietico si consegna “all’incondizionata schiavitù della macchinazione” e quella che Heidegger definisce “rivoluzione occidentale”105, non porta a un nuovo inizio ma a una “fine”. Ciò che qui si vuole sottolineare è che il dominio incondizionato della tecnica e della macchina conduce alla dissoluzione delle dittature personali o personalistiche (persönlich/personschaft) “nel dispotismo di nessuno”, ossia nel processo sempre più potente e incondizionato “dell’illimitato pianificare e calcolare” e questa “storia”, che è quella prodotta dalla metafisica, afferma soltanto “la potenza del nulla”. A tutto ciò sembra non sottrarsi il nazionalsocialismo trasformatosi in Sistema-Stato; in questo senso, allora, tanto la scelta “imperialistico-bellica”, quanto quella “umanitario-pacifista” rappresentano, per Heidegger, soltanto “opinioni” (Gesinnungen) afferenti alla storiografia osssia alla storia come metafisica, sono gli addentellati della metafisica. 103 Id., Riflessioni XII, cit., paragrafo 26, p. 61 (70). “Che nell’epoca della macchinazione la razza venga elevata a “principio” esplicito e specificamente costituito dalla storia (o solo dalla storiografia) non è una trovata arbitraria dei ‘dottrinari’, bensì una conseguenza della potenza della macchinazione che costringe forzatamente l’ente (…) nel calcolo della pianificazione”, ivi, paragrafo 38, p. 71. 104 Ivi, paragrafo 101, p. 169. 105 “Questa rivoluzione non è tuttavia la mera Estensione Quantitativa del bolscevismo alla Germania e all’Occidente – bensì in quanto fine, è qualcosa di unico e proprio”, ivi, p. 170. In questa situazione storica, contraddistinta dalla Rivoluzione, l’Occidente si penserà ancora come il baluardo a difesa dei valori europei che combattono contro questa rivoluzione che è l’essenza delle rivoluzioni moderne (inglese, americana, francese); ma ciò che qui risulta decisivo è l’affermazione che chi combatte per il “dominio del mondo” vive come coloro che sono “schiacciati”, poiché carnefice e vittima, vincitore e vinto, stanno tutti all’interno dell’universo della metafisica “e restano esclusi da ciò che è altro”. Se il bolscevismo, cioè secondo Heidegger la forma del “capitalismo di Stato autoritario che non ha minimamente a che fare con il socialismo sentimentale” non è nulla di asiatico e si distingue per essenza dal carattere russo (das Russentum), la Russia non è Asia, ma non appartiene nemmeno all’Europa: “che cos’è allora?” si chiede Heidegger. Lo spirito del popolo russo è stato soggiogato dal dispotismo tecnico-industriale del bolscevismo che ha svolto il ruolo di tutti i sistemi occidentali e ormai pensa in modo occidentale, cioè metafisico. Soltanto in virtù di una “Meditazione Storica” da parte dell’Occidente e del popolo tedesco si può liberare l’autentico carattere russo dal giogo bolscevico; la condizione è che i Tedeschi e gli Europei dimentichino la modalità di vita che finora li ha resi schiavi della macchinazione e del progresso. Con parole che suonano spaventose e purtroppo profetiche Heidegger afferma: “forse un’inaudita distruzione dell’Europa moderna verrà in auito per l’avvio di questa dimenticanza”; e poco più avanti “ l’invisibile desertificazione, in questa seconda guerra mondiale, sarà più grande (più travolgente) delle sue visibili distruzioni”106. Allora, non è attraverso una “superamericanizzazione” che si potrà sconfiggere l’America e il mondo anglossassone; in questo modo “andremo in rovina per esso”. La scienza e la tecnologia specifiche dell’americanismo sono “senza sapere”, in un altro luogo Heidegger affermerà che “la scienza non pensa”107, cioè non consistono nella verità dell’essere. La conoscenza anglosassone è mera oggettivazione mentre il sapere autentico che si radica nella verità “è conoscenza senza oggettivazione del conosciuto e spostamento dello stesso nell’ente”108. La caratteristica fondamentale del mondo anglosassone e dell’americanismo consiste per Heidegger nel fatto che la quantità, in virtù della ratio – cioè della capacità di calcolare –, è divenuta qualità, la prima e la più im 106 Ivi, paragrafo 103, p. 173 e paragrafo 124, p. 190. 107 M. Heidegger, Che cosa significa pensare? Tr. it. di U. Ugazio e G. Vattimo, Prefazione di G. Vattimo, Sugarco, Milano 1996. 108 Id., Riflessioni XV, cit., p. 355 (39). portante di tutte le qualità, in quanto è la categoria par excellence della metafisica; il rapportarsi e il confrontarsi con ciò che l’uomo considera “gigantesco”, o “colossale”, è possibile soltanto grazie alla categoria ontologica della quantità, e “il gigantesco” appare come le infinite possibilità del progresso umano in base al procedere della tecnica: “questo primato della quantità è esso stesso una qualità, ossia un modo di essere, il modo di essere di ciò che non ha misura”109. Il “non aver misura” come modalità d’essere, è l’essenza di ciò che Heidegger denomina “americanismo”; il modo d’essere dell’americanismo è, dunque, il “gigantesco”, ciò che non può venir misurato, che fuoriesce dalla dimensione della misura e in ciò consiste il pericolo di questa forma di vita occidentale che si è imposta in Europa, una modalità d’essere “senza misura”, un vivere pensando che tutti i limiti possano essere infranti con le capacità fornite all’uomo dalla tecnologia110, proprio quell’Occidente che si fonda sull’antropocentrismo e sull’idea umanistica dell’homo mensura. Ma è proprio tale idea, tale visione del mondo e dell’umano che pone la quantità, l’assenza di limiti, come il predominante, come la struttura ontologica che fa dell’ente-soggetto la creatura che non si pone limiti e che trova lo scopo della vita nel superamento delle Colonne d’Ercole che di volta in volta gli si oppongono. L’americanismo,“il difensore democratico dei cittadini”, assorbendo e omogeneizzandosi con i valori e la visione del mondo del cristianesimo, con il suo umanismo che sovrasta e alla fine elimina l’idea di Dio111, si decide per l’assenza di storia. È quest’ultimo elemento, “la decisione dell’assenza di storia”, a segnare in senso nichilistico – così come lo intende Heidegger – e metafisico la forma di vita o se si vuole il modo d’essere, ossia l’esistenza, che l’America e il mondo anglossassone ha esportato come unico modello valido per l’esserci dell’uomo nel mondo. Di fronte alla forza di questa invasione e di questa imposizione, che ha le fattezze del progresso tecnologico indefinito e illimitato, a chi pensa l’essenza dell’uomo come l’ente più inquietante (deinotaton) e non come la creatura che calcola e che è soggetta alla tecnica, come l’uomo inquietante che ha di mira l’aumento incessante della quantità, l’uomo “alla maniera degli Americani”112, resta la possibilità di pensare senza fondamenti, di abitare il 109 M. Heidegger, L’inno Der Ister di Hölderlin, cit., p. 65. 110 Il movimento del postumanismo sorto e sviluppatosi in America è forse l’esempio più eclatante di tale tendenza. 111 Cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza, Opere di Friedrich Nietzsche, ed. it. diretta da G. Colli e M. Montanari, Vol. V. Tomo II, tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1967, paragrafo 125 L’uomo folle. 112 M. Heidegger, L’inno Der Ister di Hölderlin, cit., 83. mondo riconoscendosi nel silenzio dell’ascolto, nel paesaggio dell’an-archia, in cui l’uomo ha la capacità di dire “è”, o meglio “la capacità di dire in generale”: “solo perché sa dire ‘qualcosa è’, l’uomo sa dire poi anche ‘io sono’, non il contrario. E poiché l’uomo sa dire ‘è’, poiché quindi ‘ha’ il rapporto con l’essere, allora è capace in generale di dire, ‘ha’ la parola ed è zoon logon echon”113. In questa capacità di rovesciamento dei principi e delle definizioni fondamentali dell’uomo consiste l’an-archia di Heidegger. 113 Ibidem. CAPITOLO QUARTO 1. Alcune note sul rapporto di Heidegger con l’ebraismo. In conclusione di questo lavoro, rimaneva una parte scoperta, oggi particolarmente rivitalizzata da una polemica senza esclusione di colpi, del pensiero di Heidegger: quello del suo eventuale rapporto con l’ebraismo. Di proposito non intendo entrare in questa controversia sul suo supposto antisemitismo, sostenuto, in particolar modo dal curatore dei Quaderni neri, Peter Trawny, in Germania, da Donatella di Cesare in Italia e da Emmanuel Faye in Francia, per citare soltanto gli studiosi più noti1. Vorrei invece riportare alcune voci che affrontano il problema non in quanto colpevolisti o apologeti, bensì nella complessità storica e filosofica che la questione assume per la nostra contemporaneità. In un testo che potrà sembrare datatato – la Conferenza di Heidelberg a cui si fa cenno è del 1988 – e ormai superato dagli eventi – molti corsi e scritti esoterici heideggeriani sono stati nel frattempo pubblicati –, come ricorda nella sua Nota del 2014 J.L. Nancy, esso “ha accompagnato una storia sempre più carica di mutazioni profonde dalle conseguenze del tutto imprevedibili”2. È evidente che le conoscenze acquisite in questi vent’anni di studi critici sul pensiero heideggeriano mettono in rilievo differenze anche notevoli, ma credo non sostanziali. La pubblicazione poi degli Schwarze Hefte ha posto in tutta la sua cogenza la questione dell’antisemitismo che investirebbe tutta la filosofia di Heidegger. Va detto che la tesi sotenuta da Trawny di un “antisemitismo onto-storico” se da un lato non prende 1 P. Trawny, Heidegger e il mito della cospirazione ebraica, tr. it. di C. Caradonna, Bompiani, Milano 2015; D. Di Cesare, Heidegger e gli Ebrei, Bollati Boringhieri, Torino 2014. 2 Il testo al quale si fa riferimento è J. Derrida, H.G. Gadamer, Ph. Lacoue-Labarthe, Il caso Heidegger. Una filosofia nazista?, tr. it. di S. Facioni, Mimemis, Milano- Udine 2015. Il documento è il testo del dibattito che il 5 febbraio 1988 si svolse all’Università di Heidelberg tra i filosofi citati. in considerazione il fatto che nei corsi e nelle opere finora pubblicati del filosofo non appaia alcun accenno all’antisemitismo, dall’altro – e su ciò va fatta una necessaria riflessione – il silenzio di Heidegger sullo sterminio e su Auschuwitz darebbe la stura a collocare il filoso nel banco degli imputati per un “crimine impunito”. Ma già nel 1988 J. Derrida poneva in primo piano il silenzio e l’idea di “responsabilità”3. Come sottolinea ancora Nancy, il fatto che nelle opere pubblicate non vi sia traccia di antisemitismo – tranne che nei Quaderni neri – dimostra come per Heidegger il fenomeno antisemita avesse un “carattere secondario (…), non ‘esistenziale’ ma semplicemente categoriale o empirico”, era insomma null’altro che “la potenza devastatrice dell’‘oblio’”4 dell’essere. L’Auseinandersetzung del Convegno di Heidelberg si poneva il compito di discutere sulla “portata filosofica e politica del pensiero di Heidegger”, e come afferma Mirelle Calle-Gruber nel suo breve scritto5 “il contesto, da ogni punto di vista, era esplosivo”, non soltanto perché nello stesso anno era stato pubblicato il libro di Farias6, che aveva scatenato furiose polemiche, ma anche perché “tale clima di polemiche insanabili investivano il rimosso politico francese: l’antisemitismo, il collaborazionismo, la Resistenza, i crimini del regime di Vichy”. Al di là di quelle che sono state definite “tesi revisionistiche”, non è assolutamente possibile dare un colpo di spugna sul comportamento adotttato da Heidegger non solo nei confronti del periodo della dittatura hitleriana ma tanto meno della “ferita del pensiero”, per dirla con Derrida che riprende Blanchot, ossia il suo silenzio su Auschwitz. Se si operasse in tal modo, tralasciando la responsabilità oggettiva e soggettiva di Heidegger non potremmo compren 3 Oltre al già citato testo della Conferenza di Heidelberg, si veda anche il volume collettaneo Risposta. A colloquio con Martin Heidegger, tr. it. C. Tatasciore, intr. di E. Mazzarella, Guida, Napoli 1992, pp. 181-185. 4 J.L. Nancy, Nota 2014, in J. Derrida, H.G. Gadamer, Ph. Lacoue-Labarthe, Il caso Heidegger, cit., p. 10. 5 M. Calle-Gruber, Evento d’archivio, ivi, pp. 15-23, qui p. 15. 6 Le posizioni sul libro di V. Farias, Heidegger e il nazismo, tr. it. di M. Marchetti, Bollati Boringhieri, Torino 1988, vanno da una condannna senza appello che dununcia “gli errori e perfino la disonestà dell’amalgama” (M. Calle-Gruber, Op cit., p.28) da Fedier a Beaufret (si veda J. Beaufret, In cammino con Heidegger. Conversazioni con Frédéric de Towarnicki, tr. it. e cura di S.Esengrini, postfazione di F. Fedier, Marinotti, Milano 2008; F. Fedier, Heidegger e la politica. Anatomia di uno scandalo, tr. it. di M. Borghi, a cura di G. Zaccaria, Milano 1993) ad una assoluzione con riserva da parte di J. Habermas in “laRepubblica”, 24 ottobre 1987; si veda anche il volume di F. Papa, razionalizzazione distruttiva.Saggi sul pensiero politico del Novecento, in particolare le pp. 149-150 e la nota 130. dere come forse il più importante filosofo del Novecento abbia potuto sviluppare un profondo engagenment con il nazionalsocialismo; di più non avremmo modo di porci il problema e cercare una soluzione di ciò che è accaduto negli anni Trenta-Quaranta del secolo scorso, ossia “lo sterminio su scala industriale degli ebrei”, e che non può trovare pace in un pensiero del nascondimento e dell’occultamento della questione dell’esere. Tuttavia, secondo Gadamer in un articolo di Le Nouvel Observateur – citato nel breve saggio di Calle-Gruber, afferma senza dar adito a dubbi: “ma Heidegger non si sentiva responsabile delle terribili conseguenze della presa di potere da parte di Hitler, della nuova barbarie, delle leggi di Norimberga, del terrore, del sangue versato e, per finire, dell’incancellabile vergogna dei campi di sterminio? La risposta è rigorosamente: no”7. Se Gadamer tiene una posizione di difesa del comportamento di Heidegger riguardo allo sterminio “nei campi della morte” (secondo Gadamer, Heidegger “fu talmente scandalizzato da questo fatto che non è riuscito nemmeno ad aprire la bocca”8), non va accettata nemmeno la distinzione posta in essere da Calle-Gruber tra l’appartenenza a un “nazionalsocialismo volgare” e a un “nazionalsocialismo spirituale”, come se il secondo, al quale sarebbe iscritto Heidegger, non avesse le stesse responsabilità del primo9. E nemmeno la pur nota posizione anticlericale di Heidegger, sia per quanto riguarda il cristianesimo che l’ebraismo, può giustificare “l’imperdonabile silenzio di fronte ad Auschwitz”10. Differente è l’approccio di Derrida alla questione dell’adesione di Heidegger al nazionalsocialismo e del silenzio sulla Shoah; nessuno pretende di “assolvere, discolpare, scagionare Heidegger da qualunque tipo di colpa”, e tuttavia la demonizzazione – a partire dal libro di Farias e che oggi si è arricchita del presunto atisemitismo “metafisico” o “ontostorico”, se 7 H.G. Gadamer, Come Platone a Siracusa, in J. Derrida, Ph. Lacoue-Labarthe, H.G.Gadamer, Il caso Heidegger, cit. pp. 91-93. Si veda anche H.G. Gadamer, Superficialità e ignoranza. In merito alla pubblicazione di Victor Farias, in G. Neske, E. Kettering (hrsg. von), Antwort. Martin Heidegger in Gespräch, Pfullingen, G. Neske Verlag 1988, tr. it. di C. Tatasciore, Risposta a colloquio con Martin Heidegger, Guida Napoli 1992, pp. 175-179. 8 J. Derrida, H.G. Gadamer, Ph. Lacoue-Labarthe, Il caso Heidegger, p. 61. 9 Cfr. K. Jaspers, Philosophische Autobiographie, Piper Verlag, Munich 1984, dove l’autore riporta una frase inquietante di Heidegger del maggio del 1933, in una conversazione privata: “Es gibt doch eine gefärliche internationale Verbindung der Juden” (“Tuttavia esiste una pericolosa associazione internazionale degli Ebrei”), p. 101. Questa affermazione come quelle, anche se poche, contenute nei Quaderni neri appartengono al più trito e volgare antisemitismo di cui si nutre il nazismo. 10 M. Calle-Gruber, Evento d’archivio in J. Derrida et. Al., Il caso Heidegger, cit., p. 20. condo le versioni rispettivamente di Di Cesare e di Trawny – porta soltanto a una semplificazione e a un livellamento delle questioni fondamentali, ossia cos’è stato il nazismo e perché il filosofo considerato la voce più originale e forse più importante del Novecento11 abbia intrattenuto con esso un rapporto, seppur ambiguo12, almeno sino alla cosiddetta “notte dei lunghi coltelli” (30 giugno 1934), data fatale poiché segna per Heidegger la fine di ogni possibilità di ‘rivoluzione’nazionalsocialista come lui la concepiva, e così come sottolinea Gadamer13. Le voci che si alzano contro Heidegger, sottolinea Derrida, orchestrate dai media e da un battage pubblicitario a tutto campo, perdono di vista e allo stesso tempo oscurano “proprio ciò a cui pretendevano di opporsi”; infatti, i problemi sono troppo gravi per essere liquidati con formule e con alcune citazioni: “ogni gesto che procede per mescolanza, totalizzazione precipitosa, cortocircuito di argomentazione, semplificazione di enunciazione ecc. [è] un gesto politicamente molto grave”, una vera e propria “denegazione”, un andare contro ciò che si vuole affermare14; ma se denegazione significa anche il rifiuto del dire, l’impossibilità della parola e del linguaggio che vengono a mancare, tale termine-concetto è applicabile non solo all’opera ma allo stesso comportamento tenuto da Heidegger, in modo specifico per quanto riguarda il genocidio perpetrato contro gli Ebrei. E siamo arivati proprio al punto dolente, alla questione oggi particolarmente trattata, che dando per scontato l’adesione al nazionalsocialismo di Heidegger, egli di conseguenza sarebbe stato antisemita; di più – e questo è il decisivo – tutta la filosofia o meglio il pensiero heideggeriano, i suoi 11 Si veda quanto scrive K. Jaspers nella lettera del 5 giugno 1949 in risposta a una richiesta del rettore dell’Università di Freiburg i. B., lo storico G. Tellenbach, sul suo giudizio su Heidegger. Cfr. M. Heidegger, K. Jaspers, Briefwechsel 1920- 1963, hrsg. von W. Biemel, H. Saner, Klosterman-Piper, Frankfurt a. M.-München- Zürich 1990, pp. 275-276, citato in F. Volpi (a cura di), Heidegger, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 41. 12 L’ambiguità heideggeriana consiste nel suo engangement politico allo scopo di divenire la guida filosofica e ideologica del movimento nazionalsocialista, per un verso, e per l’altro di fare un “passo indietro” e ritirarsi nelle avventure esoteriche del Seyn nella sua baita di Todnauberg. Cfr. P. Bardieu, Führer della filosofia?. L’ontologia politica di Martin Heidegger, tr. it. di G. De Michele, il Mulino, Bologna 1989; cfr. pure A. Fabris, Heidegger: l’ambiguità dellla decisione tra filosofia e politica, in Id. (a cura di), Metafisica e antisemitismo, ETS, Pisa 2014. 13 Cfr. J. Derrida et Al., Il caso Heidegger. Una filosofia nazista?, cit., p. 35. 14 Ivi, pp. 38-39. Cfr. J. Derrida, Come non parlare. Denegazioni, in Id., Psyché. Invenzioni dell’altro, vol. 2, tr. it. di R. Balzarotti, postfazione di G. Dalmasso, Jaca Book, Milano 2009. corsi e le sue opere, sarebbero il frutto malato dell’ideologia antisemita che sta alla base del regime nazista e hitleriano. In una nota del libro di Trawny Heideger e il mito della cospirazione ebraica15, il cui titolo è già problematico16, si afferma che Heidegger avrebbe occultato le sue idee antisemite, relengandole in alcune cruciali affermazioni dei Quaderni neri, di cui Trawny è il curatore e ai quali il testo in questione è dedicato; questa decisione heideggeriana di “nascondere il proprio antisemitismo si inserisce in un pensiero per il quale il pubblico non è altro che un perfetto crimine per la filosofia”. Dalla lettura di questo libro e degli altri saggi di Trawny è facile evincere un pregiudizio, più che una tesi corroborata da prove, di antisemitismo che inficia tutta la filosofia di Heidegger, ogni figura del suo pensiero, che vengono immediatamente e senza alcun dubbio rinviate a un pensiero che ha nella razza il suo esser proprio e la sua autenticità. E tuttavia, Trawny afferma che le affermazioni heideggeriane sugli ebrei reperibili nei Quaderni neri non debbono essere collegate alla Shoah e tanto meno ad Auschwitz; ma se il pensiero di Heidegger trasuda antisemitismo cosicché “da rendere necessario parlare di una “filosofia antisemita”, allora Heidegger è partecipe – ma Trawny lo nega – dell’“assassinio burocratico di massa” degli ebrei, come viene definito da Hannah Arendt, e lo nega in quanto “nulla dimostra che Heidegger abbia saputo quanto stava accadendo nei campi di sterminio”, e tuttavia non si può escludere del tutto che il filosofo abbia “ritenuto necessaria la violenza contro gli ebrei”17. Su queste premesse quanto mai ondivage, per non dire ambigue, Trawny costruisce la sua macchina da guerra; emblematico è il commento che pospone a una citazione tratta dai Quaderni neri in cui Heidegger scrive: “nell’era dell’Occidente cristiano, vale a dire della metafisica, i giudei (Judenschaft) sono il principio della distruzione”18, il distruttivo è, per Heidegger, “il rovesciamento del compimento della metafisica”, di quella metafisica che è propria di Hegel e di Marx, cosicché “lo spirito e la cultura diventano la sovrastruttura della ‘vita’, cioè dell’economia, cioè dell’organizzazione – cioè del biologico – cioè del popolo”. Trawny chiosa: “i ‘giudei’ [la traduzione di 15 P. Trawny, Heidegger e il mito della cospirazione ebraica, tr. it. di C. Caradonna, Bompiani, Milano 2014, cfr. nota 10 dell’Introduzione, in cui si afferma: “sappiamo quanto Heidegger tendesse a tenere il proprio pensiero lontano da qualsiasi forma di opinione pubblica. Il fatto che abbia occultato (c.m.) le sue idee antisemite può essere letto anche in questo senso”, p. 110 16 Si veda al proposito Ph- Lacoue-Labarthe, J.L. Nancy, Il mito nazi, tr. it. di C. Angelino, intr. di M. Gennari, il melangolo, Genova 2013. 17 P. Trawny, Heidegger e il mito della cospirazione ebraica, cit., pp. 9-10. 18 M. Heidegger, Riflessioni I-V, p. 29. Judenschaft con ‘giudei’ è politicamente scorretta, ndr] distruggono la struttura metafisica dell’‘occidente cristiano’”; ma ciò che lascia davvero perplessi è il seguito: “la sequenza sovrastruttura della ‘vita’, cioè dell’economia, cioè dell’organizzazione – cioè del biologico – cioè del ‘popolo’” puntualizza infatti quanto segue: Marx, l’ebreo distruttore, è colui che prepara l’avvento del nazionalsocialismo”19. Lasciando da parte l’ardito quanto provocatorio collegamento tra il “principio distruttivo degli ebrei” del Mein kampf di Hitler con l’annotazione heideggeriana, resta del tutto inspiegabile come Marx abbia potuto preparare l’avvento del nazismo, quando poche righe prima si afferma che “il ‘marxismo’, cioè l’‘ebraismo’ [anche questa equazione non ha un valido e chiaro fondamento, ndr] viene tacitamente esposto all’‘annientamento completo’”20. Ma la tesi di fondo riguarda l’antisemitismo insito in Heidegger e da questi tenuto sempre in interiore homine. È necessario sottolineare, come fa Fèdier21, che “l’accusa di antisemitismo, dopo il terzo Reich e l’attuazione della Shoah, è di una gravità eccezionale (…); se è rivolta contro un contemporaneo dell’evento, implica che egli vi abbia più o meno partecipato”, il che significa che chi sostiene tesi antisemite si rende correo di un crimine mostruoso, in quanto essere antisemita significa, per Fédier, “credere che essere ebrei sia una colpa”. In un saggio di rara incisività, Hannah Arendt ricostruisce la storia e cosa si deve intendere per antisemitismo22; che il genocidio e l’antisemitismo “organizzato come visione del mondo” si siano sviluppati in Germania piuttosto che altrove non è certamente un caso e ciò che è accaduto “non si può spiegare né con la vecchia teoria della valvola di sfogo, che sostiene che bisogna trovare un capro espiatorio per l’insoddisfazione del popolo, né con la nota “giudaizzazione” della stampa, del teatro e delle professioni liberali. Entrambe queste teorie evitano di prendere sul serio il fascismo e il suo antisemitismo”23. Arendt sottolinea come la storia tedesca ed europea non sia la “storia ebraica”, bensì una storia “straniera”, perché 19 P. Trawny, Heidegger e il mito della cospirazione ebraica, cit. p. 77. 20 Ivi, p. 76. 21 F. Fédier, Martin Heidegger e il mondo ebraico a cura di S. Esengrini, Morcelliana, Brescia 2016, p. 31 e sgg. 22 H. Arendt, Antisemitismo, in Id., Politica ebraica, tr. it. di R. Benvenuto, F. Conte, A. Moscati, Cronopio, Napoli 2013, pp. 43-148. Sull’argomento si veda anche la Parte prima L’antisemitismo in Id., Le origini del totalitarismo, tr. it. A. Guadagnin, intr. di A. Martinelli, saggio di S. Forti, Einaudi, Torino 2004. 23 Ivi, pp. 46-47. “La teoria del capro espiatorio non va oltre la vecchia battuta di spirito che, alla domanda di chi sia in verità la colpa di tutto, risponde: ‘degli ebrei e dei ciclisti’. E, a chi sorpreso ‘perché i ciclisti?’, replica: ‘perché gli ebrei?’.”, ivi, p. 47. è la storia dell’antisemitismo, storia ebraica che non è fatta dagli ebrei “ma dai popoli tra i quali essi vivono”. Eppure vi sono due forme di storiografia ebraica, quella nazionale che pone una “distanza di principio” tra gli ebrei e il popolo ospitante e una “storiografia dell’assimilazione” che presuppone “un’uguaglianza al cento per cento” tra ebrei e la popolazione ospitante; entrambe le concezioni si muovono in un terreno del tutto acritico. In modo non del tutto esplicito Arendt mette in luce l’impossibilità da parte degli ebrei di essere veramente assimilati al popolo che li “ospita”, ciò significa che non saranno mai di casa ma sempre ospiti di qualcun altro, saranno sempre un corpo estraneo rispetto al popolo originario: da una parte il popolo tedesco dall’altra gli ebrei. Già al loro interno gli ebrei erano divisi in fautori dell’assimilazione e in sionisti, entrambi però erano consci che vi erano e vi sono sempre stati “interessi divergenti fra gli ebrei e alcune parti dei popoli fra i quali vivono”24. Ciò che colpisce consiste nel fatto che si ha la netta impressione che Arendt ponga un’ inconciliabile differenza tra ebrei e popoli in cui i primi sono ‘costretti’ a vivere, una differenza ontologica, se così ci si può esprimere, o quanto meno esistenziale, una forma di vita che non può essere assimilata e organicamente integrata dalla nazione in cui gli ebrei vivono separatamente dal resto del corpo sociale. E tuttavia non c’è solo il senso – scontato – dell’estraneità e dell’essere straniero, dell’essere senza patria ed esule e del sopravvisuto, c’è anche il fatto che il silenzio su Auschwitz, la sua indicibilità, e conseguentemente il suo oblio, non devono trasformarsi in alibi25; affermare con Nathan il saggio e con Mendelssohn che anche l’ebreo è un uomo – “cosa estremamente inverosimile”26, come afferma Arendt – significa che il divenire uomo dell’ebreo equivale alla sua liberazione e “diventa il simbolo della liberazione dell’uomo” in generale. La questione ebraica si esaurisce in dispute teoriche sui diritti dell’uomo “e non dell’equiparazione giuridica di alcuni cittadini di un’altra religione in uno stato cristiano e in un mondo cristiano”; secondo Hannah Arendt, cioè, “la formulazione classica della questione ebraica nell’illuminismo fornisce la base teorica 24 Ivi, p. 52. 25 S. Forti, Le figure del male, in H. Arendt, Il totalitarismo, cit., p. XXVII. 26 H. Arendt, Antisemitismo, cit., p. 73; la lotta per l’emancipazione degli ebrei già alla fine del Settecento in Prusssia aveva preso avvio, “nella teoria, c’era bisogno di un segno visibile dell’affrancamento dell’umanità, del progresso, del superamento dei pregiudizi”, ivi. P. 72. Cfr. G.E. Lessing, Nathan il saggio, tr. it. di A. Casalegno, intr. di E. Bonfatti, Garzanti, Milano 2000; Id., Gli ebrei, a cura di A. Jori, prefaz. Di J. Limbach, postfaz. di K.J. Kuschel, Bompiani, Milano 2002. dell’antisemitismo classico”27; ciò che avviene è una trasformazione degli ebrei nell’ebreo, ossia si viene a creare artificialmente la categoria dell’ebraicità e in ciò consiste l’antisemitismo razziale che si fonda su nozioni quali “giudaizzazione” ed “ebreo bianco”: “non è per via di Hitler o di pochi ebrei uccisi che la Germania è diventata il paese classico dell’antisemitismo – all’est non ci si preoccupava nemmeno di tali inezie”, ma perché la Germania ha difeso l’“antisemitismo astratto” in modo radicale e coerente, divenendo un esempio per tutto il mondo. La propaganda politica fece un uso sapiente delle superstizioni e dell’odio mediavali nei confronti degli ebrei indottrinando all’antisemitismo soprattutto le popolazioni contadine28 attraverso quella che viene definita “fobia degli ebrei”. Nella nostra tarda modernità l’odio antiebraico non s’identifica più con l’antisemitismo cristiano ma assume una nuova forma: la nazione deve espellerre lo straniero, l’ebreo, in quanto essa è la razza autentica e originaria e nessun elemento estraneo può essere “assimilabile”; secondo Henri Crétella: “l’‘ebraicità’ non rapprentava per i nazisti propriamente una razza, ma, piuttosto, l’anti-razza stessa. Ebreo era la mescolanza incarnata ossia l’opposto del principio della razza definita dalla sua purezza. Da qui la necessità di eliminarlo”29. Il progetto hitleriano di una Endlösung degli ebrei, non è soltanto un accertato crimine verso l’umanità ma mette anche in moto un processo “di selezione biologica” allo scopo di produrre “scientificamente” una razza superiore. Il progegetto e la pratica eugenitca divengono la pratica dell’antisemitismo e della selezione della razza. L’antisemitismo hitleriano, sottolineto più volte come la forma biologistica del razzismo, è paragonabile nella sua violenza e nel suo odio contro gli ebrei alle dichiarazioni heideggeriane sulla Weltjudentum – termine usato anche da Hannah Arendt – o ad alcune espressioni che si possono reperire negli Schwarze Hefte riguardanti la “giudaizzazione” (Verjudung), termine che compare fin da una lettera del 1917 alla futura moglie Elfride? In questo senso si può rispondere negativamente; tuttavia vanno sottolineati alcuni aspetti che possono meglio far capire il comportamento heideggeriano verso gli ebrei. Una chiave di lettura che si svincola dall’ottica colpevolista o innocentista e che a ben vedere delinea con precisione il rapporto conflittuale tra ebrei e tedeschi, ci viene offerta da G.L. Mosse. L’assimilazione degli ebrei 27 Ivi, p. 75, in corsivo nel testo. 28 G.L. Mosse, Le origini culturali del terzo Reich, cit. pp. 29 H. Crétienne, Heidegger and the Holocaust, New York 1996, cit. in F. Fédier, Martin Heidegger e il mondo ebraico, cit., pp. 37-38. in Germania si fondava sulla razionalità e la Bildung illuministiche, idee che descrivevano alla perfezione la “singolare struttura dell’ebraismo tedesco, composto da una solida classe media, con nessun povero e quasi nessun contadino o operaio”30. Gli ebrei tedeschi difendevano la loro emencipazione culturale basata sulla Bildung, un’ideologia che i tedeschi avevano abbandonato, e la Bildung dei nazionalsocialisti, che si fondava sui valori primitivi del Volk, era qualcosa di totalmente altro da quella ebraico-tedesca simboleggiata da Nathan il saggio e dal suo ideale di tolleranza: “il legame frala Bildung e l’illuminismo era stato distrutto”, e la Bildung, ora, veniva collegata alla purezza della razza (Herrenrasse) e al nazionalismo violento e antisemita (Kristallnacht). Eppure gli “ebrei tedeschi colti”, che erano la maggior parte, non si opposero alla nuova cultura tedesca nell’utopia di completarla; anche il sionismo di Buber aveva come punti di riferimento “il pacifismo, il liberalismo e l’umanesimo”31. Il tentativo era quello di umanizzare il nazionalismo xenofobo, in virtù del superamento dei tempi bui passati nei ghetti, in cui gli ebrei erano stati privati della loro dignità e della loro umanità. Soltanto con la Bildung illuministica gli ebrei seppero superare la fase della ghettizzazione e pervenire al riconoscimento della piena e autentica umanità. Ora gli ebrei, nel tempo del nazismo con il quale fino al 1937 e alla “stretta politica antiebraica nel novembre 1938”, pensavano di poter ancora dialogare, erano ritornati ad essere qualificati come “maestri di menzogne”; “gli ebrei tedeschi erano stati derubati dellla loro identità” e si ritrovarono di fronte allo spettro della ghettizzazione, al vivere senza dignità, “spogliati della loro umanità”. E tuttavia, “fu il Bildungsbürgertum [la Bildung della borghesia, ndr] ebraico-tedesco che (…) preservò l’anima migliore della Germania oltre la dittatura, la guerra, l’olocausto e la sconfitta”32. È questo il terreno dello scontro, tutto ideologico, che avviene tra Heidegger e il mondo ebraico. Heidegger infatti, fin da sempre, non solo si oppone alla ratio illuministica e al suo umanismo, ma anche alla struttura conformista e valoriale dellla società borghese; il duplice rifiuto di tenere la cattedra a Berlino ha anche il significato di non ammanigliarsi con i settori dell’alta borghesia, oltre quello di evitare spiacevoli controlli da parte 30 G.L. Mosse, Il dialogo ebraico-tedesco. Da Goethe a Hitler, tr. it. di D. Vogelmann, Giuntina, Firenze 1995, p. 87. 31 Ivi, p. 101. 32 Ivi, p. 109. del potere centrale33. Nessun recupero della Bildung illuministico-borghese, figlia della metafisica moderna, ma neanche alcuna esplicita adesione ai valori primitivi propri del Volk contraddistinguono il pensiero heideggeriano; nessuna dichiarazione di guerra contro gli ebrei, come quella lanciata da Hitler nel 193734, è possibile rintracciare nemmeno negli Schwarze Hefte; opporsi alla cultura borghese della Bildung ebraica non significa tout- court, parafrasando una celebre affermazione della Lettera sull’“ umanismo”, essere antisemiti, così come indicare nel popolo ebraico il popolo metafisico par excellence non significa fare professione di antisemitismo, come diversamente ed esplicitamente fece Céline. Si può allora condividere l’affermazione di Lyotard secondo cui “il caso Heidegger è un caso francese”35 e non solo per la pubblicazione, ormai datata, del libro di Farias e per le discussioni che ne sono sorte – si pensi a Derrida e a Lacoue-Labarthe36 – ma anche per il ruolo che hanno giocato e continuano a giocare i Quaderni neri. 2. Alterità linguaggio Heimat Prima di affrontare un saggio di J.L. Nancy37, per molti aspetti particolarmente interessante, è necessario soffermarsi su una tematica decisiva del pensiero heideggeriano e poi di tutto il Novecento e della nostra contemporaneità, ci si riferisce all’affacciarsi della questione della lingua dell’altro e della sua diversità. Se per il nazismo, e prima per il germanesimo (Deutschtum)38, l’“estraneo indesiderato” (unerwüschter Ausländer) era lo 33 Si veda M. Heidegger, Perché preferiamo vivere in provincia?, Id., Discorsi e altre testimonianze delcammino di una vita, (23. Restare fedele alla causa, Friburgo in Br., 17 maggio 1930 lettera indirizzata al ministro Grimme, e 85. Cattedra all’Università di Berlino, Friburgo, in. Br. 4 settembre 1933, lettera indirizzata al Consigliere Ministeriale Fehrle). A cura di N. Curcio, il melangolo, Genova 2005. 34 Il 29 aprile 1937 Hitler affermò riguardo agli Ebrei: Non voglio costringere subito un nemico a combattere ma dico: ‘Voglio distruggervi’”, si veda S. Friedländer, La Germania nazista e gli ebrei, vol I, 1933-1939, tr. it. di S. Minucci, Garzanti, Milano 1998, pp. 193-194. 35 J.F. Lyotard, Heidegger e gli “ebrei”, tr. it. di G. Scibilia, Feltrinelli, Milano 1988, p. 13. 36 Ph. Lacoue-Labarthe, J.L. Nancy, Il mito nazi, tr. it. di C. Angelino, intr. di M. Gennari, il melangolo, Genova 2013. 37 J.L. Nancy, Banalità di Heidegger, tr.it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 20126. 38 Si veda F. Jesi, Germania segreta. Miti nella cultura tedesca del ‘900, intr. di A. Cavalletti, nottetempo, Milano 2018. straniero, colui che è Fremde, che non appartiene all’essenza linguistico- identitaria del Volk (nei campi solo chi parlava tedesco aveva una possibilità di salvezza e obbligatorio era rivolgersi in tedesco), colui che è altro, diverso, che parla un’altra lingua, oggetto di una xenofobia che si trasforma in avversione e in odio razziale, ben diverso è il significato che Heidegger attribuisce a tale figura. Straniero, come nel corso del 1942 era to deinonotaton, l’uomo inquietante non più legato ai rapporti e alle leggi della polis, che trascorre la propria esistenza percorrendo il tratto estraneo della terra divenuta straniera a lui divenuto altro; anche nella già analizzata conferenza del 1953 si ritrova l’essere straniero dell’uomo, nei suoi molteplici aspetti; allo stesso modo, l’ebreo è stato pensato durante la storia dell’Occidente proprio come l’estraneo, lo straniero pericoloso per la comunità, colui che rappresenta l’alterità39, che parla un’altra lingua e usa un altro alfabeto. E tuttavia, questi due uomini che hanno lo stesso nome – straniero – sono tra loro opposti; lo straniero di Heidegger – il deinoteron di Sofocle e il dipartito di Trakl – è, infatti, colui che si allontana dalla sicurezza della civiltà, per intraprendere un viaggio che lo possa riportare a un altro inizio; è colui che rifuta l’integrazione nella società e l’adesione ai suoi valori; colui che abbandona ogni fondamento e ogni àncora che lo possa radicare in un Boden saldo, poiché la sua radice sta nell’essere viandante, nel destino che lo chiama come chi deve prendersi cura di ciò che la filosofia, in quanto metafisica, ha fin da sempre lasciato nell’oblio, destino che non è nella razionalità e nel pensiero calcolante, dote specifica dell’ebreo. L’essere straniero dell’ebreo consiste invece nel non essere accettato da quella stessa società da cui rifugge l’uomo di Heidegger; il tentativo di assimilazione da parte degli ebrei all’interno dei paesi ospitanti finisce in pogrom e nella Shoah, perciò Heidegger parla di autoannientamento del popolo ebraico, poiché nel momento storico in cui gli ebrei accettano di assimilarsi alla borghesia mercantile occidentale, trovando la loro affermazione all’inteno dell’economia finanziaria, si autodistruggono in quanto perdono la loro specifica alterità e la loro essenza di popolo nomade. L’uomo contemporaneo metropolitano, che abita lo spazio concessogli dall’economico, è egli stesso heimatlos, un essere senza patria, che trova nell’ebreo il proprio simile e dunque un pericoloso concorrente che va eliminato. Per questo Heidegger parla del popolo ebraico come il popolo metafisico, destinato all’autoannientamento40. Questo termine non va però riferito alla Endlösung 39 J. Derrida, Abramo, l’altro; a cura di G. Leghista, T. Silla, Cronopio, Napoli 2005. 40 Diversamente interpretano sia P. Trawny, Heidegger e il mito della cospirazione ebraica, cit., pp. 73-82, sia D. Di Cesare, Heidegger e gli ebrei, cit. hitleriana, quanto piuttosto allo sradicamento che incombe sul popolo ebraico come una maledizione divina, l’essere, come ogni uomo contemporaneo europeo e occidentale, “spaesato”. Sposare l’occidente significa sposare la metafisica e il popolo ebraico; abbandonando le proprie origini e assimilandosi all’ideologia occidentalista, va incontro, come tutti gli altri popoli europei, tedeschi in primis, alla rovina.In questo senso si può affermare che Heidegger non è contro gli ebrei, non è un banale antisemita41, ma come Nietzsche, è in aperto conflitto con la politica ebraica42, che sostiene per un verso il capitalismo finanziario occidentale, l’americanismo, e per l’altro il comunismo sovietico di matrice marxiana. L’antisemitismo implica il razzismo di origine biologistica; implica una politica eugenetica di sterminio e il suo giustificazionismo; ma la matrice an-archica del pensiero heideggeriano nega tutto ciò; la sua anarchia è fine in sé: fine dell’uomo metafisico e occidentale, dell’individuo comunitario e dell’uomo animale politico; fine della storia in quanto Historie, fine del principio del fondamento e della ratio, fine dell’inizio (arché) delle cose (creazione), fine della politica e delle sue categorie; fine delle istituzioni, e fine dei valori. L’anarchia del pensiero toglie il terreno a qualsiasi tentativo razionale di fondare l’essere dell’uomo, prendendo le sembianze di una deterritorializzazione43, che rispecchia il senso del percorso del tratto estraneo. Un testo heideggeriano del 1961 che titola Sprache und Heimat – tradotto in italiano con Linguaggio e terra natìa 44–, forse meglio di altri rinvenibili nella raccolta In cammino verso il linguaggio, mette in primo piano l’inscindibile ed essenziale rapporto che c’è tra lingua e radicamento a un luogo; ma nel momento in cui l’uomo ha la necessità di chiarire il proprio rapporto con il linguaggio e con la terra natìa, allora si ritrova nell’indeterminatezza e “senza suolo”. Infatti Heidegger afferma in modo risoluto “il linguaggio non c’è”, intendendo con ciò che il “linguaggio planetario universalmente comprensibile” ancora non si è costituito, anche se vi sono segnali che mostrano che “esso si prepara a una dominazione che solo per minima parte poggia sulla pianificazione e sulla manovra umana”, l’uomo cioè non è il padrone neppure del linguaggio omologante e tecnologico, la lingua dell’impero che pure parla. La lingua diviene per il filosofo il luogo 41 J.L. Nancy, Banalità di Heidegger, tr. it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2016. 42 H. Arendt, Politica ebraica, tr. it. di R. Benvenuto, F. Conte, A. Moscati, postfaz. di C.C. Härle e A. Moscati (Gli anni della nostra lotta), Cronopio, Napoli 2013. 43 Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, tr. it. di G. Passerone, intr. di M. Guareschi (Deleuze e Guattari: cartografi di contrade a venire). 44 M. Heidegger, Linguaggio e terra natìa, tr. it. di R. Cristin, in “aut aut”, 235, 1990, pp. 3-24. in cui i popoli e le stirpi “vengono destinalmente alla nascita, in cui crescono e abitano”; non vi è, cioè, una terra natìa su questo globo terracqueo, ma solo il destino fa essere questa terra la terra natìa per un popolo. E il linguaggio è tale in quanto “di volta in volta” è la lingua di una terra natìa, ossia è il linguaggio che si parla “nella dimora della casa dei genitori. Linguaggio è linguaggio come lingua materna”45; e quest’ultima è per un verso ciò che permette il parlare receproco (dialeghein) e dall’altro è, nella sua essenza, il dialetto (Dialekt o Mundart). Essenzialmente, quindi, il linguaggio in quanto lingua parlata, è dialetto, e solo questa tipologia di linguaggio permette l’essere in colloquio reciprocamente (dialeghesthai) dell’uomo46, reciprocità che significa “ascoltare l’uno dopo l’altro”. Allora Heidegger può dire che “il dialetto non è solo la lingua della madre, ma al tempo stesso è anzitutto la madre della lingua”; e tuttavia, nel mondo contemporaneo, dominato dal linguaggio tecnico, ciò che ci è stato tramandato47 riguardo il rapporto tra linguaggio, lingua materna e terra natìa è completamente venuto meno, tanto che l’uomo sembra aver perso sia il linguaggio che la terra natìa. L’uomo contemporaneo dunque è ohne Heimat, come scrive Nietzsche nel 188448, proprio nel tempo in cui ogni angolo della terra è antropizzato e ogni luogo vede l’insediarsi dell’uomo e le opere di sfruttamento che lo connotano; la minaccia che l’uomo porta con sé sembra produrre, come in Hamsun, solo rovina e miseria, così che solo “un salvatore” – che assomiglia più alla parousia di Cristo nel mondo, poiché arriva di notte, che non all’avvento dell’Uomo della Provvidenza e del nazionalsocialismo – può preservare l’uomo nel linguaggio e in una terra natìa. Con Hölderlin, Heidegger può dire che l’uomo contemporaneo può salvarsi soltanto perché si è trovato di fronte al pericolo nella sua essenza, poiché solo nell’esperienza del pericolo più grande l’uomo ha la percezione della perdita e della distruzione dell’epoca della “decadenza e tramonto”, dietro la quale tuttavia si nasconde “qualcosa d’altro e di superiore”. 45 Diversamente, J. Derrida, Il monolinguismo dell’altro, a cura di G. Berto (Il disagio della traduzione), Cortina Editore, Milano 2003. 46 “Noi uomini siamo in colloquio. L’essere dell’uomo si fonda nel linguaggio (Sprache); ma questo accade (geschieht) autenticamente solo nel colloquio (Gespräch)”, M. Heidegger, Höldelin e l’essenza della poesia, in Id., La poesia di Hölderlin, a cura di Leonardo Amoroso, Adelphi, Milano 1988, p. 47. 47 Cfr., M. Heidegger, Linguaggio tramandato e linguaggio tecnico, a cura di C. Esposito, ETS, Pisa 1989. 48 “Le cornacchie gracchiano/ E compiono sibilanti voli verso la città/ – presto nevicherà,/ Guai a chi non ha terra natìa”, F. Nietzsche, Ohne Heimat [Senza terra natìa], in Id., Le poesie, a cura di A. M. Carpi, Einaudi, Torino 2008. Fuor di metafora, Heidegger pensa all’uomo contemporaneo come un heimatlos che vive nella dimensione metafisica della perdita, senza radicamento, cittadino del mondo, in cui la Kultur è divenuta pura e semplice omologazione, dove si è perso definitivamente, in virtù delle tecnologie, il senso essenziale della diffrenza. La metafisica costruisce un uomo che dev’essere uguale a ogni latitudine, e che dimostra la sua umanità (Humanität e non Menschlichkeit) nella capacità di adattamento ovunque egli si trovi, così da poter creare forme di vita artificiali, radicate non più nella terra natìa e nell lingua madre, ma nella qualità tecnica di misurazione e nel linguaggio alfanumerico, valido per tutti; ma il linguaggio, cio che parla, ha abbandonato un uomo che non ascolta e che si è perduto nel deserto della ricchezza tecnocratica, in quella metamorfosi dispotica e distopica che lo tiene incatenato a vacue necessità, al fine di vivere una vita – che crede essere la sua essenza – in società e in comunità, una vita “politica” e dialettica, unicamente propositiva e progressiva, “Ma noi non vogliamo andare avanti. Vorremmo soltanto ci fosse dato di giungere là dove già siamo”49. 3. Banalità di Heidegger? Per J.L. Nancy, l’autoannientamento (Selbstvernichtung) dell’Occidente europeo ha nella macchinazione, ossia in quell’impianto (Ge-stell) di tecnica, americanismo e comunismo, ciò che lascia intravedere, tra le maglie della metafisica compiuta, il sorgere di un altro inizio per il quale è necessaria la formazione di ciò che Heidegger chiama “popolo”, da intendersi non tanto e non solo come “forza spirituale”, quanto piuttosto come “forza d’inizio storico”: “un popolo è ciò che proviene da questo incontro/risposta e che apre perciò una possibilità storica”, anche se cristianesimo e macchinazione hanno modificato l’essenza dei popoli dell’Occidente. L’antisemitismo ha nell’esigenza di un altro inizio la costituzione di un popolo che sia in grado di assicurarlo: “la distruzione dell’inizio greco comporta il suo popolo appropriato. Questo popolo appropriato è il popolo ebraico”50; ciò che Heidegger chiama Weltjudentum, l’ebraismo mondiale “non è una questione razziale ma è la questione metafisica intorno al tipo di modalità dell’umano che, in quanto assolutamente priva di vincoli, può assumere come “compito” sto 49 M. Heidegger, Il linguaggio (1950), in Id., In cammino verso il linguaggio, cit., p. 28. 50 J.L. Nancy, La banalità di Heidegger, cit., p. 14. rico-universale (weltgeschichtlich) lo sradicamento di ogni ente dall’essere”51. Ciò che per Nancy, come per Trawny52, in questo passo dei Quaderni neri, è essenziale è la dizione “storico-universale”, sulla quale si fonderebbe l’antisemitismo heideggeriano, termine che assieme a quello di “spirituale” caratterizzerebbe “la verità profonda dell’antisemitismo e dello sterminio”, non dando tuttavia alcun peso all’affermazione secondo la quale l’ebraismo mondiale, modalità espressiva di uso comune in Germania e in altri paesi europei, non solo in ambienti nazionalsocialisti o di destra, non è, per Heidegger, “una questione razziale”, ma trova il suo più profondo significato all’interno della metafisica nell’epoca della macchinazione, metafisica caratterizzata dallo sradicamento – si veda al proposito quanto afferma Simon Weil, che non può certamente essere imputata di antisemitismo o di simpatie per il nazionalsocialismo53 – dell’ente dall’essere, operazione portata avanti da Platone in poi54, che va a costituire una precisa modalità d’essere dell’uomo in generale, in quanto animal rationale; e questo è un compito weltgeschichtlich proprio della metafisica, della tecnica e del pensiero calcolante e non unicamente del popolo ebraico, come lo intende Nancy, per il quale “il popolo ebraico, in quanto tale, svolge un ruolo determinante, per non dire primordiale, nello sradicamento dell’essere”55. Ma, in realtà, lo sradicamento dell’ente dall’essere è l’operazione fondamentale della metafisica alla cui origine vi è la tradizione platonico-cristiana e il popolo ebraico diviene il popolo che rappresenta la metafisica solo in epoca moderna quando esso stesso fa appello al concetto di razza; “un tale principio proviene anch’esso da una ‘sottomissione della vita alla macchinazione’”56. Secondo Heidegger, “la selezione 51 La traduzione di Nancy differisce da quella di Iadicicco che traduce così il medsimo passo: “La questione del ruolo dell’ebraismo mondiale non è di natura razziale, bensì metafisica; essa indaga la specie di umanita (Menschentümlichkeit) che, in assoluto svincolata, sia in grado di farsi carico dello sradicamento di tutto l’ente dall’essere come ‘compito’ di portata storica mondiale”, M. Heidegger, Riflessioni XIV, [Quaderni neri], tr. it. di A. Iadicicco, Bompiani, Milano 2016, p. 315 (121). Sull’interpretazione metafisica dell’antisemitismo heideggeriano si veda D. Di Cesare, Heidegger e gli ebrei, Bollati Boringhieri, Torino 2014. 52 Per quanto riguarda l’interpretazione dell’antisemitismo heideggeriano come “onto- storico”, si veda P. Trawny, Heidegger e il mito della cospirazione ebraica, cit. 53 S. Weil, La prima radice, tr. it. di F. Fortini, postfazione di G. Gaeta, SE, Milano 1990, in particolare le pp. 47-167 sullo sradicamento; Id., Sulla Germania totalitaria, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1999. 54 M. Heidegger, L’essenza della verità, (WS 1931/32), a cura di F. volpi, Adelphi, Milano 1997. 55 Ivi, p. 18. 56 “Che nell’epoca della macchinazione la razza venga elevata a “principio” (…) non è una trovata arbitraria dei “dottrinari”, bensì una conseguenza della poten razziale non deriva dalla “vita” stessa bensì dalla sopraffazione della vita da parte della macchinazione. Cio cui tale pianificazione aspira è una completa derazzificazione dei popoli”57; “derazzificazione” significa il movimento di estraneazione dei popoli, in particolare tedesco e russo (Deutschtum, Russentum); quest’ultimo non ha nulla a che fare con “il bolscevismo” o con il carattere “asiatico” ma sta all’interno “della formazione del pensiero occidentale- moderno”. Ora, bisogna comprendere una questione quantomai spinosa: se la macchinazione è alla base dello sradicamento dell’ente dall’essere e anche del concetto di razza, elevato a “principio”; e se il popolo ebraico trova la sua ragion d’essere nel concetto di razza, in quanto omologazione della vita in base al calcolo, perché mai il popolo ebraico dovrebbe porsi come quel popolo che opera in direzione di una “derazzializzazione” (Entrassung), ossia di una umanità “ridotta all’uguaglianza indifferenziata di tutti gli enti”? Perché gli ebrei, e solo loro, dovrebbero avere come progetto la perfetta omologazione di tutto il genere umano? Forse che l’americanismo e il bolscevismo, le democrazie parlamentari, la tecnica e la razionalità scientifica e occidentale non tendono all’oggettivazione e al controllo sociale dell’uomo, attraverso il dominio dell’economia sulla politica? Soltanto gli ebrei sono i colpevoli della devastazione del mondo e della sua assenza di storia? Per Nancy, che segue Trawny e gli altri interpreti colpevolisti, non ci sono dubbi: l’ebreo rappresenta, per Heidegger, il “tipo” (Nancy traduce con questo termine l’espressione tedesca Art, che ha altri significati, forse per calcare la mano sulla psicologia che si è venuta a creare contro gli ebrei) che in virtù della sua capacità calcolante, della ratio che ha il compito di livellare e indifferenziare l’uomo, facendolo divenire un Heimatlos e togliendogli da sotto i piedi la terra (Mutter Erde), provocando una Bodenlosigkei, una mancanza di suolo, lo eguaglia alla propria condizione. E tuttavia, secondo Nancy, molto più equilibrato e corretto filosoficamente di Trawny58, l’autodistruzione (Selbstvernichtung), l’autosoppressione dello Judentum potrebbe essere letta come “l’auto-soppressione dell’assenza-di-mondo, auto- annientamento del za della macchinazione che costringe forzatamente l’ente (…) nel calcolo pianificatore. Tramite il pensiero della razza, “la vita” viene ricondotta a una forma di coltivabilità, di allevamento, la qual cosa rappresenta una forma di calcolo. Gli ebrei, con la loro spiccata dote per il calcolo “vivono” (…) secondo il principio della razza”, M. Heidegger, Riflessioni XII, [Quaderni neri], p.71 (82). Si veda tutto il punto 38. 57 Ivi, p. 72 (82). 58 Il capitolo Annientamento e autoannientamento, del testo di P. Trawny, Heidegger e il mito della cospirazione ebraica, cit., contiene affermazioni a esser benevoli, scorrette e imbarazzanti. “colossale” e della “indifferenza”, al fine di rendere possibile un altro inizio: “ciò che così si propone non è altro che la lunga e febbrile attesa da parte dell’Occidente della propria riconciliazione: della propria identificazione non dolorosa con se stesso. Ebreo sarà il nome e l’indice di un’incapacità di identificarsi, riconoscersi e accettarsi”59. Il Bodenlose, l’essenza dello Judentum, corrisponde per Heidegger alla Heimatlosigkeit, allo spirito stesso dell’Occidente creato dalla macchinazione e dal calcolo razionale, il Mischmasch, quella mescolanza multietnica e multiculturale che produce soltanto confusione e omologazione, “l’indistinzione dei popoli in un’umanità che non pone abbastanza in alto l’humanitas dell’uomo”60. E tale mescolanza porta all’annientamento e all’autoannientamento non solo del popolo ebraico ma anche di quello tedesco, all’oblio e al precipitare nel tramonto. Tuttavia è pur vero che Heidegger non s’interroga sulle ragioni dell’antisemitismo, non si pone una “questione ebraica”; e ciò è dovuto al fatto che, per Nancy, alla base dell’antisemitismo heideggeriano vi sarebbe la lettura dei Protocolli dei Savi di Sion, pubblicazione falsa e “grottesca”, oltre che “miserabile”, costruita dalla polizia segreta zarista per diffondere l’odio verso gli ebrei, accusati di voler dominare il mondo61. La banalità e l’efferatezza delle accuse rivolte agli ebrei sono i riflessi di una opinio communis sempre più crescente in Europa – si pensi al caso Dreyfus – di quel “disagio della civiltà” di cui parla Freud; con ragione in una nota Nancy scrive: “a ogni tappa l’antisemitismo sarà prodotto da un disagio, da un mal-essere, un odio e una paura di sé dell’Occidente cristiano, della sua potenza, del suo umanismo…”62. L’accusa che Nancy muove a Heidegger è quella di avere piena consapevolezza nel rifarsi alla “spazzatura” tipica dell’ideologia völkisch e alla “verità superiore” dell’antisemitismo che viene predicato banalmente e volgarmente; nei Quaderni neri – opera esoterica e che doveva essere pubblicata per ultima – all’antisemitismo si unisce pure la critica al nazismo, divenuto dittatura politica e partito, e al cristianesimo; la verità dello Judentum si fonda in Heidegger sulla “volgarità più diffusa, più odiosa e ottusa”, tanto che per Nancy si può dire che “ Heidegger condivide la banalità di uno spirito pubblico per il quale gli ebrei incar 59 J.L. Nancy, La banalità di Heidegger, cit., p. 24. 60 Ivi, p. 27. 61 Si veda al proposito C.G. De Michelis, Il manoscritto inesistente. I “Protocolli dei Savi di Sion”, Marsilio, Venezia 1998; F. Jesi, L’accusa del sangue.La macchina mitologica antisemita, intr. di D. Bidussa, Bollati Boringhieri, Torino 2007; Ph. Burrin, L’antisemitismo nazista, tr. it. di G. Secco Suardo, Bollati Boringhieri, Torino 2004. 62 J.L. Nancy, La banalità di Heidegger, cit., nota 37, p. 28. nano un’insaziabile banalizzazione del mondo – la perdita dello spirito dei popoli nell’universale (…) volgare”63. Se è così, allora Heidegger non solo sarebbe uno tra i più truci antisemiti, ma la sua stessa filosofia, a partire dalla differenza tra autentico e inautentico (eigentlich e uneigentlich), tra l’esser-proprio e la pubblicità, presente in Sein und Zeit non avrebbe alcun senso, proprio in quanto la sua filosofia e la sua riflessione si fonderebbero sull’inganno; falso il ritirarsi tra i boschi della Foresta Nera, falso il rifiuto della cattedra a Berlino, falso il suo pensiero e la sua filosofia tutta, poiché questa falsità sarebbe lo specchio del suo tacito e privatissimo ma quanto mai malefico antisemitismo. Il senso di repulsione antisemita si fa dunque evidente: “dispersione, dissoluzione e dissimulazione di sé: è in questo che consiste in definitiva la specificità ebraica”; la soppressione e il sacrificare gli ebrei, l’autosoprressione a cui vanno incontro, è l’autosoppressione dell’Occidente, la sua devastazione, il luogo dell’erramento e dell’errore64 dell’Occidente europeo e l’ebraismo ha la responsabilità di aver peggiorato e allo stesso tempo sviluppato la filosofia di Platone e il platonismo, ossia, la storia della metafisica. Dal punto di vista filosofico, è l’ebraismo – inteso come Weltjudentum – che dà forza alla metafisica e che pone a suo fondamento la ratio, il potere calcolante, dell’uomo contemporaneo che si è trasformato in una creatura dotata di ragione, mentre il pensiero calcolante diviene il principio e il fondamento ontognoseologico (la ratio essendi e la ratio cognoscendi) degli enti, per cui nihil est sine ratione. Ciò fa del popolo ebraico il popolo metafisico – ed è solo perché l’ebraismo è consustanziale alla metafisica che può farsi popolo –, ossia il popolo della contemporaneità, l’ultimo uomo, l’uomo più grande, che porterà all’annientamento e alla dissoluzione la civiltà occidentale, e all’autoannientamento l’uomo stesso. La tesi che sostiene Heidegger è che la storia della metafisica, ossia dell’oblio dell’essere e dello sradicamento dell’essere dall’ente – dizione quest’ultima che compare soltanto nei Quaderni neri – sia la storia della tradizione ebraico-cristiana platonizzata in senso filosofico-teologico; contro questa Historie, che corrisponde poi alla temporalità aristotelica vulgär, tipica dell’era moderna e caratterizzante l’ebraismo metropolitano e tutta la cristianità, Heidegger propone una storia in quanto destino, una Geschichte in quanto Geschick. È proprio tale pensiero circa la storicità e un altro ini 63 Ivi, p. 29. 64 Si veda P. Trawny, Fuga dell’erramento. L’an-archia di Heidegger, in Id., Saggi su Heidegger, tr. it. di G.J. Giubilato, ETS, Pisa 2017. Va sottolineato che i termini usati da Trawny non hanno alcun collegamento con gli stessi usati in questo testo. zio in cui, per Nancy, risiede la causa per cui Heidegger fa ricorso all’antisemitismo, “perché è rimasto profondamente attaccato all’odio di sé che ha continuato a caratterizzare l’Occidente – almeno da Roma in poi”65; insomma, Heidegger non ama gli ebrei poiché è contro il dominio della tecnica, contro il potere del denaro, contro l’economia liberista e contro la razionalità figlia dell’Illuminismo. Allora, dove trovare quell’antentico se stesso – che noi ora odiamo – se non nella Grecia arcaica preplatonica? In una storia che sia destino? In un tramontare che è il momento del nuovo inizio? Scrive Heidegger: “se la storia procede verso una fine, deve dispiegarsi già essenzialmente un inizio. Ma la sua inizialità è nascosta. Essa può essere il puro tramonto; o il tramonto è il passaggio nell’altro inizio e viene da questo”66. Questa storia è il destino dell’erramento, che non va pensato in relazione a una destinazione, ma viceversa la destinazione (Bestimmung) va pensata a partire dall’erramento, storia questa che parla della distruzione della civiltà occidentale, unica via per rendere posssibile un nuovo inizio, e che tuttavia è da Heidegger temuta poiché non vi è nulla che “garantisca il passaggio all’inizio, né il compimento definitivo della distruzione (cioè dell’autodistruzione dell’Occidente)”67; L’occidente è la storia dell’oblio dell’essere, il continuo tradimento di sé, e tuttavia è proprio tale condizione che permette l’apertura della possibilità di un altro inizio. La metafisica – e dunque l’ebraismo mondiale – è il peso che trascina verso l’abisso la civiltà occidentale e impedisce l’aprirsi della storia come destino e non come progresso dell’ente nella sua totalità; ma poi Nancy trae le conclusioni definitive e inappellabili: “Heidegger non è stato solo antisemita: ha voluto pensare fino al suo punto più estremo una necessità costitutiva e storico-destinale dell’antisemitismo”68; e citando Derrida si chiede con lui “ una metafisica della razza è più grave o meno grave di un naturalismo o di un biologismo razziali?”69, ma se per Derrida la strategia heideggeriana è ancora “equivoca”, per Nancy non ci sono dubbi. Heidegger ha vissuto la “notte dei cristalli” nel 1938, ha visto scritte su striscioni per le vie di Friburgo come Judentum=Verbrechertum (ebraismo= criminalità) e molti altri atteggiamenti violenti contro gli ebrei e tuttavia non solo è rimasto in silenzio ma si è riservato commenti e interpretazioni in note private; “questa banalità non attenua niente, anzi aggrava tutto. (…) Non è una que 65 J.L. Nancy, La banalità di Heidegger, cit., p. 43. 66 M. Heidegger, Riflessioni XV, [Quaderni neri], cit., p. 326 (1). 67 J.L. Nancy, La banalità di Heidegger, cit., p. 49. 68 Ivi, p. 56. 69 J. Derrida, Dello spirito, tr. it. di G. Zaccaria, Feltrinelli, Milano 1989. stione che riguarda solo Heidegger: è rivolta anche a noi, a tutti noi, a ogni esercizio del pensiero, oggi come ieri” e non è sufficiente condannare l’antisemitismo in tutte le sue forme, è necessario bensì “metterne in luce le radici – e questo può significare solo intervenire al cuore della cultura”70. La democrazia, come la dittatura, proclama che tutti gli uomini sono uguali e quindi accetta l’ebreo “a condizione che l’ebreo si neghi come tale, si assimili cioè all’idea astratta di uomo che il democratico idoleggia”71; nell’interpretazione “psicologica” che Sartre propone della questione ebraica, l’ebreo autentico rifiuta l’assimilazione democratica, cioè il mondo della separazione e del conflitto di interessi, “il mondo della società divisa in classi”, in quanto nessun carattere, né fisico, né spirituale, né religioso, identifica l’ebreo, che è creazione dei non ebrei: “l’ebreo è nella situazione d’ebreo perché vive nel seno di una collettività che lo considera ebreo”72, scrive Sartre. Non si elimina l’antisemitismo facendo appello alla nozione di “natura umana”73 e a una “uguaglianza astratta”, ma “la figura storica dell’antisemita e dell’ebreo (….) si distrugge soltanto trasferendo il conflitto nel ‘materiale’ terreno della lotta delle classi e delle strutture di produzione”74. La lettura di Contini è sicuramente datata, ma coglie un aspetto essenziale dell’antisemitismo,ossia essere una rappresentazione mitica del conflitto che vige all’interno della borghesia, tesi sostenuta, anche se con una tonalità differente, da Horkeimer e Adorno75. I due rappresentanti della Scuola di Francoforte mettono in luce come l’antisemitismo trova il suo fine ultimo e la sua utilità all’interno del potere, anche se lo spirito 70 J.L. Nancy, Banalità di Heidegger, cit., p. 62. 71 F. Fortini, Gli ebrei di Sartre, in “Avanti!”, Milano, 10 luglio1948, postfazione a J.P. Sartre, L’antisemitismo, tr. it. di I. Weiss, appendice di F. Fortini, B.H. Lévy, F. Collin, SE, Milano 2015, p. 105. 72 “L’ebreo è un uomo che gli altri uomini considerano ebreo: ecco la semplice verità da cui bisogna partire. In questo senso il democratico ha ragione contro l’antisemita: è l’antisemita che fa l’ebreo”, J.P. Sartre, L’antisemitismo, cit., p. 49. 73 Cfr., N. Chomsky, M. Foucault, Della natura umana. Invariante biologico e potere politico, tr. it. di I. Bussoni e M. Mazzeo, in Appendice i testi di D. Marconi, Il ritorno della natura umana, S. Catucci, La natura della natura umana, P. Virno, Naturalismo e storia:cronaca di un divorzio, DeriveApprodi, Roma 2005. 74 F. Contini, Gli ebrei di Sartre, cit., p. 107. È interessante sottolineare che Fortini mette in evidenza come Sartre non faccia alcun riferimento al testo del giovane Marx, contemporaneo dei Manoscritti economico-filosofici, sulla Judenfrage. Cfr., B. Bauer, K. Marx, La questione ebraica, a cura di M. Tomba, manifestolibri, Roma 2004. 75 M.Horkheimer, Th.W. Adorno, Elementi dell’antisemitismo.Limiti dell’illuminismo, in Id., Dialettica dell’illuminismo, tr. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1988, pp. 182-223. dell’antisemitsmo resta “immerso nell’oscurità”; a poco servono le spiegazioni “razionali, economiche e politiche”, in quanto la razionalità è legata al dominio ed essa stessa “alle radici del male”, piuttosto “il comportamento antisemitico si scatena in situazioni in cui gliuomini accecati e privati della soggettività vengono liberati come soggetti”76. In questo senso, l’antisemitismo diviene un “rituale della civiltà”, mentre i pogrom assumono il ruolo di veri e propri sacrifici rituali; e non essendo una valvola di sfogo le vittime possono essere differenti – zingari, nomadi, vagabondi, ebrei, protestanti, cattolici – e ognuna di esse può diventare assassino “nella stessa voluttà di uccidere”. È interessante ciò che Horkheimer e Adorno affermano di seguito, ossia che non esiste un antisemitismo “genuino” e un antisemita per nascita ma la richiesta di versare sangue ebreo è divenuta per alcuni una seconda natura e questi conoscono così poco il motivo di tale violenza quanto le vittime destinate; ma “ i mandanti supremi, che lo sanno, non odiano gli ebrei e non amano i loro seguaci”. L’ideologia che spinge all’assassinio è “una sorta di idealismo dinamico”, le squadracce fasciste e le bande criminali naziste si ammantano di un’ideologia che parla di salvezza della patria e della famiglia; e tuttavia, la razionalizzazione che doveva giustificare la violenza si ritorce contro gli assassini che si danno alla pura azione, ormai senza scopo. Così, l’antisemitismo “esorta a condurre a termine il lavoro appena iniziato”, poiché tra antisemitismo e totalità vi è un intimo rapporto, e il totalitarismo ha il compito di accecare i suoi seguaci affinché non comprendano nulla. Non differentemente il liberalismo, che aveva reso possibile la proprietà anche per gli ebrei, non concedendo loro, però, il potere, li ha considerati come coloro i quali non hanno mai portato a compimento il “doloroso processo dell’incivilimento”; i banchieri ebrei finanziano il bolscevismo e l’intellettuale che non lavora e non versa sudore, “denaro e spirito”77, sono le due figure emblematiche dell’ebraismo, in quanto “l’antisemitismo borghese” si fonda sull’economia: “il travestimento del dominio in produzione”; è da questo terreno economico che nasce l’odio per gli ebrei – si pensi a per esempio a Shylock e al Mercante di Venezia – e lo si identifica con l’usuraio, con il ladro (“si grida ‘al ladro’ e si indica l’ebreo”), cosicché nessun popolo europeo lo accetta e lo accoglie, e proprio per questo è considerato uno senza radici, un déraciné. E come ci ricorda anche Mosse, gli ebrei che promossero il progresso mer 76 Ivi, p. 185. 77 Si veda il saggio di G. Simmel, Le metropoli e la vita spirituale, in T. Maldonado (a cura di), Tecnica e cultura. Il dibattito tedesco fra Bismarck e Weimar, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 65-79. cantile e capitalistico, in nome del quale sono stati sterminati, erano particolarmente odiati dagli artigiani e dai contadini, andati in rovina proprio a causa del capitalismo industriale e finanziario. L’antisemitismo nazista non si fonda su un fattore religioso ma sulla purezza della razza della nazione tedesca, ma per Horkheimer e Adorno proprio l’attenzione che il nazismo usa per evitare motivi religiosi nella persecuzione degli ebrei mostra altresì come al suo interno la tradizione religiosa e l’idiosincrasia cristiana per gli ebrei abbia una valenza determinante; le rivolta popolari – epigoni degli Schärmer – si trasformano nella mitologia wagneriana del Santo Gral, “fanatici della comunità di sangue” (la Volksgemeischaft) e il fanatismo dei capi e dei seguaci non differisce dalla fede religiosa che in passato teneva sottomessi “i disperati”. Della religioni si è perduto il contenuto e di essa sopravvive soltanto l’odio per chi non condivide la stessa fede e non appartiene alla stessa comunità: “l’antisemitismo è tutto ciò che è rimasto, nei cristiani tedeschi, della religione dell’amore”78. L’antisemita odia, il suo è l’atteggiamento dell’idiosincrasia e solo quando tale atteggiamento sarà “elevato a concetto”, ossia abbai preso coscienza di sé, la società potrà “emanciparsi dall’antisemitismo”. Fintantoché esiste l’altro che “occupa troppo posto”, egli va respinto nel territorio del terrore, “chi cerca nascondiglio, non deve trovarlo” e l’altro non può avere diritto di cittadinanza, e anche la profanazione dei cimiteri ebraici rientra nell’ottica di questo feroce antisemitismo, anzi è l’antisemitismo nella sua essenza manifesta; “l’esenzione autoritaria dal divieto” caratterizza e coagula in una unità razziale gli antisemiti: “furorere, scherno e imitazione velenosa sono in realtà la stessa cosa”: Gli emblemi, i simboli, la disciplina e i suoi riti, il fondamento che vorrebbe essere irrazionale e contro la ragione per ammantarsi di essere contro ogni tipo di perbenismo borghese e di valori capitalistici, ha il risultato “di rendere possibile il comportamento mimetico”; tutto l’apparato controrivoluzionario e terroristico “sono altrettante imitazioni organizzate di pratiche magiche, la mimesi della mimesi”79. Questo sistema della dittatura ha bisogno degli ebrei, in quanto il popolo radicato deve differenziarsi dallo sradicato, dell’estraneo che perde la dignita dell’essere uomo; l’antisemita omicida vede nella sua vittima colui dal quale deve difendersi e “chi è stato scelto come nemico è già percepito come tale”. Per i due filosofi, il fascismo europeo di cui il nazismo è l’aspetto più truce e violento ha tutti i sintomi della follia paranoica, così come viene descritta da 78 M. Horkheimer, Th. W.. Adorno, Elementi dell’antisemitismo, cit., p. 191. 79 Ivi, p. 199. Cfr. Ph. Lacoue-Labarthe, L’imitazione dei moderni. (Typographies 2), a cura di P. Di Vittorio, Palomar, Bari 1995. Freud, paranoia che colpisce e rende schiavo tutto il popolo tedesco e i popoli europei. Nel momento in cui la dittura – cioè “la fase totalitaria del dominio” – prende possesso della nazione il pensiero “viene neutralizzato, utilizzato per la qualifica sui mercati settoriali del lavoro e per accrescere il valore commerciale della personalità”80; in tal modo viene meno l’autoriflessione dello spirito, ossia l’unica azione in grado di resistere alla follia dei “ciarlatani della politica” che si servono del sistema che trovano già bell’e fatto del tardo capitalismo maturo e industriale e della sua “mezza cultura assurta a spirito oggettivo”. Tali riflessioni non si distaccano più di tanto dal pensiero heideggeriano sulla tecnica – a differenza di quanto sostiene Jünger – e sull’americanismo, che non va inteso come uno stile di vita, ma come la capacita tecnocratica di gestione del capitalismo produttivo e finanziario. Se pensare significa liberarsi dal dominio e dalla violenza, così che anche l’ebreo appartiene al genere dell’umano, “la questione ebraica si rivelerebbe di fatto come una svolta decisiva della storia”; e anche qui si possono trovare delle analogie, se non addirittura delle involontarie, e forse incoscie, consonanze con il pensiero heideggeriano. Vanno, tuttavia, sottolineati due problemi: la questione ebraica per Heidegger non può delinearsi come una svolta storica del pensiero – la concezione della storia è profondamente ed essenzialmente altra se non contraria alla Historie ebraico- cristiana e al pensiero metafisico che la caratterizza – e la definizione heideggeriana dell’ebreo come l’uomo metafisico per antonomasia e del popolo ebraico come il popolo metafisico si differenzia in modo assoluto dalla lettura umanistica di Horkheimer e Adorno. Eppure nella definizione heideggeriana è difficile reperire una specifica determinazione razziale; piuttosto viene in luce un’accusa, tutta filosoficamente costruita, verso una storia della tradizione ebraica, che non sfocia in antisemitismo – così come viene comunemente classificato dai dizionari di politica – ma nell’adesione del popolo ebraico al sistema metafisico – sia economico che sociale – e anzi a divenire agente della storia dell’essere in quanto storia della metafisica e per questo dell’oblio del Seyn e dello sradicarsi di tutto l’ente dall’essere. Pensare, anche per Heidegger, significa liberarsi dal dominio dei ciarlatani della politica – sia questa espressione del sistema democratico o di un sistema autoritario e dittatoriale –, dal dominio della polis, per ricercare ciò che si è smarrito e che ci ha abbandonato81; ma tale ricerca non si fonda sulla ratio metafisica, né sulla sua storia e sul suo principio; il “nuovo inizio”, 80 Ivi, p. 212. 81 M. Heidegger, L’abbandono, tr. it. di A. Fabris, intr. di C. Angelino, il melangolo, Genova 1983. o l’“altro inizio”, è scevro di ogni possibile fondamento, è pura an-archia. Non si potrebbe comprendere il pensiero an-archico di Heidegger, il suo tentativo di affermare una modalità di pensiero che sfugga a ogni fondamento e che fenomenologicamente descriva l’Ab-grund in quanto Seyn, se si afferma che il nazionalsocialismo è un’“ideologia” al pari delle altre correnti di pensiero politico. Il nazionalsocialismo non è nulla di ideologico e non lo è nel senso in cui intende “ideologia” Destrutt de Tracy e gli altri Idéologues, Karl Marx o Lenin82. “Non ci sono più antisemiti. Alla fine non erano che dei liberali che volevano esprimere la loro opinione antiliberale”83. E forse questa affermazione è utile a dare uno spiraglio di luce sulla querelle che Heidegger non ha mai voluto chiarire. Nemmeno quando a chiedere la parola che potesse quantomeno esprimere, se non proprio un’ammissione di colpa, almeno il riconoscimento di quanto era accaduto ad Auschwitz, fu Paul Celan84, Heidegger fece a meno del suo ostinato silenzio. Sembra quasi che il filosofo segua, come afferma Cioran, una decisione per il nulla85, ma tale ipotesi viene vanificata dal testo heideggeriano La questione dell’essere in risposta a Oltre la linea di E. Jünger86. In realtà il pensiero di cui parla è un pensiero che ha ancora da venire e che potrà attraversare il luogo (Ort) “finora tutto nascosto” del presentarsi essenziale (Wesung) dell’Essere (Seyn) che viene all’aperto (Offenheit) della Radura (Lichtung), la località del Semplice, determinato nel suo carattere di Ereignis. Secondo i maggiori interpreti una delle parole-chiave della ‘filosofia’ heideggeriana è la figura dell’erramento (Irren) che rappresenta il vagare dell’uomo contemporaneo in 82 L’ideologia nasce come quella particolare scienza che combattendo dogmi e pregiudizi mette in atto una demistificazione del sapere; e i cosiddeti Idéologues, gli epigoni dell’età della fede incondizionata nella ragione, costruiscono un sapere che, pur volendo combattere i dogmi, risulta più dogmatico e pregiudizievole essendo connotato da un essenziale carattere razionalistico. Si veda A.L.C. Destrutt de Tracy, Élémentes d’idéologie, Vrin, Paris 2014. 83 M. Horkeimer, Th. W. Adorno, Elementi dell’antisemitismo, cit., p. 215. 84 Si veda quanto del rapporto tra Heidegger e Celan ricostruisce R. Safranski, Heidegger e il suo tempo, cit., pp. 507-510. Tra l’altro egli scrive: “ecco le parole che Celan appunto sul libro degli ospiti [della baita di Heidegger, ndr]: ‘Nel libro della baita, con lo sguardo rivolto alla stella nel pozzo, con la speranza di una parola che viene dal cuore’”, p. 509; la citazione è ripresa da O. Pöggeler, Spur des Wortes. Zur Lyrik Paul Celans, Freiburg, i. B. 1986. Si veda la poesia di P. Celan, Todnauberg, in Id., Poesie, a cura di G. Bevilacqua, Mondadori, “I Meridiani”, Milano 1998, pp. 960-963. 85 E. Cioran, Il nulla, a cura di G. Rotiroti, Mimesis, Milano-Udine 2014. 86 E. Jünger-M.Heidegger, Oltre la linea, tr. it. di A. La Rocca e F. Volpi, saggio introduttivo di F. Volpi, Adelphi, Milano 1989, pp. 107-167. balia della metafisica e della razionalità tecnologica che sta a fondamento dell’ente e dell’agire dell’uomo, in quanto velamento (Verborgenheit) dell’essere. Se è fuor di dubbio che erramento significa l’errore (Irrtum) dell’homo metaphysicus, si può però ipotizzare che erramento esprima anche il vagare senza una meta, l’incamminarsi per sentieri che non portano da nessuna parte e s’interrompono, un tracciare rotte che non hanno approdo. In questo secondo caso, l’errare in quanto vagare potrebbe essere pensato come il cammino dell’uomo nel “tratto estraneo”, il percorso che è costretto a compiere in terra stranera, il divenire deinotatos e non più familiare agli altri suoi simili, e che altro non sarebbe che la raffigurazione della sua propria esistenza. Il tratto estraneo, la terra straniera diverrebbero, allora, l’aperto della Lichtung, il semplice che mai si raggiunge, la località (Er-Orterung) in cui l’uomo, solo, può ascoltare il ri-chiamo dell’Essere. L’erramento (Irren), l’evento (Ereignis) dell’ek-sistere dell’uomo nel luogo dell’Aperto – la Lichtung intesa come il “ci” (Da) del Dasein87– sarebbe,dunque, se questa ipotesi può reggersi, l’immagine dell’an-archia del pensiero heideggeriano. Il termine erramento e la parola an-archia hanno un significato completamente differente da quello attributoli da Trawny, il cui errore (Fehler) consiste, a nostro avviso, nel legare i due termini alla sfera della “politica” e dell’antisemitismo heideggeriano dei Quaderni neri ed estendendo tale negatività assoluta a tutta la sua opera filosofica, buttando via il bambino con l’acqua sporca. La figura dell’erramento fa da pendant a quella di assenza di fondamento del pensiero, ossia al suo essere privo di un principio fondante, e per questo definito an-archico; entrambe, quindi, propongono una narrazione che intende superare la virtualita del pensiero calcolante metafisico, che ha finora dominato l’Occidente, proponendo un’immagine di uomo che supera il genere dell’animalitas – “la metafisica pensa l’uomo a partrire dall’animalitas, e non pensa in direzione della sua humanitas”88 – e del suo essere un vivente dotato di ragione, intende cioè oltrepassare lo schema definitorio di genere prossimo e differenza specifica applicato all’uomo dalla tradizione metafisica. Si comprende allora perché Heidegger intrattenga un colloquio con poeti a 87 Cfr., M. Heidegger, Lettera sull’“umanismo”, cit.; “l’uomo è essenzialmente (west)in modo da essere il ‘ci’ (Da), cioè la radura dell’essere”, p. 48; “che il ‘ci’, la radura della verità dell’essere stesso, vvenga, è la destinazione (Schickung) dell’essere stesso”, p. 65. 88 Ivi, p. 46. lui distanti per formazione e ideologia come Celan e Chair89e con scrittori a lui sicuramente più vicini quali Knut Hamsun e Ernst Jünger. Se i primi due giocano un ruolo importante per quanto riguarda la parola poetica ma soprattutto nel tentativo di dire il silenzio, i secondi trovano la propria collocazione nel rifiuto anarcoide della società contemporanea e nella figura dell’estraniato90. Ciò che non funziona nelle interpretazioni di coloro che mettono al centro il problema dell’antisemitismo consiste nel ridurre la filosofia di Heidegger unicamente alle annotazioni che si trovano nei Quaderni neri, mentre questi vanno letti tenendo presente di volta in volta i corsi tenuti e i libri da lui pubblicati; senza questo continuo confronto, le riflessioni personali e intime diverrebberro una accozzaglia di parole in libertà: i pensieri specificamente filosofici si mischierebbero disordinatamente a riflessioni sulla politica e sulla guerra, sul comunismo, l’americanismo e la Weltjudentum. È solo tenendo presente in modo costante i testi essoterici heideggeriani, ossia la sua meditazione sulla filosofia, che si può comprendere il senso delle controverse affermazioni che si trovano negli Schwarze Hefte. Se questi contengono allusioni e dichiarazioni più o meno esplicite di avversione verso l’ebraismo, sarebbe un errore grossolano affermare che tutta la filosofia heideggeriana prima e dopo il 1933 – per parafrasare il titolo di un testo di Löwith – sia una filosofia antisemita. Lo stesso Levinas – per quanto ne dica Agambene nella sua dotta introduzione – cade in errore quando parla di “filosofia dell’hitlerismo”91; nessuna “filosofia”, infatti, può descrivere e farsi complice dell’infamia dell’hitlerismo e del nazismo, proprio in quanto hitlerismo e nazismo si fondano sulla mera violenza, intesa come unica modalita dell’agire propria della razza (Rasse, non Geschlecht) ariana. Per il nazismo la filosofia e i filosofi fanno tutt’uno con l’“arte degenerata” e così anche la meditazione heideggeriana è considerata dal regime come deleteria se non addirittura nichilista. La questione poi dell’anti 89 Si vedano sul primo i saggi di F. Duque e V. Vitiello, Celan e Heidegger, Mimesis, Milano-Udine 2011, rispettivamente SoAtmen die Brände der Zeit, e Heidegger/ Celan: un rapporto impossibile. Su R. Chair, si veda C. Ochwald, Brevi cenni su Martin Heidegger e René Chair, e A. Dal Lago, Gli dei della Provenza. Note su Heidegger e Chair, in “aut aut”, 235, 1990.; M. Heidegger, Seminari, tr. it. di M. Bonola, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1992. 90 Si veda, tra gli altri, di E. Jünger, Visita a Godenholm, tr. it. di A. Vigliani, Adelphi, Milano 2008. 91 Si veda E. Levinas,, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, tr. it. di A Cavalletti, intr. di G. Agamben, postfaz. di M. Abensour, Quodlibet, Macerata 1996. semitismo e del silezio – la “ferita del pensiero” secondo l’espressione di Blanchot, ripresa da Derrida – sui campi di sterminio da parte di Heidegger sono difficilmente aggirabili, e non è sufficiente il fatto che il filosofo si sia sempre schierato contro il biologismo razziale e l’eugenetica92, caratterizzanti l’armamentatario ‘teorico’ del nazismo. Il silenzio non è solo espressione del senso di colpa e assunzione di responsabilità ma è anche e soprattutto omissione. In questa duplicità e ambiguità cammina l’estraneo e il deinotatos Heidegger, figura emblematica del nostro tempo, che ha tentato di leggere la contemporaneità anche nelle sue piaghe più infette, e, almeno questo gli va riconosciuto, a differnza della maggior parte degli intellettuali collusi con il nazismo, non si è tirato indietro, pur essendo pienamente consapevole che la coerenza non è una virtù “politica”. 92 “Il pensiero della razza (Rassengedanke) viene interpretato in modo metafisico e non biologico. Ma ora chiediamoci: Heidegger invertendo il senso della determinazione, allegerisce o appasentisce il ‘pensiero della razza’? Meglio: una metafisica della razza è più grave o meno grave di un naturalismo o di un biologismo razziali?”, J. Derrida, Dello spirito. Heidegger e la questione, cit., p. 86. TESTI DI HEIDEGGER CONSULTATI NELL’EDIZIONE DELLA GESAMTAUSGABE Klostermann, Frankfurt a.M. 1976 Sein und Zeit (1927), Hrsg. F.W. von Herrmann, 1977 Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung (1936-1968), Hrsg. F.W. von Herrmann, 1981 Holzwege (1935-1946), Hrsg. F.W. von Herrmann, 1977 Vorträge und Aufsätze (1936-1953), Hrsg. F.W. von Herrmann, 2000 Wegmarken ( 1919-1961), Hrsg. F.W. von Herrmann, 1976 Der Satz vom Grund (1955-1956), Hrsg. P. Jaeger, 1997 Unterwegs zur Sprache (1950-1959), Hrsg. F.W. von Herrmann, 1985 Aus der Erfahrung des Denkes (1910-1976), Hrsg. H. Heidegger, 1983 Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit (WS 1929/30), Hrsg. F.W. von Herrmann, 1983 Aristoteles, Metaphysik IX, 1-3. Von Wesen und Wirklichkeit der Kraft (SS 1931), Hrsg. H. Hüni, 1981 Hölderlins Hymnen “Germanien” und “Der Rhein” (WS 1934/35), Hrsg. S. Ziegler, 1980 Einführung in die Metaphysik (SS 1935), Hrsg. P. Jaeger, 1983 Nietzsche: Der europäische Nihilismus (II. Trimester 1940), Hrsg. P. Jaeger, 1986 Hölderlins Hymne “Andenken” (WS 1941/42), Hrsg. C. Ochwadt, 1982 Hölderlins Hymne “Der Ister” (SS 1942), Hrsg. W. Biemel, 1984 Parmenides (WS 1942/43), Hrsg. M.S. Frings, 1982 Phänomenologie des religiösen Lebens, 1. Einleitung in die Phänomenologie der Religion (WS1920/21), Hrsg. M. Jung u. Th. Regehly, 1995. Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis) (1936-1938), Hrsg. F.W. von Herrmann, 1989 Metaphysik un Nihilismus, 1. Die Überwindung der Metaphysik (1938/40), 2. Das Wesen des Nihilismus (1946-1948), Hrsg. H.J. Friedrich Feldweg Gespräche (1944/45), Hrsg. I. Schüßler, 1995 Der Spruch des Anaximander (1946), I. Schüßler, s.d. Bremer und Freiburger Vorträge (1949-1957), Hrsg. P. Jaeger, 1994 Überlegungen, II-VI, VII-XI, XII-XV (1931-1941), Hrsg. P. Trawny, 2014 Anmerkungen I-V (1942-1948), Hrsg. P. Trawny, 2015 FILOSOFIE Collana diretta da Pierre Dalla Vigna 200. Gianfranco Mormino, Spazio, Corpo e moto nella Filosofia naturale del Seicento 201. Maria Teresa Costa, Filosofie della traduzione 202. Giuseppe Zuccarino, Il farsi della scrittura 203. S. Fontana, E. Mignosi (a cura di), Segnare, parlare, intendersi: modalità e forme 204. Giovanni Invitto, La misura di sé, tra virtù e malafede. Lessici e materiali per un discorso in frammenti 205. Enrica Lisciani Petrini, Charis. Saggio su Jankélévitch 206. Anthony Molino, Soggetti al bivio. Incroci tra psicoanalisi e antropologia 207. Franco Rella, Susan Mati, Thomas Mann, mito e pensiero 208. J. D. Caputo e M. J. Scanlon, Dio, il dono e il postmoderno. Fenomenologia e religione 209. Friedrich W.J. Schelling, Esposizione del Processo della Natura 210. Stefano Poggi (a cura di), Il realismo della ragione. Kant dai Lumi alla filosofia contemporanea 211. Ruggero D’Alessandro, Le messaggere epistolari femminili attraverso il ‘900. Virginia Woolf, Hannah Arendt, Sylvia Plath 212. Giovanni Invitto, Il diario e l’amica. L’esistenza come autonarrazione 213. Luca Mori, Tra la materia e la mente 214. 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Mario Augusto Maieron, Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe 309. Antonio De Luca, Annamaria Pezzella (a cura di), Con i tuoi occhi 310. Francesca Michelini, Jonathan Davies, Frontiere della biologia. prospettive filosofiche sulle scienze della vita 311. Andrea Velardi, La vita delle idee. Il problema dell’astrazione nella teoria della conoscenza 312. Annamaria Lossi, L’io postumo. Autobiografia e narrazione filosofica del sé in Friedrich Nietzsche 313. Didier Contadini (a cura di), Menzogna e politica 314. Antonio De Simone, Machiavelli. Il conflitto e il potere. La persistenza del classico 315. Andrea Amato, Il bambino che sono, l’uomo che divento. Genealogia dell’io e narrazione della sua trasmutazione 316. Alessandra Violi, Il corpo nell’immaginario letterario 317. Pietro Greco (a cura di), ArmonicaMente. Arte e scienza a confronto 318. Robert L. Trivers, L’evoluzione dell’altruismo reciproco 319. Matteo Pietropaoli, Ontologia fondamentale e metaontologia. Una interpretazione di Heidegger a partire dal Kantbuch 320. Damiano Bondi, La persona e l’Occidente. Filosofia, religione e politica in Denis de Rougemont 321. G.W.F. Hegel, Il bisogno di filosofia (1801-1804) 322. Leonardo V. Distaso – Ruggero Taradel, Musica per l’abisso. La via di Terezín: un’indagine storica ed estetica 1933-1945 323. Raniero Fontana, Sulle labbra e nel cuore. Il buon uso delle parole nel Talmud e nellʼebraismo 324. Pilo Albertelli, Il problema morale nella filosofia di Platone 325. Gli Eleati, a cura di Pilo Albertelli, 2014, 326. Daniela De Leo (a cura di), Pensare il senso. Perché la filosofia. Scritti in onore di Giovanni Invitto 327. Susan Petrilli, Riflessioni sulla teoria del linguaggio e dei segni 328. Antonio Romano, Seduzione dell’opera aperta. Una introduzione 329. Gian Andrea Franchi, Una disperata speranza. Un profilo biografico di Carlo Michelstaedter 330. Graziano Pettinari, La misura dell’umano. Ontoteologia e differenza in Jean-Luc Marion 331. Francesco Rizzo, Filosofia della grezza materia. Scritto di teoria del linguaggio, etica, estetica 332. Marino Centrone, Rossana de Gennaro, Massimiliano Di Modugno, Silvia La Piana, Giacomo Pisani, Della Bellezza. La scena della scena 333. Giulio Goggi, Al cuore del destino. Scritti sul pensiero. Scritti sul pensiero di Emanuele Severino 334. Alfred Adler, Ernst Jahn, Religione e Psicologia Individuale, a cura di Egidio Ernesto Marasco, postfazione di Gian Giacomo Rovera 335. Laura Gherlone, Dopo la semiosfera. Con saggi inediti di Jurij M. Lotman 336. Marco de Paoli, La Tragica Armonia. Indagine filosofico-scientifica sulla genesi e l’evoluzione del vivente 337. Chiara Paladini, Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart 338. Roberto Lasagna, Il mondo di Kubrick. Cinema, estetica, filosofia 339. Pietro Piro, I frutti non colti marciscono. Temi weberiani e altre inquietudini sociologiche 340. Domenico Felice, Montesquieu e i suoi lettori 341. Emanuele Quinz, Il cerchio invisibile. Ambienti, sistemi, dispositivi 342. Tiziana Pangrazi, Adorata Forma. Saggio sull’estetica di Ferruccio Busoni 343. Leonardo V. Distaso, Estetica e differenza in Wittgenstein. Studi per un’estetica wittgensteiniana 344. Pietro Barbetta, La follia rivisitata 345. F.W.J. Schelling, L’anima del mondo. Un’ipotesi di fisica superiore per la spiegazione dell’organismo universale, a cura di Alessandro Medri 346. Antonio De Simone, L’arte del conflitto. Politica e potere da Machiavelli a Canetti. Una storia filosofica 347. Emilano La Licata, Il terreno scabro. Wittgenstein su regole e forme di vita 348. Anna Valeria Borsari, Franco Farinelli, Eleonora Fiorani, Raffaele Milani, Gian Battista Vai, Naturale e/o artefatto 349. Pietro Abelardo, Etica, a cura di Mariateresa Fumagalli e Beonio Brocchieri 350. Susan Petrilli, Nella vita dei segni. Percorsi della semiotica 351. Lucia Vantini, L’ateismo mistico di Julia Kristeva, prefazione di Wanda Tommasi 352. Ragionamenti percettivi. Saggi in onore di Alberto Argenton, a cura di Carlo Maria Fossaluzza e Ian Verstegen 353. Stefano Rivara, Verità: Pluralismo e teoria funzionalista 354. Ivan Dimitrijević – Paulina Orłowska, Come la teoria finì per diventare realtà. Sulla politica come geometria della socializzazione 355. Julius Evola, Il rientro in Italia 1948-1951, a cura di Marco Iacona 356. Anna Rita Gabellone, Una società di pace. Il progetto politico-utopico di Sylvia Pankhurst 357. Petronio Petrone, Fior da fiore dai Carmina Burana. Morali e di protesta, d’amore e spirituali, di donne e d’osteria. 40 canti dei Clerici Vagantes medievali tradotti nella lingua del nostro tempo con testo latino a fronte 358. Enzo Cocco, Il giardino e l’isola. Due figure della felicità in Rousseau 359. Vergílio Ferreira, Lettera al Futuro, a cura di Marianna Scaramucci e Vincenzo Russo 360. Giorgia Carluccio (a cura di), Laicità dello stato. Ambiti tematici 361. Alfred Adler, Psicodinamica dell’eros. Motivazioni inconsce della rinuncia alla sessualità, a cura di Egidio Ernesto Marasco, postfazione Gian Giacomo Rovera, Edizione integrale 362. Beatrice Balsamo e Alberto Destro (a cura di), Della fiaba. Jacob e Wilhelm Grimm e il pensiero poetante per i 200 anni di Fiabe del focolare 363. Luciano Parinetto, Corpo e rivoluzione in Marx. Morte diavolo analità, 364 Paolo Vidali, Federico Neresini, Il valore dell’incertezza. Filosofia e sociologia dell’informazione 365. Marco Castagna, Il desiderio della lettura. Esercizi. Pratiche. Discorsi 366. Jan Spurk, E se le rane richiedessero un re? 367. Petre Solomon, Paul Celan. La dimensione romena, a cura di Giovanni Rotiroti, traduzione di Irma Carannante, postfazione di Mircea Ţuglea 368. Luisa Della Morte, Margherita Tosi, Nascere umani. Continuare Reich per i bambini del futuro 369. Riccardo Roni, La visione di Bergson. Tempo ed esperienza del limite 370. Emanuele Iula, Carlo Maria Martini. La Parola che rigenera il mondo 371. Cecilia Ricci, Leggere Babele: George Steiner e la “vera presenza” del senso 372. Giuseppe Schiavone (a cura di), L’utopia: alla ricerca del senso della storia 373. Matteo Canevari, Lo specchio infedele. Prospettive per il paradigma teatrale in antropologia 374. Franco Ricordi, L’essere per l’amore 375. Roland Barthes. Il discorso amoroso. Seminario all’Ecole pratique des hautes études 1974-1976 seguito da Frammenti di un discorso amoroso (inediti), Introduzione di Éric Marty, Presentazione e cura di Claude Coste, Introduzione all’edizione italiana, traduzione e cura di Augusto Ponzio 376. Giovanni Botta, La struttura dell’eterno. Le Mélodies di Gabriel Marcel, Prefazione di Pierangelo Sequeri. Contiene un CD con le trascrizioni e le registrazioni sonore delle Mélodies 377. Francesco Panaro, Contro la cultura. Esseri e universi ben invisibili 378. Riccardo Fedriga, La sesta prosa. Discussioni medievali su prescienza, libertà e contingenza 379. Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali, a cura di Massimo Filippi e Marco Reggio, Con un’intervista a Judith Butler e saggi di Massimo Filippi, Richard Iveson, Marco Reggio, James Stanescu e Federico Zappino 380. Paolo Pecere, Dalla parte di Alice. La coscienza e l’immaginario 381. Nazzareno Mazzini, La nebbia non c’è più. Passeggiata lungo i film di Milano 382. Aldo Marroni (a cura di), Laure. La sovrana dell’erotismo 383. Voltaire, Premio della giustizia e dell’umanità, a cura di Domenico Felice. Traduzione di Stefania Stefani 384. S. Facioni, S. Labate, M. Vergani (a cura di), Levinas inedito. Studi critici 385. Luciano Ponzio, Roman Jakobson e i fondamenti della semiotica 386. Julia Ponzio, L’altro corpo del testo. Modello sintattico e interpretazione in Jacques Derrida 387. Romeo D’Emilio, Sub-limis e sub-limo. Al limite estremo: fra Goya e Malevič 388. Marco Piazza, L’antagonista necessario. La filosofia francese dell’abitudine da Montaigne a Deleuze 389. Gian Mario Anselmi, Riccardo Caporali, Carlo Galli (a cura di), Machiavelli Cinquecento. Mezzo millennio del Principe 390. Bethania Assy, Etica, responsabilità e giudizio in Hannah Arendt, Introduzione di Simona Forti, Traduzione e cura di Enrico Valtellina 391. M. Hess, L. Feuerbach, M. Stirner, K. Fischer, Szeliga, La questione Stirner, a cura di Marcello Montalto 392. Rosario Diana, La forma-reading. Un possibile veicolo per la disseminazione dei saperi filosofici. Resoconto ragionato, programma e strumenti di lavoro 393. Giovanni U. Cavallera, Dove Platone riceve il battesimo. La formazione come fondamento nell’Impero Romano d’Oriente 394. Luigi Fraschini, Individuo e mondo nel pensiero dell’antico Egitto. Percorsi antropologici ed epistemologici in una tradizione culturale “pre-greca”, prefazione di Giulio Giorello 395. Fabio Farotti, Et in Arcadia ego. L’incantesimo del nichilismo in pittura, Prefazione di Emanuele Severino 396. Andrea dal Sasso, Creatio ex nihilo. Le origini del pensiero di Emanuele Severino tra attualismo e metafisica, prefazione di Emanuele Severino 397. Stefano Righetti, Etica dello spazio. Per una critica ecologica al principio della temporalità nella produzione occidentale 398. Marco de Paoli, Il soggetto eroico e il suo sguardo da lontano. Sul possesso e sull’oblio di sé 399. Günter Figal, Il manifestarsi dell’arte. Estetica come fenomenologia, edizione italiana a cura di Antonio Cimino, postfazione di Luca Crescenzi 400. Onorato Grassi e Massimo Marassi (a cura di), La filosofia italiana nel Novecento. Interpretazioni, bilanci, prospettive 401. Luca Casadio, L’arte della psicoterapia e la psicologia dell’arte. Per una psicologia narrativa 402. Sergio Sorrentino, Oltre la ragione strumentale 403. Thomas Percival, Etica medica. Ovvero un Codice di istituzioni e precetti adattati alla condotta professionale dei medici e dei chirurghi, a cura di Sara Patuzzo, traduzione italiana di Giada Goracci, con la collaborazione di Sebastiano Castellano 404. Pierpaolo Lauria, Leopardi Filosofo maledetto, prefazione di Alberto Folin 405. Virgilio Melchiorre (a cura di), Un amico fragile. Testimonianze e ricordi per Adriano Manesco, con la partecipazione di Sibilla Cuoghi, Anna Ferruta, Elio Franzini, Gabriele Scaramuzza 406. Mario Augusto Maieron e Giuseppe Armocida, Storia, cronaca e personaggi della psichiatria varesina 407. Georg Simmel, Cultura femminile 408. Francesco Allegri, Gli animali e l’etica 409. Gustav Gustavovič Špet, La forma interna della parola. Studi e variazioni su temi humboldtiani (1927), traduzione e cura di Michela Venditti 410. Maurizio Balistreri, La clonazione umana prima di Dolly. Una fantasia che diventa realtà? 411. Monique Jutrin, Lo zibaldone di Ulisse. Con Benjamin Fondane al di là della storia (1924-1944), traduzione e cura di Anna Carmen Sorrenti 412. Antonio De Simone, L’io reciproco. Lo sguardo di Simmel 413. Mattia Geretto, L’essere e le sue determinazioni. Sulla monadologia di Bernardino Varisco 414. Luigi Ferrari e Luca Vecchio (a cura di), La psicologia critica e i rapporti tra economia, storia e psicologia 415. Gabriele Giacomini, Psicodemocrazia. Quanto l’irrazionalità condiziona il discorso pubblico, prefazione di Angelo Panebianco 416. Sergio Solombrino, Intenzionalità ed esperienza nel Wittgenstein intermedio 417. Alice Gonzi, Monique Jutrin (a cura di), Benjamin Fondane: una voce singolare 418. Vinicio Busacchi, La via della creazione. di valore. Nuovi interventi buddisti 419. Rainer Matthias Holm-Hadulla, Passione. Il cammino di Goethe verso la creatività. Una psicobiografia, traduzione dal tedesco e cura di Antonio Staude 420. Enrico Valtellina, Tipi umani particolarmente strani. La sindrome di Asperger come oggetto culturale 421. Sarah Songhorian, Sentire e agire. L’etica della simpatia tra sentimentalismo e razionalismo. Prefazione di Massimo Reichlin 422. Giacomo Leopardi, “Lo stato libero e democratico”. La fondazione della politica nello Zibaldone, selezione dei testi, introduzione e commento a cura di Fabio Vander 423. Sergio Scalia, Quale futuro. Potenzialità e rischi delle nuove tecnologie 424. Felice Accame, Il dispositivo estetico e la funzione politica della gerarchia in cui è evoluto 425. A. Berriedale Keith, D.C.L., D.litt., Il sistema . Storia della filosofia 426. Paolo Calegari, La comprensione del sociale. Strategie cognitive e prospettiva sul futuro 427. Giulio Schiavoni, Walter Benjamin. Il figlio della felicità 428. David Baumgardt, Il problema della possibilità nella Critica della ragion pura, nella moderna fenomenologia e nella teoria dell’oggetto, edizione italiana a cura di Luigi Azzariti-Fumaroli 429. Giuseppe Polistena, Diacronia. Appunti per una ontologia del tempo 430. Giuseppe Zuccarino, Prospezioni. Foucault e Derrida 431. Silvia Casini, Il ritratto-scansione. Immaginare il cervello tra neuroscienza e arte 432. Simone Furlani, L’immagine e la scrittura. Le logiche del vedere tra segno e riflessione 433. Carmelo Alessio Meli, Kant e la Possibilità dell’Etica. Lettura critico-sistematica dei Primi Principi Metafisici della Dottrina della Virtù 434. Luca Marchetti (a cura di), L’estetica e le arti. Studi in onore di Giuseppe Di Giacomo 435. Teresa Tonchia (a cura di), Lo spettro della fine. Pensare l’Apocalisse tra filosofia e cinema 436. Jean Soldini, Alberto Giacometti. Lo spazio e la forza 437. Paolo Piccari (a cura di), Forme di realtà e modi del pensiero. Studi in onore di Mariano Bianca 438. Gianfranco Longo, Empireo. Dio, i cori angelici e il fondamento blu della creazione 439. Domenico Gallo, Il ribelle del pensiero. Albert Einstein e la nascita della fisica quantistica 440. Martino Feyles, Margini dell’estetica 441. Francesco Gregorio, Giuseppe D’Anna, Alessandra Anna Sanna (a cura di), Filosofia e pratiche dei saperi 442. Tiziana Pangrazi, Ritorno al cielo. L’estetica musicale in Italia dal Trecento al primo Novecento 443. Leo Frobenius, Paideuma. Lineamenti di una dottrina della civiltà e dell’anima, traduzione e cura di Luciano Arcella 444. Tristana Dini, La materiale vita. Biopolitica, vita sacra, differenza sessuale 445. Roberto Bertoldo, La profondità della letteratura. Saggio di estetica estesiologica 446. Giorgio Tettamanti, L’eone della cosa. Saggio filosofico da Aristotele a Carl Schmitt 447. Markus Ophälders, Dialettica dell’ironia romantica 448. Luciano Ponzio, Icona e raffigurazione. Bachtin, Malevič, Chagall 449. Viola Carofalo, Dai più lontani margini. J.M. Coetzee e la scrittura dell’Altro 450. Elisa Cecconi, Ontogenesi molecolare e cellule staminali pluripotenti indotte. Indagini epistemologichce e implicazioni bioetiche 451. Marcello Ghilardi (a cura di), La filosofia e l’altrove, Festschrift per Giangiorgio Pasqualotto 452. Marco Gigante, Il dovere di non essere sé stessi. La filosofia dell’il y a nell’opera di Emmanuel Levinas 453. Enrico Arduin, Il sottosuolo del presente 454. Giuseppe Craparo (a cura di), Elogio dell’incertezza. Saggi psicoanalitici, prefazione di Franco De Masi 455. Giovanni Gurisatti, L’animale che dunque non sono. Filosofia pratica e pratica della filosofia come est-etica dell’esistenza 456. Ferruccio Rossi-Landi, Linguistica ed economia 457. Lucia Maria Grazia Parente (a cura di), La scuola di Madrid. Filosofia spagnola del XX secolo, prologo di Lane Kauffmann, epilogo di Javier San Martín 458. Emiliano Alessandroni, Potenza ed eclissi di un sistema. Hegel e i fondamenti della trasformazione, introduzione di Remo Bodei 459. Susanna Fresko e Chiara Mirabelli (a cura di), Qual è il tuo mito? Mappe per il mestiere di vivere 460. Volker Halbach, Manuale di logica, a cura di Carlo Nicolai 461. Giovanni Valente, Causalità relativistica. Problemi filosofici all’incontro di teoria dei quanti e relatività ristretta 462. Emilio Mazza, Gazze, whist e verità. David Hume e le immagini della filosofia 463. Simona Alagia, Jan Patočka: la responsabilità del pensiero in pratica 464. Danilo Soscia, Forma Sinarum. Personaggi cinesi nella letteratura italiana 465. Paolo Bartolini, La vocazione terapeutica della filosofia 466. Giuseppe Goisis, Dioniso e l’ebbrezza della modernità. Sei saggi su politica e società, prefazione di Luigi Perissinotto 467. Giuliana Mannu, Aldo Capitini filosofo dell’azione e della libertà. Con un carteggio inedito con Augusto Del Noce 468. Massimo Dell’Utri e Antonio Rainone (a cura di), I modi della razionalità 469. Maria Giuseppina Di Monte, Giuliana Pieri, Simona Storchi (a cura di), Visualizzare la guerra. L’iconografia del conflitto e l’Italia 470. Giuseppe Morello, La parola e il Leviatano. Segni, linguaggio e retorica nel pensiero politico di Hobbes 471. Fulvio Palmieri, Troppo umano. Sociologia della genetica 472. Marco Ferrari, Libertà va cercando. Percorsi di filosofia medievale 473. Calogero Caltagirone, Ri-pensare l’uomo “tra” empirico e trascendentale 474. Paolo Calandruccio, Alessio Tommasoli, Guido Traversa (a cura di), Storia della filosofia per consulenti filosofici 475. Claudio Corradetti, Kant e la costituzione cosmopolitica. Tre saggi 476. Francesco Cerrato, Stili di vita, Fonti, forme e governo nella filosofia spinoziana degli affetti 477. Paolo Nardon, Incarnare, impietrire. Antropologia della roccia 478. Vittorio d’Anna, Herbert Marcuse. Il positivo nella filosofia negativa 479. Mattia Luigi Pozzi, Cioran e l’Occidente Finito di stampare nel mese di ??? 2019 da Digital Team - Fano (PU)