La ricerca si sviluppa su tre capitoli, si apre con un’introduzione e si conclude con le considerazioni riassuntive e finali. Nell’introduzione sono posti i termini del problema che trae origine da due innovazioni legislative: il conferimento delle funzioni relative ai beni del demanio statale alle autonomie territoriali e la privatizzazione dei beni pubblici. Queste innovazioni, in particolare la privatizzazione, hanno indotto la dottrina ad una rivisitazione dei modelli dogmatici in tema di beni pubblici verso l’affermazione di una frammentazione del regime demaniale. Secondo questa tesi, che appare dominante, il regime demaniale si è frammentato perché non si regge più sui pilastri della “riserva” (nessun soggetto giuridico diverso dall’ente territoriale è legittimato a divenire proprietario) e della “destinazione” (il bene è vincolato alla soddisfazione di determinati interessi pubblici), ma è caduta la prima e si è rafforzata la seconda. In breve secondo queste teorie non vi è più il limite alla circolazione del bene, il quale può circolare (pur gravato da un onere reale di destinazione) recuperando quindi il valore di scambio. Nel primo capitolo si esclude che questo modello possa essere adottato con riguardo ai beni ad uso collettivo, ritenuta categoria distinta rispetto agli altri beni pubblici. Si esclude che possa essere adottato il modello della “frammentazione del regime demaniale” e si sostiene anzi che nei beni pubblici ad uso collettivo rimanga ferma la “riserva” intesa come inappropriabilità a titolo individuale della cosa e delle utilità che la cosa è idonea a rendere. Un nuovo modello dogmatico per questi beni deve essere elaborato a partire dalla considerazione che l’uso collettivo implica una regolazione del bene fondata sulla negazione del diritto di escludere. Ciò conduce a ripensare anche al ruolo dell’Autorità amministrativa e degli strumenti giuridici necessari per garantire l’accessibilità della risorsa a favore di chiunque. In questa prospettiva è in particolare riletta la concessione come procedimento diretto a selezionare le utilità della risorsa. Questa funzione è essenzialmente propria di un’autorità esponenziale degli interessi della collettività, ed è distinta rispetto alla funzione di disposizione delle utilità stesse. Nel secondo capitolo è affrontato il tema del conferimento di funzioni dallo Stato alle autonomie territoriali. Poiché, secondo la prospettiva descritta nel primo capitolo, nei beni ad uso collettivo la titolarità del bene si risolve essenzialmente nella titolarità delle funzioni, una volta che le funzioni sono conferite ad un altro soggetto, occorre ricercare un nuovo significato della titolarità. La ricerca lo individua attraverso il principio di sussidiarietà. La titolarità del bene comporta che vi siano funzioni che, in applicazione del principio di leale collaborazione, debbano essere esercitate coinvolgendo lo Stato per il livello sovralocale degli interessi coinvolti. Il terzo capitolo esamina le diverse forme di privatizzazione susseguitesi nel corso di un decennio, soffermandosi in particolare sulla costituzione delle società commerciali alle quali potranno essere trasferiti beni demaniali ed i riflessi della natura della società nella gestione dei beni pubblici. Considerato infine che la ragione politica e legislativa che giustifica la privatizzazione dei beni pubblici è determinata dalla necessità di massimizzare lo sfruttamento economico del bene, sono presi in esame modelli nei quali l’inappropriabilità del bene è compatibile con lo sfruttamento economico della risorsa. Questi modelli di valorizzazione sono l’unica possibile alternativa rispetto al recupero del valore di scambio che non può esservi con riguardo ai beni ad uso collettivo. Nelle considerazioni conclusive e finali, nel ripercorrere gli argomenti esaminati nei tre capitoli, si afferma che per i beni ad uso collettivo occorre abbandonare l’idea di una proprietà compatta che si polarizza attorno al titolare. La scelta dell’ordinamento di riconoscere il godimento del bene alla collettività comporta necessariamente la dissociazione tra tale prerogativa e le prerogative che la collettività non può esercitare direttamente, quali il potere decisionale, il diritto alla rendita degli usi esclusivi, il diritto al risarcimento, il potere di vigilanza etc. In sintesi la domanda non è di chi possa essere il bene, ma come possano essere allocate le utilità della risorsa e come organizzare la struttura amministrativa responsabile delle prerogative decisionali. Queste considerazioni non eludono il problema posto alle privatizzazioni, ma impongono di ricercare lo sfruttamento economico del bene individuando modelli di uso collettivo compatibili con lo sfruttamento economico, anziché ponendo i beni sul mercato. La perdita del valore di scambio di questa categoria di beni non dipende infatti dal divieto di alienazione, ma dalla struttura della forma di appartenenza. E’ la struttura dell’appartenenza dei beni ad uso collettivo ad essere incompatibile con il mercato. Non è possibile fondare un mercato mediante la proprietà del bene in assenza del diritto di escludere, quando cioè l’ordinamento ha scelto di consentirne a tutti la libertà di utilizzarlo.

Beni demaniali ad uso collettivo - conferimento di funzioni e privatizzazione

OLIVI, Marco
2005-01-01

Abstract

La ricerca si sviluppa su tre capitoli, si apre con un’introduzione e si conclude con le considerazioni riassuntive e finali. Nell’introduzione sono posti i termini del problema che trae origine da due innovazioni legislative: il conferimento delle funzioni relative ai beni del demanio statale alle autonomie territoriali e la privatizzazione dei beni pubblici. Queste innovazioni, in particolare la privatizzazione, hanno indotto la dottrina ad una rivisitazione dei modelli dogmatici in tema di beni pubblici verso l’affermazione di una frammentazione del regime demaniale. Secondo questa tesi, che appare dominante, il regime demaniale si è frammentato perché non si regge più sui pilastri della “riserva” (nessun soggetto giuridico diverso dall’ente territoriale è legittimato a divenire proprietario) e della “destinazione” (il bene è vincolato alla soddisfazione di determinati interessi pubblici), ma è caduta la prima e si è rafforzata la seconda. In breve secondo queste teorie non vi è più il limite alla circolazione del bene, il quale può circolare (pur gravato da un onere reale di destinazione) recuperando quindi il valore di scambio. Nel primo capitolo si esclude che questo modello possa essere adottato con riguardo ai beni ad uso collettivo, ritenuta categoria distinta rispetto agli altri beni pubblici. Si esclude che possa essere adottato il modello della “frammentazione del regime demaniale” e si sostiene anzi che nei beni pubblici ad uso collettivo rimanga ferma la “riserva” intesa come inappropriabilità a titolo individuale della cosa e delle utilità che la cosa è idonea a rendere. Un nuovo modello dogmatico per questi beni deve essere elaborato a partire dalla considerazione che l’uso collettivo implica una regolazione del bene fondata sulla negazione del diritto di escludere. Ciò conduce a ripensare anche al ruolo dell’Autorità amministrativa e degli strumenti giuridici necessari per garantire l’accessibilità della risorsa a favore di chiunque. In questa prospettiva è in particolare riletta la concessione come procedimento diretto a selezionare le utilità della risorsa. Questa funzione è essenzialmente propria di un’autorità esponenziale degli interessi della collettività, ed è distinta rispetto alla funzione di disposizione delle utilità stesse. Nel secondo capitolo è affrontato il tema del conferimento di funzioni dallo Stato alle autonomie territoriali. Poiché, secondo la prospettiva descritta nel primo capitolo, nei beni ad uso collettivo la titolarità del bene si risolve essenzialmente nella titolarità delle funzioni, una volta che le funzioni sono conferite ad un altro soggetto, occorre ricercare un nuovo significato della titolarità. La ricerca lo individua attraverso il principio di sussidiarietà. La titolarità del bene comporta che vi siano funzioni che, in applicazione del principio di leale collaborazione, debbano essere esercitate coinvolgendo lo Stato per il livello sovralocale degli interessi coinvolti. Il terzo capitolo esamina le diverse forme di privatizzazione susseguitesi nel corso di un decennio, soffermandosi in particolare sulla costituzione delle società commerciali alle quali potranno essere trasferiti beni demaniali ed i riflessi della natura della società nella gestione dei beni pubblici. Considerato infine che la ragione politica e legislativa che giustifica la privatizzazione dei beni pubblici è determinata dalla necessità di massimizzare lo sfruttamento economico del bene, sono presi in esame modelli nei quali l’inappropriabilità del bene è compatibile con lo sfruttamento economico della risorsa. Questi modelli di valorizzazione sono l’unica possibile alternativa rispetto al recupero del valore di scambio che non può esservi con riguardo ai beni ad uso collettivo. Nelle considerazioni conclusive e finali, nel ripercorrere gli argomenti esaminati nei tre capitoli, si afferma che per i beni ad uso collettivo occorre abbandonare l’idea di una proprietà compatta che si polarizza attorno al titolare. La scelta dell’ordinamento di riconoscere il godimento del bene alla collettività comporta necessariamente la dissociazione tra tale prerogativa e le prerogative che la collettività non può esercitare direttamente, quali il potere decisionale, il diritto alla rendita degli usi esclusivi, il diritto al risarcimento, il potere di vigilanza etc. In sintesi la domanda non è di chi possa essere il bene, ma come possano essere allocate le utilità della risorsa e come organizzare la struttura amministrativa responsabile delle prerogative decisionali. Queste considerazioni non eludono il problema posto alle privatizzazioni, ma impongono di ricercare lo sfruttamento economico del bene individuando modelli di uso collettivo compatibili con lo sfruttamento economico, anziché ponendo i beni sul mercato. La perdita del valore di scambio di questa categoria di beni non dipende infatti dal divieto di alienazione, ma dalla struttura della forma di appartenenza. E’ la struttura dell’appartenenza dei beni ad uso collettivo ad essere incompatibile con il mercato. Non è possibile fondare un mercato mediante la proprietà del bene in assenza del diritto di escludere, quando cioè l’ordinamento ha scelto di consentirne a tutti la libertà di utilizzarlo.
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