Questa ricerca si svolge su un crinale: su un versante la ricerca focalizzata su come è la realtà, sull’altro su come dovrebbe essere; da un lato la ricerca sulla situazione europea e dall’altro su quella italiana; su un versante la riflessione su cosa significa “sapere una lingua” e sull’altro come mettere in moto un meccanismo che avvicini la realtà delle università italiane a quanto indicato dalla riflessione; da un lato i risultati della ricerca internazionale, dall’altro la constatazione di come stanno le cose in Italia. Camminare su un crinale è pericoloso e faticoso: ma permette di vedere tutto il panorama. E’ questo il tentativo di questa ricerca, condotta a Ca’ Foscari, pensando a riformare la formazione linguistica a Ca’ Foscari, ma cercando di vedere tutto il panorama con un unico sguardo: Europa e Italia, riflessione e progettazione, potenzialità e attuazione. Per delineare la situazione europea ci si è basati su un ampio numero di ricerche, di progetti e di statistiche condotti da varie istituzioni europee: dalla Commissione Europea, l’Eurobarometro e l’Eurostat ai focus group di progetti come ELAN (che ha studiato l’impatto della competenza linguistica nel mercato del lavoro, in particolare gli effetti della scarsa competenza nelle lingue straniere sul commercio) e ENLU (che ha studiato in particolare l’insegnamento delle lingue nelle università). L'analisi dei documenti e dei progetti, integrata con una ricerca specifica su siti e attraverso questionari, ha portato ad individuare alcune tendenze piuttosto chiare riassumibili in tre dati: l’inglese a livello B2 è il minimo per chi deve agire nel mondo attuale; dal momento che l’inglese rappresenta ormai una competenza di base, a dare valore e spessore ad un curriculum vitae è soprattutto la competenza in una seconda ed eventualmente una terza lingua; la sensibilità ai problemi della comunicazione interculturale rappresenta una condizione necessaria per agire sul piano internazionale (cfr. capitolo 1). Quanto alla situazione italiana, si è riservata un’attenzione particolare alla formazione linguistica nelle Facoltà e nei Dipartimenti di area non linguistica (ossia economica, scientifica, letteraria ecc. L'analisi del quadro normativo (tabelle ministeriali e obiettivi formativi dei corsi di laurea), che si presenta abbastanza generico, contiene da un lato chiari riferimenti allo studio delle lingue, pur senza indicare con chiarezza percorsi, livelli, standard di riferimento precisi. In particolare, per le aree scientifica ed economica, gli obiettivi linguistici indicati dal Ministero, seppur nella loro genericità, segnalano la necessità di competenze linguistiche solide (non solo nella lingua della comunicazione quotidiana, ma anche nella microlingua e, in alcuni casi, anche in più lingue straniere), ma la ricerca condotta su un campione di università (quelle che figurano nelle prime 500 università europee e un campione di altre università) evidenzia che proprio nelle aree scientifica e/o economica l’offerta di formazione linguistica appare spesso limitata. A livello organizzativo la situazione è assai variegata: gli atenei, godendo di una certa autonomia sul fronte dell’offerta di formazione linguistica, si sono organizzati secondo criteri diversi, e il peso dello studio delle lingue cambia da ateneo ad ateneo, da facoltà a facoltà (i dati che abbiamo raccolto sono basati ancora per la maggior parte su questa struttura organizzativa, smantellata dalla Riforma Gelmini) e a volte tra singoli corsi di laurea paralleli della stessa facoltà. Si possono comunque evidenziare alcune tendenze comuni, che sono state individuate attraverso una ricerca sul campo e che vengono evidenziate nel capitolo 2. Osservato il panorama europeo e quello italiano, preso atto di come sono le cose, il terzo capitolo studia come dovrebbero/potrebbero essere. Da un lato si puntualizzano alcune nozioni operative, senza le quali il discorso rimarrebbe puramente teorico: ad esempio, si spiega che cosa sono le idoneità, le attestazioni, le certificazioni linguistiche. Si precisano, inoltre, alcune nozioni su cui la ‘sapienza popolare’ dà risposte fuorvianti, quale quella secondo sui le microlingue scientifico-professionali sarebbero essenzialmente delle terminologie, mentre sono tutt’altro e hanno funzioni ben più delicate, quali ad esempio essere riconosciuti e accettati da una comunità scientifica o professionale. Si riprendono, infine, i requisiti posti per i docenti che, in seguito alla Riforma Gelmini, realizzano l’insegnamento obbligatorio di almeno una disciplina non linguistica in lingua straniera in tutte le quinte classi superiori, e li si confronta con una realtà universitaria nella quale molti docenti tengono corsi in inglese senza avere la formazione obbligatoria (e realizzata nelle stesse università…) per un docente di liceo per svolgere lo stesso compito. Dall’altro si è cercato di delineare, sebbene in forma sintetica, il risultato di una riflessione partita negli anni Settanta e che ha radicalmente rivoluzionato l’insegnamento linguistico, puntando al raggiungimento della competenza comunicativa in una lingua, al saper fare con la lingua, al saper interagire in contesti interculturali, fino al saper studiare e seguire corsi in lingua straniera, la cognitive and academic proficiency ben descritta dalla ricerca internazionale ma assolutamente ignorata nelle università italiane. Infine, nel quarto capitolo, si è cercato di creare un modello di riferimento per la formazione linguistica nei corsi di laurea non linguistici: si tratta linee di riferimento, precise nei dettagli ma modificabili a seconda delle decisioni di un Senato Accademico e della politica che intende seguire un’Università. Il modello risulta dall’interazione tra l’osservazione “dal crinale” tra Italia ed Europa, tra quel che dovrebbe e quel che può essere, nonché dall’esperienza di alcuni atenei, e in particolare di vari Centri Linguistici di Ateneo, che su questo tema stanno non solo riflettendo ma anche sperimentando e agendo da almeno un decennio.

La formazione linguistica nell'università

BALBONI, Paolo;DALOISO, Michele
2012-01-01

Abstract

Questa ricerca si svolge su un crinale: su un versante la ricerca focalizzata su come è la realtà, sull’altro su come dovrebbe essere; da un lato la ricerca sulla situazione europea e dall’altro su quella italiana; su un versante la riflessione su cosa significa “sapere una lingua” e sull’altro come mettere in moto un meccanismo che avvicini la realtà delle università italiane a quanto indicato dalla riflessione; da un lato i risultati della ricerca internazionale, dall’altro la constatazione di come stanno le cose in Italia. Camminare su un crinale è pericoloso e faticoso: ma permette di vedere tutto il panorama. E’ questo il tentativo di questa ricerca, condotta a Ca’ Foscari, pensando a riformare la formazione linguistica a Ca’ Foscari, ma cercando di vedere tutto il panorama con un unico sguardo: Europa e Italia, riflessione e progettazione, potenzialità e attuazione. Per delineare la situazione europea ci si è basati su un ampio numero di ricerche, di progetti e di statistiche condotti da varie istituzioni europee: dalla Commissione Europea, l’Eurobarometro e l’Eurostat ai focus group di progetti come ELAN (che ha studiato l’impatto della competenza linguistica nel mercato del lavoro, in particolare gli effetti della scarsa competenza nelle lingue straniere sul commercio) e ENLU (che ha studiato in particolare l’insegnamento delle lingue nelle università). L'analisi dei documenti e dei progetti, integrata con una ricerca specifica su siti e attraverso questionari, ha portato ad individuare alcune tendenze piuttosto chiare riassumibili in tre dati: l’inglese a livello B2 è il minimo per chi deve agire nel mondo attuale; dal momento che l’inglese rappresenta ormai una competenza di base, a dare valore e spessore ad un curriculum vitae è soprattutto la competenza in una seconda ed eventualmente una terza lingua; la sensibilità ai problemi della comunicazione interculturale rappresenta una condizione necessaria per agire sul piano internazionale (cfr. capitolo 1). Quanto alla situazione italiana, si è riservata un’attenzione particolare alla formazione linguistica nelle Facoltà e nei Dipartimenti di area non linguistica (ossia economica, scientifica, letteraria ecc. L'analisi del quadro normativo (tabelle ministeriali e obiettivi formativi dei corsi di laurea), che si presenta abbastanza generico, contiene da un lato chiari riferimenti allo studio delle lingue, pur senza indicare con chiarezza percorsi, livelli, standard di riferimento precisi. In particolare, per le aree scientifica ed economica, gli obiettivi linguistici indicati dal Ministero, seppur nella loro genericità, segnalano la necessità di competenze linguistiche solide (non solo nella lingua della comunicazione quotidiana, ma anche nella microlingua e, in alcuni casi, anche in più lingue straniere), ma la ricerca condotta su un campione di università (quelle che figurano nelle prime 500 università europee e un campione di altre università) evidenzia che proprio nelle aree scientifica e/o economica l’offerta di formazione linguistica appare spesso limitata. A livello organizzativo la situazione è assai variegata: gli atenei, godendo di una certa autonomia sul fronte dell’offerta di formazione linguistica, si sono organizzati secondo criteri diversi, e il peso dello studio delle lingue cambia da ateneo ad ateneo, da facoltà a facoltà (i dati che abbiamo raccolto sono basati ancora per la maggior parte su questa struttura organizzativa, smantellata dalla Riforma Gelmini) e a volte tra singoli corsi di laurea paralleli della stessa facoltà. Si possono comunque evidenziare alcune tendenze comuni, che sono state individuate attraverso una ricerca sul campo e che vengono evidenziate nel capitolo 2. Osservato il panorama europeo e quello italiano, preso atto di come sono le cose, il terzo capitolo studia come dovrebbero/potrebbero essere. Da un lato si puntualizzano alcune nozioni operative, senza le quali il discorso rimarrebbe puramente teorico: ad esempio, si spiega che cosa sono le idoneità, le attestazioni, le certificazioni linguistiche. Si precisano, inoltre, alcune nozioni su cui la ‘sapienza popolare’ dà risposte fuorvianti, quale quella secondo sui le microlingue scientifico-professionali sarebbero essenzialmente delle terminologie, mentre sono tutt’altro e hanno funzioni ben più delicate, quali ad esempio essere riconosciuti e accettati da una comunità scientifica o professionale. Si riprendono, infine, i requisiti posti per i docenti che, in seguito alla Riforma Gelmini, realizzano l’insegnamento obbligatorio di almeno una disciplina non linguistica in lingua straniera in tutte le quinte classi superiori, e li si confronta con una realtà universitaria nella quale molti docenti tengono corsi in inglese senza avere la formazione obbligatoria (e realizzata nelle stesse università…) per un docente di liceo per svolgere lo stesso compito. Dall’altro si è cercato di delineare, sebbene in forma sintetica, il risultato di una riflessione partita negli anni Settanta e che ha radicalmente rivoluzionato l’insegnamento linguistico, puntando al raggiungimento della competenza comunicativa in una lingua, al saper fare con la lingua, al saper interagire in contesti interculturali, fino al saper studiare e seguire corsi in lingua straniera, la cognitive and academic proficiency ben descritta dalla ricerca internazionale ma assolutamente ignorata nelle università italiane. Infine, nel quarto capitolo, si è cercato di creare un modello di riferimento per la formazione linguistica nei corsi di laurea non linguistici: si tratta linee di riferimento, precise nei dettagli ma modificabili a seconda delle decisioni di un Senato Accademico e della politica che intende seguire un’Università. Il modello risulta dall’interazione tra l’osservazione “dal crinale” tra Italia ed Europa, tra quel che dovrebbe e quel che può essere, nonché dall’esperienza di alcuni atenei, e in particolare di vari Centri Linguistici di Ateneo, che su questo tema stanno non solo riflettendo ma anche sperimentando e agendo da almeno un decennio.
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